mercoledì 26 settembre 2012

Cantica per Milano di Roberto Bagnera


L'imponente edificio delle Cristallerie Livellara, via Bovisasca 59, nelle cui forme è possibile ravvisare echi delle teorie architettoniche futuriste dell'architetto antonio Sant'Elia



Estratto da Milano Futurista


 



Vera protagonista del Futurismo, ispiratrice e musa, Futurista essa stessa in pectore, la città di Milano ha rappresentato l’habitat ideale per il propagarsi della rivoluzione culturale di Marinetti.

I fermenti socio-intellettuale di inizio secolo scorso, i salotti cosiddetti letterari, non dimentichiamo quello di Margherita Sarfatti, insostituibile vestale del Novecento cittadino, le vaste periferie che si prestavano ad una nuova veste architettonica, la fiorente industria metallurgica, costituivano in modo imprescindibile il substrato magmatico creativo per il nuovo a tutti costi propugnato da Marinetti e soci.

A ben vedere però, nel preciso ambito dell’architettura, il Futurismo a Milano non ha lasciato alcunché , né edifici, né  costruzioni, nessuna ristrutturazione o rielaborazione di immobili preesistenti, le teorie propugnate dagli architetti legati al movimento furono quasi subito introiettate e trasformate da una corrente, detta Razionalismo, che andava affermandosi in città pressoché contemporaneamente e della quale esponenti di primo Piano furono, fra gli altri, Giovanni Muzio e Gio Ponti.

L’unico architetto autenticamente futurista, fu Antonio sant’Elia (1888 - 1916) che però morì troppo giovane, senza aver avuto il tempo di mettere in pratica i frutti del suo genio e della sua personalità.
A livello progettuale ha lasciato l’opera Città Nuova, redatta negli anni 1913-1914, nella quale, attraverso una raccolta di schizzi e prospettive teorizza un architettura che potremmo definire in movimento, dove lo spazio si risolve in un sistema urbanistico integrato dove la scienza tecnologica assume un ruolo di primo piano.

Nel manifesto dell’Architettura Futurista Sant'Elia esprime in termini teorici un rifiuto della monumentalità che viene tradito tuttavia dalle scelte poi messe in essere nei suoi schizzi: le sue architetture della città futurista hanno connotazioni monumentali molto forti, l’idea stessa di una città stratificata, dove le diverse reti infrastrutturali si scavalcano, rimanda alla concezione della città ideale leonardesca.
C'è in Sant'Elia la volontà di fare tabula rasa per creare una nuova città che sia espressione ed esaltazione delle nuove esigenze, cancellando non solo la tradizione classica ma anche quella più recente. (...)
L'edificio delle vetrerie Livellara in via Bovisasca realizzato su disegni di Sant'Elia


Come abbiamo già detto non esistono a Milano edifici autenticamente futuristi ragione per la quale in questo capitolo ci accingiamo a percorrere un viaggio nella memoria attraverso quelle suggestioni e quelle realizzazioni che riconducano al fermento vivace di quello scorcio di secolo.

La prima e doverosa tappa sarà un omaggio a Filippo Tommaso Marinetti, varchiamo quindi il cancello del Cimitero Monumentale, dove, nel campo 4, a destra del viale centrale che dal Famedio si diparte perpendicolare verso il centro della necropoli, a terra, si trova una tomba modesta, ricoperta di una lastra di bronzo decorata ai lati con delle greche di sapore vagamente floreale: insieme al poeta riposano, nella stessa sepoltura, il padre e la moglie Benedetta.
Una tomba piccola, quasi anonima, mentre intorno è uno svettare di monumenti funebri in stile Razionalista e Liberty.
Sulla lapide una scritta semplice: Filippo Tommaso Marinetti. Poeta.

Al riparto XIX, sepoltura n 229, sosteremo davanti al monumento a Carlo Carrà: un busto in bronzo realizzato da Giacomo Manzù si erge su di una base in serpentino sgrezzato ad opera dell’architetto Giovanni Muzio.
Al Riparto XX sepoltura n 20 incontreremo il monumento dedicato ad Enrico Cavacchioli, mentre nel giardino del rialzato di Ponente sepoltura n 925 sosteremo davanti alla tomba di Paolo Buzzi.

Nel giardino cinerario di Levante sepoltura n 141-144 sosteremo davanti alla tomba di famiglia dove trovano riposo i resti del poeta Gian Pietro Lucini.

Riportandoci verso l’ingresso del Monumentale ci soffermeremo al Riparto XVII, n 202, qui si trova la sepoltura dedicata all’aviatrice Gabriella Angelini, pioniere del volo femminile italiano, ottenne il brevetto di pilota di aerei negli anni Venti, aveva raggiunto la notorietà per aver realizzato un  raid aereo in collaborazione con l'Aero Club Milano.
Fu anche la prima aviatrice italiana ad effettuare un tour aereo sull'Europa, ricevendo per questo un'aquila d'oro dal regime fascista.

Una sorridente Gabriella Angelini
 L'aeroplano che fu usato per quell’impresa, un Breda Ba.15, è esposto nel padiglione aeronavale del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia "Leonardo da Vinci" di Milano.
Mentre effettuava un volo da Tobruk a Bengasi, su di un aeroplano Breda, precipitò sul deserto libico, i resti straziati del suo giovane essere furono ritrovati solo dopo giorni di ricerca, la salma fu quindi riportata in Italia ed esposta all' omaggio pubblico a Milano nella Casa del Fascio in Piazza General Cantore, per poi essere seppellita nel cimitero Monumentale.
Il monumento è rappresentato da una slanciata figura femminile, opera in bronzo dello scultore Giuseppe Enrini, dove il tema dell’anima che abbandona il corpo è interpretato in chiave futurista ed aviatoria, sulla base sono incise le parole: “In ardimento cadde dal cielo e in gloria vi risalì. Aviatrice. Cielo d’Africa. 1932”. A fianco della figura femminile trova posto una scultura, ugualmente in bronzo, costituita da una contorta elica posta in verticale, a grandezza naturale sulla quale è inciso l' epitaffio: ...ed or non batte più che l' ala del mio sogno.
Vale qui la pena ricordare che Pino Masnata, medico vogherese, parolibero futurista ed intimo amico di Marinetti, dedicò a questa intrepida figura una sua “Sintesi Radiofonica”: L’aviatrice Gaby Angelini, un breve ma insolitamente significativo squarcio di lirica commozione. Ne riportiamo il finale:
3° voce di donna: Come è bello volare. Cielo. Tutto Blu. Italia. Mare e Cielo. Al di sopra del mondo.
                            Aeroplano, portami al di sopra delle nuvole. Blu. Eternità

Il rumore dell’aeroplano cessa. Pausa. Rumore sordo di caduta. Silenzio.
Rumori d’ambiente ambientali di un interno di chiesa piena di gente.

L’ultima sosta della nostra breve visita al Cimitero Monumentale la riserviamo all’edicola dedicata alla Famiglia di Carlo Erba, fondatore dell’omonima casa farmaceutica, che si trova al Riparto I n 175, un’architettura monumentale dove richiami rinascimentali, greci, bizantini ed egizi sottolineano un notevole impatto volumetrico. Qui ricorderemo  Carlo Erba, pittore futurista, omonimo del capostipite, che fece parte del e che morì, giovanissimo, durante un assalto nella prima Guerra Mondiale.
Al battaglione volontario ciclisti ed automobilisti di Milano è altresì dedicata una lapide posta sui muri perimetrali del cimitero a imperitura memoria delle belliche imprese di quello che fu definito il battaglione futurista.
Il “Battaglione Lombardo volontari Ciclisti ed Automobilisti”, fu costituito a Milano come una unità para-militare  il cui obiettivo era quello di preparare alla guerra i propri componenti attraverso un rigido addestramento  fatto di marce e prove di sparo.
Fra i primi a che si arruolarono ci furono Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, il giovanissimo architetto Antonio Sant’Elia e Filippo Tommaso Marinetti, in seguito raggiunti dai pittori Mario Sironi, Achille Funi, Carlo Erba, Ugo Piatti, e dal musicista e pittore Luigi Russolo.
Il Battaglione Lombardo, composto da 500 biciclette, 20 moto e 4 camion, guidato da 22 ufficiali, con 2 medici al seguito, fu inviato in zona di guerra sulla sponda orientale del Lago di Garda, nelle retrovie del fronte trentino, dove,  il 24 ottobre 1915, parteciparono alla battaglia di Dosso Casina conquistando un’importante posizione nei pressi del monte Altissimo
                                    Milano parenza del Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti


Il 1° dicembre 1915 il corpo Volontari Ciclisti Automobilisti fu sciolto per esigenze belliche, e i volontari che lo componevano furono congedati temporaneamente, per poi essere richiamati alle armi.
Impiegati nei principali fronti di guerra, alcuni di loro pagarono la loro voglia di arruolarsi con la vita, altri furono gravemente feriti o colpiti da esaurimenti nervosi.
Tra le fila del movimento futurista si ebbero oltre dieci morti, tra cui Umberto Boccioni ed Antonio Sant'Elia, Carlo Erba.


Rientrando in città volgeremo il passo verso il quartiere di Brera, dove ha sede l’Accademia d’Arte, frequentata da Carlo Carrà e da  altri giovani futuristi.
A pochi passi da qui, in via Fiori Scuri, troveremo la lapide commemorativa della Antica Farmacia di Brera, dove il primo Carlo Erba iniziò la sua attività creando, fra gli altri quei prodotti di cui tutti ancora serbiamo memoria: dalla polvere Idriz, alla Farina Lattea Granulare, dall’Estratto di Tamarindo all’Erbamil, quello che “Trasforma la sofferenza in un sorriso”.
Come ulteriore curiosità va citata la produzione in campo profumiero dell’azienda tra i cui prodotti spicca il profumo “Assalto”, fu realizzato nel 1917, con l’intento di recuperare una somma da impiegare per l’acquisto di armi per l’esercito italiano in seguito alla rotta di Caporetto.
L’idea fu di Giuseppe Visconti di Modrone, che all’epoca era sposato con Carla Erba, la figlia del fondatore, e che frequentava spesso i locali ed i laboratori dell’azienda
La sagoma della boccetta richiama un milite con l’elmetto e nella confezione dell’epoca era inserito un foglietto che incitava ad incoraggiare ed aiutare l’esercito.
Un esemplare di questa creazione si puo’ osservare nel Museo del Profumo, una istituzione di proprietà privata, che si trova in via Messina 55.

Sempre nel quartiere, in via Brera 19, troviamo l’edificio che rappresentò la prima abitazione milanese di Margherita Sarfatti, prima che si trasferisse in Corso di Porta Venezia 91, nel palazzo che fa angolo con la via Palestro,dove avrebbe tenuto il suo celebre salotto frequentato, fra gli altri da Boccioni, Sironi, Marinetti e Benito Mussolini.

Ci recheremo ora in galleria, al cui ingresso sarà piacevole sostare per un aperitivo in quel gioiello Liberty che è il Camparino, invitabilmente sorseggeremo un Bitter, magari servitoci dalla bottiglia progettata da Depero e ci faremo trascinare dalla suggestione dentro le linee del famoso quadro di Boccioni Rissa in galleria. Del 1910.

Anche l’esperienza artistica di Carlo Carrà affronta il tema della città ,caratterizzandone  la fase futurista, e permane come una costante nella sua produzione, anche se si coniuga in forme molto diverse: dal divisionismo dinamico delle piazze milanesi, alle sintesi futuriste che affiancano il Manifesto di Marinetti, agli scenari cubisti del 1912 - 1913, ai collage paroliberi, fino alle visioni metafisiche del poeta-pittore, che dal suo studio evoca un rapporto tutto mentale con il mondo esterno.

Ricordiamo brevemente il Ristorante Bar Savini, sempre in Galleria, che fu teatro di memorabili cene tenute da Marinetti e dai suoi compagni ed il Caffè Centrale, poco distante da qui, oggi non più esistente, che si trovava in via Carlo Alberto, l’odierna via Mazzini, locale che Boccioni Carrà ed altri futuristi erano soliti frequentare.

In piazza San Sepolcro si trova il quattrocentesco palazzo dei Castani, nelle cui sale il 23 marzo del 1919 furono fondati i fasci di combattimento alla presenza di Filippo Tommaso Marinetti e di Benito Mussolini, quest’ultimo era allora direttore del giornale “Il Popolo d’Italia” che aveva la sua sede poco distante da qui, in via Paolo da Cannobbio.

Ci dirigiamo con passo svelto in Corso Venezia fino ad incrociare la via Senato, qui al civico n 2 potremo leggere la lapide commemorativa di Marinetti che in questo palazzo  giallo e grigio, di quattro piani, abitò con la famiglia, prima di trasferirsi un poco più in là nella famosa casa rossa, un edificio in stile risorgimentale, oggi scomparso.
Al suo posto, Corso Venezia 37, oggi troviamo una costruzione degli anni Trenta che è sede dell’Istituto di Previdenza, se però ci inoltriamo nel cortile avremo occasione di ammirare alcuni frammenti superstiti della casa rossa, detta anche casa dei Ciani, si tratta delle intelaiature di due finestre e di un portone, rivestiti di terracotte scolpite dove campeggiano figurine militari, cannoni e scene allegoriche dedicate alle guerre d’Indipendenza: fra di esse un Garibaldi che entra in città sul suo bizzoso cavallo, un General Lamarmora che guida i suoi bersaglieri alla carica ed un Camillo Benso, Conte di Cavour, che si erge sul suo seggio in parlamento. (...)




Di nuovo a zonzo per la città, osserveremo la Torre Littoria
che fu costruita in occasione della quinta Mostra Triennale delle Arti Decorative su progetto dell’architetto Giò Ponti e venne inaugurata il 10 agosto 1933.
La torre era rimasta chiusa sin dal 1972, ma a partire dal 1985 è stata fatta restaurare a spese della notissima distilleria di liquori Fratelli Branca E' stata riaperta al pubblico per la prima volta nell’estate del 1997. Dalla torre, la cui saletta di vertice, 97 metri sopra la città, non può più essere per ragioni di sicurezza il ristorante che vi era alle origini, è possibile avere una visione panoramica sui principali monumenti della città: l'Arco della Pace, il Castello Sforzesco e il Duomo, un luogo unico per ammirare i panorami su Milano.
L’ascensore panoramico consente di salire lungo i 99 metri in circa 90 secondi sino al locale belvedere. Dal 9 febbraio ad aprile la Torre Branca è aperta al pubblico due giorni alla settimana, il mercoledì e il sabato, dalle ore 9 alle ore 16.

Ancora in Piazza Cavour sosteremo ad ammirare il Palazzo dell’Informazione, che fu costruito tra il 1938 ed il 1942 dall'architetto Giovanni Muzio ed era destinato ad essere la sede del quotidiano "Popolo D'Italia", che qui veniva composto e stampato.
La composizione delle facciate è caratterizzata dalla bidimensionalità degli elementi, con l'accenno nei movimenti delle superfici marmoree di un alto portico centrale sovrastato da un bassorilievo eseguito da Mario Sironi.
E proprio a Sironi è  dedicata, all'ultimo piano dell'edificio, la grande sala attrezzata per congressi ed esposizioni, qui trova collocazione il noto mosaico, eseguito dall’artista, l’Italia Corporativa, esposto parzialmente alla VI Triennale e,nella sua completezza, a Parigi nel ’37 all’Esposizione Universale e infine definitivamente collocato a disposizione della nostra città.



Notevole per la quantità di opere in esso presente è poi il Palazzo di Giustizia, attuale Corso di Porta Vittoria, che terminato nel 1940: una mole disegnata non per la piccola dimensione umana ma per gli eroi del sogno imperiale del regime.
L’edificio si presenta con quattro prospetti interamente rivestiti in marmo che poggiano su un basamento di scuro serizzo.
Gli ambienti interni, ovviamente enormi, sono costituiti da ben 1200 stanze e 65 aule.
Per quanto discutibile possa essere quell’immensa profusione di marmi e volumi monumentali e celebrativi, va comunque riconosciuto a Piacentini il merito di aver collaborato  con più di 150 artisti milanesi per la realizzazione delle varie parti decorative del complesso architettonico, all’interno del Palazzo di Giustizia sono presenti diverse opere d’arte sconosciute ala maggior parte dei milanesi.
Nelle varie locazioni del palazzo troviamo pannelli decorativi, bassorilievi, statue, affreschi e mosaici dei più noti artisti dell’epoca, nomi quali Carrà, Campigli, Sironi, Fiume, Manzù, per citarne alcuni.
Un grande mosaico di Mario Sironi, del 1935, orna la parete di fondo dell’Aula d’Assise: una casta fanciulla che impersona la Giustizia è raffigurata a vivaci colori ed  è accompagnata da una figura femminile che rappresenta la Legge e ne regge le Tavole, un giovane forzuto completa il gruppo trasportando il fascio, insegna del potere dei magistrati dell’antica Roma, ma anche del regime fascista, mentre più in là la Verità volge uno sguardo fiero al terzetto testè descritto, i più maliziosi sostengono che gli occhi della fanciulla abbiano un’espressione di dubbiosa perplessità.

Poco lungi da qui, in via Freguglia 14, sosteremo davanti  all’edificio che ospita la casa del Mutilato, un tipico esempio dell’architettura di Regime.
Progettato dall’ingegnere comunale Luigi Lorenzo Secchi, fu costruito tra il 1937 ed il 1942.

Sempre in Corso di Porta Vittoria al civico numero 43 troviamo l’imponente architettura sede della Camera del Lavoro:
in origine era la Casa dei Sindacati Fascisti dell’industria.
L’edificio risale agli anni Trenta e fu realizzato su progetto dell’Architetto Antonio Carminati.
Da rilevare che le facciate dei due corpi che si allungano verso il Corso conservano tracce degli originari fasci littori che ne decoravano la superficie e che
furono distrutti durante quei giorni di ardente brama vendicatrice che seguirono l’immediata fine del secondo conflitto Mondiale.
 I gruppi scultorei raffiguranti la Marcia su Roma e la Carta del Lavoro, realizzati su disegni di Mario Sironi, che si trovavano lungo il coronamento superiore delle ali laterali furono lasciati colpevolmente andare in malora per poi rimuoverli nel corso del 1967, rimane una testa dell'Italia, conservata all'interno del palazzo, oggi sede CGIL. 

 
La Casa dei Sindacati Fascisti con le sculture originali


A due passi da qui sorgeva il padiglione dismesso, di proprietà delle Officine Grafiche Ricordi, all’interno del quale, il 30 aprile 1911, si tenne la prima esposizione d’arte libera futurista.



Restando nell’ambito dell’ architettura fascista ricordiamo l’edificio in via Nirone 26, che per anni fu la sede milanese della Democrazia Cristiana.
E’ opera degli anni Venti dell’architetto Paolo Mezzanotte che interpreta con stile personale la funzionalità architettonica di quella che in Italia diventa una numericamente nutrita tipologia e inevitabile centro amministrativo di Città e paesi: La Casa del Fascio.
Il fabbricato si sviluppa su un’area di 600 mq., la cui fronte principale è lunga m. 22.50, presenta una struttura murale in mattoni e solo parzialmente in cemento armato, in corrispondenza al salone del piano terreno. I soffitti sono in ferro e volterrane. La facciata è realizzata in travertino nudo mattone chiaro del Vogherese, il portale è ricoperto di rame sbalzato, Il rivestimento dell’atrio è in pietra verde di Montalto, la scala è in marmo di Istria.
Nel piano terreno della fabbrica sono ubicati l’Atrio, il Salone con tribune per conferenze, capace di 1.200 persone, e gli uffici vari. Al primo piano fra gli altri ambienti, si trovano la Sala d’onore e le tribune aggettanti sul salone delle conferenze. (...)


Ancora vale la pena di citare l’ultima opera realizzata dalla coppia Ponti Lancia nel 1936: la casa torre Rasini in corso Venezia 61: un palazzo di sei piani ad angolo che riprende l’allineamento degli edifici vicini con affiancata una torre in mattoni rossi a vista che si pone come elemento di chiusura e di dialogo con il giardino circostante, le linee dell’edificio ricordano, ben più che vagamente, nel contrapporsi delle volumetrie i disegni realizzati da antonio sant’elia nella città Nuova.


Sarà poi nostro dovere segnalare che le civiche raccolte d’arte ospitano un esauriente catalogo di opere futuriste che è sempre possibile visionare. (...)



Una volta ammirate le opere pittoriche degli artisti futuristi non sarà facile sfuggire alla suggestione delle periferie, che tanto spazio trovano nei loro quadri, sarà quindi piacevole passeggiare per le vie del borgo di Porta Romana, magari ricordando i quadri “sobborgo di Milano”, e “Officine a Porta Romana” di Umberto Boccioni che proprio in questa zona, via Adige 23, aveva abitato con la mamma, così come nella residenza di via Castelmorrone 7, dove dipinse l’opera Tre Donne, e  nell’ultima casa-studio da lui abitata ai Bastioni di Porta Romana 15, oggi Viale Regina Margherita 35.

Va assolutamente ricordato che, nel corso del Novecento, soltanto due artisti hanno avuto con la propria opera così tanta importanza sulla città, al punto da modificarne il volto millenario: Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916) e Mario Sironi (Sassari, 1885 – Milano, 1961). Entrambi milanesi adottivi, s’erano compenetrati a tal punto che la città stessa determinò l’impronta della loro opera.
Boccioni rappresentava la visione futurista sorprendendola nei movimenti dei tramway, automobili, biciclette e operai al “febbrile lavoro” nei cantieri.
Sironi arrivò addirittura a trarne un genere, il “paesaggio urbano”, tanto internazionale quanto tipicamente milanese: dalla nuova Stazione Centrale alla Bovisa, dall’Ortica alla Comasina. Modificò la città anche con le proprie opere per committenza ecclesiastica, come ad esempio quel capolavoro che è la vetrata dell’Annunciazione per la cappella dell’ospedale di Niguarda. (...)



Seguendo le suggestioni ispirateci dai quadri di questo artista sarà doveroso recarci alla Bovisa dove svettano i giganteschi e celeberrimi Gasometri e anche ammirare poi quello sito all’Ortica, in via Tucidite, zona dove troviamo anche lo stabilimento della Innocenti.
Seguendo poi il mito futurista della macchina e della velocità ci dirigeremo in via Generale Papa, angolo Ulpio Traiano dove sono ubicati i padiglioni rimasti di quello che, un tempo, era il grande stabilimento milanese dell’Alfa Romeo.
Ancora sarà interessante visitare, in via Mecenate, il complesso di edifici che un tempo facevano parte delle Officine Caproni, in quel quartiere che ha nome Taliedo,  dove sorgeva il Circuito Aereo di Milano.

Non possiamo non citare l’Archivio dedicato all’artista Cesare Andreoni, esponente milanese di punta del cosiddetto secondo futurismo, che si trova in via Volta n 12.
Cesare Andreoni, coadiuvato dalla moglie, Chif, creò l’unica Casa d'Arte milanese, sull’esempio di quella di Fortunato Depero, che aveva sede  in via della Moscova n29, trasferendosi poi in via Statuto n 13, e che fu attiva dal 1928 alla metà degli anni Trenta.


Stanchi ed affamati volgeremo ora il nostro cammino per la via Orti, nella vecchia Porta Romana, dove, in un edificio che era una stazione di Posta, ha sede oggi il ristorante Lacerba, qui sarà possibile gustare alcune preparazioni che fanno riferimento alle fantasiose ricette create da Martinetti e compagni.

Per il bicchiere della staffa, una bella polibibita, per dirla tutta, sarà poi deliziosa una visita al museo della Fratelli Branca, che si trova dentro lo stabilimento di via Resegone, dove ci si potrà immergere nella “degustazione” di molteplici reclames d’epoca che ci faranno definitivamente capire perchè Milano è la capitale del “contemporaneo”.


… e ora, consentitecelo, vogliamo chiudere questo testo citando la frase che scrisse Arthur Rimbaud, annunciando il suo definitivo abbandono dell’arte letteraria, citando poi il titolo di un’opera di Martinetti, col quale sottolineava e sintetizzava l’etica della deflagrazione e infine, come ulteriore omaggio al suo genio con la frase che sempre chiudeva i suoi manifesti programmatici:


…et tout le reste est literature…

…Zzang Tummb Tummb…



Direzione Generale del Movimento Futurista, Milano Corso Venezia 61.

Non v’è più bellezza se non nella lotta di Rolando di Bari



Tratto dalla prefazione a Milano Futurista



Filippo Tommaso Marinetti fu prima di tutto un uomo dagli inquieti appetiti intellettuali; una figura che non poteva trovare un posto di prima fila nelle emergenze culturali della sua epoca perché non sapeva fingere di condividere gli stretti limiti delle avanguardie in auge ai primi del Novecento.
Filippo Tommaso Marinetti aveva, almeno agli inizi, un idolo: Gabriele D’Annunzio. Scrisse, in effetti, il pamphlet Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste, ma non riusciva ad essere al centro dell’attenzione come il suo maestro.
Filippo Tommaso Marinetti aveva un sogno: diventare qualcuno nel panorama culturale del suo tempo.
Filippo Tommaso Marinetti aveva un estremo bisogno di affermare la propria personalità attraverso un progetto che lo rendesse immortale nei cuori e negli animi del suo tempo.
Filippo Tommaso Marinetti voleva stupire e inventare, voleva dire e dare, e voleva, come forse tutti, soprattutto essere.
Forse era conscio che la sua personalità non era strabordante come tanti altri interpreti dell’imperante decadentismo primonovecentesco, D’Annuzio su tutti, certo, ma come non ricordare il des Esseints tratteggiato da Joris Karl Huysmans nel suo celeberrimo A Rebours, o l’immarcescibile Mario l’Epicureo di Walter Pater. Filippo Tommaso Marinetti poteva atteggiarsi a dandy nel ricordo di Oscar Wilde, poteva seguire l’ultima moda e presenziare a feste e ricevimenti, incantando gli astanti con lo sfoggio della propria cultura ma il Mito no, non lo rasentava neanche da lontano, altre erano le figure dirompenti che sapevano veramente soggiogare chi li frequentava; lui no.
E’ indiscutibile peraltro che l’estasi creativa e il tormento di una ricerca ai confini dell’universo gli appartenevano a tutto tondo. Aveva solo bisogno di un’intuizione che lo portasse sulla cima della scala dei valori, che lo additasse come prima donna, sicuramente non furono i suoi primi scritti, incerti e di maniera, a dargli quell’opportunità, anzi, ne decretavano una prematura fine artistica, né fu lo scandalo che uno di essi, Mafarka, gli procurò, a dargli la stura per la celebrità.
No, fu una piccolissima intuizione: ribaltare il problema che assillava le avanguardie culturali dell’epoca.
Mentre tutti si arrabattavano a cercare di rappresentare la realtà con tratti che fossero più consoni a rifletterne le molteplici facce, primo fra tutti il cubismo, con la sua invenzione della visione contemporanea, Marinetti cercò in essa una spiegazione ultima, la trovò nella meccanica del movimento, colse nella realtà la forza propulsiva del mutamento e attraverso questi semplici princìpi si accinse non a raffigurare, bensì a ricreare la realtà stessa piegandola a un nuovo codice di regole: il Futurismo.


Il Futurismo, tra i movimenti artistico-letterari che hanno animato la scena culturale nazionale negli ultimi cinque secoli, è quello che, forse, a cento anni esatti di distanza — la fondazione ufficiale viene di norma ascritta al 1909, — più di ogni altro è rimasto presente nella fantasia, se non nell’esercizio artistico, degli italiani. Questo nonostante abbia sviluppato ed esaurito la sua stagione vitale nell’arco di meno di vent’anni, caratterizzandosi, dunque, tra i movimenti artistici (e tra i fenomeni di costume, quale anche fu) come uno dei più brevi in assoluto di ogni tempo.
Benché non fossero mancate ramificazioni, ancorché molto tiepide, in altri paesi europei (tra questi, stranezza nella stranezza, la lontana Russia), il fenomeno interessò in forma quasi esclusiva la Penisola, e anch’essa solo nelle regioni settentrionali e, in misura minore, centrali. Gli artisti che vi aderirono, in ogni caso, quand’anche di estrazione meridionale, in gran parte operarono negli ambienti artistici e letterari centro-settentrionali.
I suoi princìpi ispiratori e i suoi esiti non sopravvissero, almeno in misura significativa, oltre il suo ristretto arco vitale e gli stessi artisti che vi avevano aderito si espressero poi in altre forme, informandosi a stilemi diversi.


Delle “parole in libertà” e dei “versi liberi” dei poeti futuristi la letteratura italiana non ha conservato tracce; degli “intonarumori” e del “rumorarmonio” — strumenti inventati e costruiti da Luigi Russolo — restano soltanto sbiadite fotografie e scarne documentazioni critiche.
L’arte figurativa futurista, che pure ebbe esponenti e sortì risultati di valore assoluto, si manifestò però in forme espressive non sempre omogenee e forse spesso figlie più della evoluzione dei tempi che non del movimento stesso.
Diversa fu la situazione dell’architettura. L’apporto dei concetti fondamentali del movimento futurista incontrarono, nell’immediato, scarsa applicazione nell’ars costruendi italica — e milanese in particolare, benché a Milano il Futurismo fosse nato e avesse la sua sede naturale, — superati e sostituiti, ancor prima di trovare una realizzazione pratica, dal Razionalismo e dall’architettura di regime che ne rappresentava la strumentalizzazione estrema. Ma gli stilemi, nonché le tecniche, dell’architettura futurista furono quelle che gettarono le basi dell’architettura moderna in Italia, con effetti e derive ancor oggi avvertibili.

Va osservato come il “messaggio futurista” fosse stato scarsamente recepito dal grande pubblico. Per quanto riguarda la letteratura e la musica, gli italiani continuavano a preferire testi in cui il cuore faceva rima con amore.
Nulla a che vedere, dunque, con quanto sostenuto da Marinetti nel suo Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912): « Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono. […] Usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al soggetto e lo sottoponga all’io dello scrittore… […] abolire l’aggettivo… […] sopprimere il come, il quale, il così… […] abolire anche la punteggiatura… ».
La poetica corrente era ancora legata a doppio filo al naturalismo letterario ottocentesco — già peraltro negato, fin dal 1883, da D’Annunzio — e al decadentismo gozzaniano, e le preferenze della popolazione andavano alla lettura del cosiddetto “romanzo d’appendice”, che aveva in Carolina Invernizio e in Guido da Verona i massimi rappresentanti. Il messaggio marinettiano del « facciamo coraggiosamente il brutto » non era, non sarà mai, raccolto dal fruitore medio. E, benché Marinetti stesso commentasse questa posizione negativa con « E che fortuna! », lo scarso numero di estimatori (e di aderenti) incontrato dalla poesia e dalla letteratura futurista circoscrisse il fenomeno a uno sparuto drappello di operatori isolati.


 L'Intonarumori inventato da Luigi Russolo


La musica leggera rispecchiava questi gusti: « …quando d’inverno al mio cuor si stringeva / come pioveva, così piangeva » scriveva (e cantava) Armando Gill nel 1918; E. A. Mario (l’autore della leggendaria Canzone del Piave) gli faceva eco (Vipera, 1919) con « …e quando mi divincolo ribelle a questo amore / qualcosa mi si annoda in fondo al cuore ». Quanto a Gino Franzi e al suo Scettico blu (« Cosa m’importa se il mondo mi rese glacial / se di ogni cosa nel fondo non trovo che mal ») erano figli nostalgici della ormai estinta scapigliatura più che epigoni  del Futurismo.
È interessante notare come la cosiddetta “musica colta” (quella che troppo spesso, con una locuzione del tutto priva di significato, viene popolarmente detta “musica classica”) avesse totalmente ignorato le ispirazioni futuriste e nessuno dei compositori postromantici, veristi e postveristi, di quelli definiti “di transizione” o dei “modernisti”, si fosse lasciato attrarre nell’orbita del nuovo movimento. In realtà l’unico lavoro musicale del quale si può affermare che si identificasse nelle proposizioni e negli ideali futuristi nacque più tardi e in un’area geografica estranea alle esplorazioni di Marinetti & C. La genitura dell’unica composizione che rispecchi fedelmente le filosofie futuriste va infatti assegnata all’elvetico Arthur Honegger, autore nel 1923 di Pacific 231, movimento sinfonico ispirato alla velocità, alla potenza e al fragore di una locomotiva, il cui mondo il compositore dichiarò sempre di amare « passionalmente ».
Agli albori del secolo xx alcuni musicisti, Ferruccio Busoni (autore nel 1907 del saggio Abbozzo di una nuova estetica della musica) tra i primi, avevano concepito una rivoluzione in campo musicale, ma nella realtà l’evoluzione di questo settore artistico seguì strade diverse. Atonalità e dodecafonia si sarebbero tenute lontane dai princìpi futuristi non meno della letteratura modernista.
Rimase, ugualmente estranea alle argomentazioni futuriste la gastronomia, nonostante le sollecitazioni marinettiane (nel 1931, sulla rivista “Comœdia”, lo scrittore avrebbe pubblicato perfino il Manifesto della cucina futurista) e malgrado le proposte del cuoco francese Jules Maincave , il più rilevante apostolo dell’etica culinaria  futurista, il, che suggeriva accostamenti inediti e discutibili di alimenti e sapori, nei quali è possibile identificare una prefigurazione della nouvelle cuisine, non a caso anch’essa creata da un francese, Paul Bocuse. Anche in questo caso gli italiani continuarono a preferire un tradizionale, sano piatto di pastasciutta — proprio ciò che Marinetti aveva proposto di eliminare! — e a utilizzare, per la propria alimentazione, cucchiai, coltelli e forchette, strumenti dei quali era stata pure suggerita l’abolizione.



È altresì un errore storico e ideologico ritenere il Futurismo anticipatore del Fascismo. Il movimento culturale ufficialmente fondato da Filippo Tommaso Marinetti era nato da posizioni ideologiche, discutibili finché si vuole, ma ben precise e definite. Il soggetto politico ideato e creato da Benito Mussolini era invece stato originato dalle aspirazioni autoritarie personali del futuro duce che, unendo i suoi ancora nebulosi progetti politici ai sussulti nazionalisti postbellici, aveva dato vita al movimento fascista. Se è vero che quest’ultimo aveva fatta sua una parte dei princìpi futuristi e che molti “futuristi” — un buon numero dei quali aderì poi effettivamente al fascismo — avrebbero fatto proprie alcune delle ideologie fasciste (ma alcuni, almeno inizialmente, mostrarono simpatie verso il socialismo e il neonato bolscevismo), è altrettanto vero che le dottrine mussoliniane tenevano in scarso conto l’arte e tutte le sue manifestazioni (curiosamente, però, il passatempo preferito da Mussolini era il violino) e che, in conseguenza, il connubio futurismo-fascismo fosse, e rimanga, poco credibile e soprattutto non suscettibile di sviluppi creativi positivi. È anzi vero che la scarsa comprensibilità del messaggio futurista determinò verso questo movimento l’ostilità di molti esponenti del fascismo più generalista. Probabilmente questa avversione non tanto del regime quanto di gran parte dei sostenitori del fascismo portò poi al refluire del movimento futurista verso atteggiamenti meno oltranzisti, in una sorta di rinnovamento che lo stesso Marinetti definì « secondo futurismo ».

Ora, a cento anni esatti dalla fondazione del Futurismo occorre astrarsi dagli aspetti più inconsueti della produzione del movimento e togliere definitivamente il velo consueto con cui si vuole bollare quell’esperienza come cosa di poco conto e involuta in un sé improduttivo. Il Futurismo anzi ha dato, anche involontariamente a volte, una spinta feroce verso la modernità di alcune arti, prime fra tutte la pittura, che in esso colse la scintilla per svincolarsi definitivamente dalla rappresentazione meramente figurativa.
L’intuizione marinettiana di creare nuove regole in cui ingabbiare, e anche con cui domare, l’estrinsecarsi della realtà, hanno portato a risultati inattesi in più di un campo: l’ architettura, paradossalmente, è quella che più immediatamente ha risposto alla chiamata, rigettando i dettami floreali e deco in virtù di una più immediata configurazione delle masse costruttive attraverso il movimento razionalista e le istanze di giovani architetti come Gio Ponti, Lancia, Portaluppi e Muzio, operando quindi in Milano un sostanziale residenzialismo volto al futuro.
La danza moderna è decisamente debitrice a Marinetti dell’uso di mezzi espressivi ed evocativi altri che non il corpo; la cucina internazionale moderna, dicasi e leggasi fusion,piuttosto che molecolare ha fatto propri i giochi di materie prime, consistenze, cromatismi e assonanze, prefigurate nel manifesto della cucina futurista, e la musica ha da par suo definitivamente codificato il gioco di suoni e note attraverso una sperimentazione che vede nella creazione dell’“intonarumori” di Luigi Russolo l’inizio vero e concreto della musica elettronica, laddove i Tangerine Dream e i Pink Floyd più concettuali, piuttosto che i pianoforti preparati di John Cage o di Antonio Ballista, rendono doveroso rendiconto delle intuizioni futuriste.

Se unico neo è la letteratura, va aggiunto che l’estro creativo di Marinetti e dei suoi seguaci ha avuto sempre il merito di appiccare la scintilla a un razzo pronto a volare, con metodi spesso discutibili e trovate spettacolarizzanti.
Il Futurismo ha creato una rappresentazione della realtà sicuramente diversa e più pregna di sviluppi di quanto non fosse stato fatto fino al suo apparire; il suo voler piegare tutto a stretti concetti di dinamica, contemporaneità e velocità seppur non cogliendo risultati immediati ha pur sempre lasciato semi in tutto il panorama culturale che si sarebbe di lì a lì inoltrato nelle epoche e nei tempi.
Una rappresentazione recitata in diversi atti, in diversi spazi, in diversi tempi, e con diversi personaggi, con sviluppi inattesi e una sceneggiatura sempre cangianti: una commedia; una commedia che diventa divina nella sua ricerca delle forze predominanti che stanno dietro l’essere visibile.

Ecco perché la struttura di questo libro ricalca, con timido impatto, la commedia di Dante, laddove il Paradiso ci racconta la figura femminile, il Purgatorio dipana lo sperimentalismo più acuto del Futurismo, e, infine, l’Inferno si occupa dell’artefice primo e ultimo di questa avventura: Filippo Tommaso Marinetti.
È un libro anomalo, certo, perché abbandona la logica cronologica del saggio critico, privilegiando scene cardine, momenti topici, come degli acquerelli a una esposizione — non aveva forse “impeti futuristici” anche Musorgskij?, — dove il protagonista tanto atteso entra in gioco quasi alla fine e dove il vero protagonista, Milano, entra in scena solo all’ultimo atto e s’impadronisce dell’attenzione di tutti definitivamente.
Milano è la culla del Futurismo, ma il Futurismo non ci sarebbe stato, senza la “futuristicità” di Milano, che quindi è giusto si impadronisca dell’ultima parola.
Ogliari e Bagnera — già autori di Milano liberty e Milano déco — hanno voluto, con questo Milano futurista, raccontare a modo loro un momento importante nella storia culturale della città in modo diverso, senza sottostare alle logiche  divulgative che spesso accompagnano pubblicazioni come questa.
Di saggi sul Futurismo ne verranno pubblicati parecchi, in questo anno del centenario, ma i nostri autori hanno preferito rendere omaggio a un uomo, un movimento e a una città che li ha resi possibili, con una diversa interpretazione del fenomeno, senza necessariamente citare e pontificare, senza sfoggio di nozioni e criticismi, anzi con un messaggio non tanto nascosto: la volontà di incuriosire il lettore e spingerlo a indagare da sé.
Seduti in quel caffè, all’ingresso della Galleria, sorseggiando un Campari, Bagnera e Ogliari discettano, con piglio svelto, sul perché e il percome di quella rissa appena sviluppatasi, in quel marasma di rossi, di blu, di verdi, di linee frammentate di azioni…

Milano Futurista di Roberto Bagnera

Ultimo libro sotto l'egida di Francesco Ogliari, porta in copertina, per onor di firma e omaggio alla figura del padre appena venuto a mancare,anche i figli Giacomo e Maria Rachele.


Milano Futurista indaga fra le pieghe del movimento che fa capo allo scrittore e artista Filippo Tommaso Marinetti con una prospettiva insolita, come si vede dalla struttura dei capitoli:  

Parte prima

Paradiso: Tre Donne  
Giannina Censi 
Valentine de Saint Point 
Benedetta Cappa  
Parte seconda

Purgatorio: Tre Sensi  
Vedere 
Sentire 
Gustare  

Parte terza
Inferno: Tre Personaggi in Cerca d’Autore
“lui” 
“Lui” 
Gli “Altri”  

Cantica per Milano

 In ossequio allo sprezzo per la tradizione dei futuristi si immagina una struttura simildantesca inversa, per contrappasso quindi, dove il personaggio più importante, Marinetti, è adombrato in ogni passo, senza assurgere a ruolo di protagonista se non verso la fine del libro, rivestendo la funzione di Deus Ex Machina così come storicamente avvenne nella realtà.

La danzatrice futurista Giannina Censi


Il libro si avvale di preziosi contributi di Rolando di Bari, non citato fra gli autori, per quanto riguarda l'esperienza letteraria del movimento futurista.

La città di Milano, solitamente vista in altre pubblicazioni come semplice scenario accidentale, si erge a protagonista nella parte finale del libro perchè in realtà solo nel capoluogo lombardo avrebbe potuto accendersi la scintilla del Futurismo.