venerdì 17 gennaio 2014

In cerca di radici...etimologiche di Rolando di Bari


Breve compendio sull' origine dei nomi delle cascine lomelline, tratto dal progetto "Il Canto della Terra" realizzato nell'ambito delle iniziative promosse dal Museo della Vita quotidiana Franco Fava




Il risveglio d’interesse, verificatosi negli ultimi decenni, per il patrimonio architettonico rurale e per le tradizioni contadine ha portato alla pubblicazione di innumerevoli libri, che hanno cercato di approfondire gli aspetti storici, architettonici, artistici e i valori umani delle cascine e del loro mondo.
Pochi autori, però, hanno indagato sulla origine di nomi e toponimi relativi a quel mondo che rappresenta tutt’oggi una parte notevolissima nella vita della nostra regione. Una lacuna di non poco conto, poiché gran parte dei nomi di cascine e di località rurali riconduce direttamente ad antichissime tradizioni, a consuetudini ben radicate nella storia e nella esistenza delle popolazioni contadine.
Se a nessuno può sfuggire l’origine del nome della Sforzesca, che tutti sanno costruita nel 1486 da Ludovico Maria Sforza detto “il Moro”, o della Buccella, nota fin dal Medioevo come proprietà dei nobili Biffignandi-Buccella, possono invece sussistere difficoltà nella interpretazione di altri toponimi, quali Faenza, Barzo, Giarre eccetera.
Tra gli interrogativi più ricorrenti è il perché, tra i nomi dati a cascine e agglomerati rurali, siano molto comuni le intitolazioni ad alcuni santi (per esempio, Santa Marta, San Benedetto, San Pietro eccetera), sempre i soliti sei o sette nomi tra le migliaia presenti nel martirologio cristiano.
Così pure ci si chiede spesso la motivazione di toponimi che riportano alla mente nomi o cognomi noti, o sentiti qualche volta nominare e rimasti nella memoria. L’usanza più diffusa nell’attribuire il nome a un complesso o a una località rurale, fin dai tempi più antichi — e, in particolare, in età romana, — in ogni parte del mondo, come d’altro canto avviene anche per molti edifici civili, è stata la cessione, da parte del proprietario, del proprio cognome all’edificio o all’intero fondo agricolo. È dunque evidente che la Portalupa derivi da Portalupi, Morsella (l’attuale frazione del comune di Vigevano che prende a sua volta il nome da una antica preesistente cascina) da Morselli, Calva da Calvi, Camina da Camino (ovvero Guglielmo da Camino, ingegnere sforzesco a cui era attribuita, secondo una ipotesi oggi confutata, la costruzione della Sforzesca), Scarampa da Scarampi (Angelo Maria Scarampi, vescovo di Vigevano dal 1757 al 1801), Negra da Negri, Burattina da Buratti, Callegara da Callegari e così via.


Come si è detto, molto diffusa è l’attribuzione di nomi di santi: scontata, per ovvi motivi religiosi, la dedicazione alla Beata Vergine — ovvero santa Maria, peraltro patrona dei coltivatori diretti, — è opportuno ricordare che tra i santi più ricorrenti nei toponimi rurali vi è santa Marta (patrona dei proprietari di immobili), seguita da sant’Antonio Abate (patrono dei suini, dei cavalli e degli animali domestici, nonché di agricoltori, allevatori, macellai, e di molte altre attività legate agli animali). Un poco meno diffusi sono san Benedetto Abate (patrono degli agricoltori d’Italia), san Pietro (patrono dei mietitori), san Giacomo Apostolo (patrono dei pellegrini oltre che invocato per la protezione dei raccolti), san Martino di Tours (patrono dei vendemmiatori, dei viticoltori e degli osti), san Paolo Apostolo (patrono dei cavalieri e dei cavallanti), san Giuseppe (patrono dei lavoratori in genere, dei falegnami nonché dei padri di famiglia), san Carlo (patrono delle province lombarde, invocato anche contro la peste), san Giorgio (patrono di cavalli, cavalieri e sellai), san Giovanni Battista (protettore dei conciatori, dei cardatori e delle sorgenti d’acqua, da non confondere con san Giovanni Evangelista, patrono dei mulini idraulici), san Rocco (invocato contro le catastrofi naturali e alcune malattie molto comuni nel mondo agricolo), san Biagio (invocato contro gli uragani e titolare di un ulteriore patronato degli agricoltori). 

Altri nomi di sante e santi (quali santa Giuliana, san Massimo, san Marco eccetera, che non hanno particolari riferimenti al lavoro contadino, è probabile venissero attribuiti alla cascina o al fondo agricolo solo per una particolare affezione al santo in oggetto da parte del proprietario. In qualche caso la dedicazione al santo era generata dalla presenza, nelle vicinanze del complesso rurale, di una preesistente cappella o chiesa di uguale intitolazione; l’esempio più evidente è costituito dalla tenuta Sant’Albino, adiacente alla omonima antica chiesa presso Mortara. A uguale significato va ricondotta la intitolazione, molto comune, di Pieve (per esempio, Cascina Pieve di Velezzo Lomellina)


Molto spesso il nome di una cascina deriva dalle sue caratteristiche strutturali o dall’aspetto esteriore. È questa la motivazione di toponimi quali Cascina Nuova, Cascina Grande, Rossa, Bianca, Cascinino, Cascinetta, Cascinotto, Caselle (molto diffuso, con il significato di “piccole case”), Casoni eccetera oppure dalla presenza di uno specifico particolare architettonico: Cascina La torre, il Palazzo, la Chiusa eccetera.
Non è infrequente che la cascina, o il fondo agricolo, o uno specifico terreno acquisiscano il nome preesistente della località in cui sono ubicati, quali Gerone, Pamperduto, Sabbione, Isolone e così via; nomi il cui etimo di rifà alle caratteristiche del territorio circostante. In questo contesto si inseriscono i toponimi derivanti dalle caratteristiche del territorio senza che la località avesse un nome specifico anteriormente alla erezione della struttura rurale, come è avvenuto per la Buscagliona (a causa di un’antica presenza di fitte boscaglie), Rotto, Rottino, Rottone (località vicine a corsi d’acqua, ove era molto comune che questi “rompessero” gli argini ed esondassero nei campi adiacenti), Cascina dei Prati, Cascina dei Risi, Cascina Erbetta, Fontanino. Non mancano alcune Cascina Malpaga, da interpretare come terra dalla quale è difficile ricavare un raccolto accettabile, cioè “che paga male”.
Alcuni toponimi sono collegati alla presenza nel luogo di più antiche e ormai scomparse strutture. Si vedano Cascina Erbamara, presso Cergnago, il cui nome fu ereditato da un’antica e potente abbazìa, scomparsa nel secolo xvii in seguito a una piena del vicino torrente Agogna, e ricostruita ex novo più a ovest; San Damiano (dal nome di un antico cenobio, in territorio di Zinasco, anch’esso scomparso senza lasciare traccia), Colonna, dalla presunta esistenza nei pressi di una non meglio identificata colonna miliare romana, Castellazzo, nel quale una consolidata tradizione vuole identificare la sopravvivenza di una delle due rocche poste a sorveglianza della strada per Gambolò, a sud di Vigevano, Dogana, ovviamente in memoria dell’esistenza, sul luogo, di una postazione di confine, con relativa dogana.
In taluni casi è la presenza della cascina stessa ad aver dato origine al nome di una strada o di una località (popolarmente detta “regione”). A Vigevano sussistono, per esempio, via della Pressa (dalla scomparsa Cascina Pressa), via Gambolina (dalla Cascina Gambolina), via Cascine Barbavara, via Cararola e via Chitolla, conducenti alle omonime cascine situate nella valle del Ticino, e altre ancora.
Si rilevano anche casi di complessi che hanno acquisito il nome dalla attività principale in essi praticata: valgano, su tutti, gli esempi, delle vigevanesi Pecorara (cascina fatta costruire da Ludovico il Moro espressamente per allevarvi una razza particolare di pecore, importate dalla Linguadoca e famose per la lana pregiata. L’esperimento fallì e le pecore non sopravvissero alla nuova situazione ambientale, ma il nome della cascina rimase) e Cascina Salciccia (o Salsiccia, per una probabile produzione dell’omonimo salume).


Esistono molti toponimi che sfuggono a ogni catalogazione: è difficile inserire in una categoria nomi quali Favorita (coeva alla vigevanese e vicina Pecorara, come quella fatta costruire da Ludovico il Moro, del quale era forse la “preferita”), Aguzzafame (denominata in antico Guzzafame, della quale lo storico vigevanese Simone del Pozzo spiega che era così chiamata « per l’amenità del loco, quasi che incitasse la fame alli stomachi »), oppure Guzza, cascina presso Alagna Lomellina la cui origine si perde nella notte dei tempi, già sede di un cenobio vallombrosano, forse mutatio romana sulla strada da Pavia per le Gallie. È arduo assegnare a uno specifico filone nomi quali quello della rinascimentale Marza, presso Zeme (forse perché costruita in marzo? o perché derivata dal personale latineggiante Martius, o, ancora, dal verbo arcaico marzare, “impregnare”?). Altrettanto difficile cercare oggi di identificare l’origine del nome della Cascina Avarizia, ormai diroccato cascinale presso Lomello. Senza dimenticare che alcuni toponimi tuttora in uso sono frutto di alterazioni e modificazioni generate da antichi errori di trascrizione: è noto che, in origine, il nome della Cascina Braghettona, sulle rive del Ticino presso Vigevano, era Traghettona, poiché adiacente vi era un traghetto, sopravvissuto fino al secolo xix, che collegava le due rive del fiume.


A volte l’etimologia di un toponimo è di aiuto nella identificazione delle origini del toponimo stesso: per esempio, dal prelatino — di origine germanica — bars, o bers, “luogo senz’alberi”, deriva quasi certamente Barzo (diffuso anche nelle forme Barzò, Barzio, Barza), e fors’anche Borzolo. Al latino faventia (vocabolo composto dal verbo favére, “favorire”, e dal suffisso -entia, comune a molti toponimi quali Piacenza, Fidenza, Potenza eccetera) è possibile far risalire Faenza, che, oltre a essere il nome di una città dell’Emilia, è un toponimo presente anche in Lomellina (Molino Faenza, cascina Portalupa in Faenza).
I toponimi Giarre, Giaretta, Gerone e simili, fanno riferimento alla natura ghiaiosa del terreno e derivano dal latino glarea, “ghiaia”; Fogliano è pure di chiara origine latina, e potrebbe risalire, con significato patronimico, a un personale Folius, unito al suffisso –anus, se non al più semplice folia, “foglia”. Anche più facile l’identificazione etimologica di Limido, dall’imperiale limes, “limite”, “linea di confine”. Roventino sembra essere un fitotoponimo, derivato da robur, “quercia”, in associazione al suffisso -etum, a significare “querceto”. Uguale radice potrebbero avere Roverina e altri toponimi assimilabili.
Non vanno dimenticate, ai fini di una corretta interpretazione etimologica, le trasformazioni che un nome può aver subìto nei secoli: errori nella trascrizione manuale (una r poteva facilmente diventare una n e viceversa; una e mutare in i, una v in u e così via), omissioni di qualche lettera, traduzione in volgare dal latino, contaminazioni dialettali eccetera. La moderna dizione di un toponimo potrebe avere scarse affinità con il vocabolo originario. Si pensi all’origine del toponimo Zinasco — paese della Lomellina sud-orientale, — il cui nome originario era ad Binas Columnas (in cui le “due colonne” citate erano quelle miliari romane), poi abbreviato, nelle trascrizioni medievali, in ad Binas co. Divenuto definitivamente Binasco, gli venne sostituita l’iniziale B con una Z, onde distinguerlo dal preesistente Binasco, borgo situato nella Bassa Milanese, e Zinasco è rimasto.
Tra gli etimi di origine latina più facilmente identificabili sono anche Miradolo (cascina e mulino presso Robbio, da non confondere con l’omonimo paese del Pavese orientale, sede di un noto stabilimento termale), da miratorium, “belvedere”, per indicare un luogo ameno, da cui ammirare il territorio circostante; Bagnolo, da balnoleum, “piccolo bagno”, “specchio d’acqua”, “acquitrino”, riferito a una località frazione del comune di Langosco, secoli fa lambìta dal Sesia e che aveva conservato a lungo la caratteristica fangosità dei letti abbandonati dai fiumi.
Benché non sia possibile suggerire una metodologia di ricerca etimologica generale e ogni toponimo necessiti di una indagine singola e specifica, è lecito affermare che, nonostante la colonizzazione romana avesse lasciato in Lomellina scarse e poco leggibili tracce concrete, il latino la fa dunque ancora da padrone nell’origine etimologica dei toponimi più antichi.

lunedì 6 gennaio 2014

Guglielmone biscotti & panettoni di Fausto Ciniselli e Sandro Passi

Articoli originariamente pubblicati sul Trimestrale "Il Vaglio" del  Circolo Culturale Lomellino Giancarlo Costa


 La Guglielmone è stata un’azienda che ha dato lustro - e lavoro - a Mortara per decenni.
Ha reso la città famosa in Italia e in Europa per la sua industria dolciaria, prima che la gastronomia mortarese fosse sinonimo di oca e dei suoi derivati (per quanto il salame d’oca esistesse già, ma la sua espansione avvenne solo molto tempo dopo).


Aggiungi didascalia
Mortara e Guglielmone volevano dire biscotti, pasticceria secca, torta paradiso (come quella che ancora oggi si trova da Vigoni a Pavia), ma specialmente il dolce principe delle tavole natalizie. 
L’ultimo “mastro panettonaio”, portabandiera vivente di quegli anni d’oro è il dottor Fausto Ciniselli, oggi over ottantenne, che ci racconta, nelle prossime righe, la sua vita nell’industria dolciaria. «Il Panettone era il segreto personale del signor Erminio – ricorda il chimico della Guglielmone – anche se i primi esemplari potrebbero essere datati fine Ottocento, il boom della nostra produzione è stato dagli anni Cinquanta ai Settanta. Siamo arrivati ad avere 400 unità lavorative tra fissi e stagionali, con turni operativi di ventiquattro ore, e a sfornare ventimila dolcissimi pezzi quotidiani.
Solo la Motta di Milano, nei primi anni Settanta ci batteva, facendone il doppio».


La storia dell’antica pasticceria di piazza del Municipio inizia nel 1883. Qui si poteva gustare ogni squisitezza e anche vivere la vita sociale del territorio. Arriviamo agli anni Venti del secolo scorso. Il locale veniva chiamato “L’Aragno della Lomellina”, perché – analogamente a quello romano – era il ritrovo di intellettuali e politici. Tra i suoi frequentatori Cesare Forni, uno dei fondatori del fascismo. A quei tempi Guglielmone esportava fino in Francia dove tra i clienti c’era un tale Gabriele D’Annunzio, autore della poesia che nomina anche Fausto Ciniselli nel suo articolo. Un momento importante del rilancio in quel periodo mica tanto bello (siamo in mezzo alle due guerre mondiali...) avvenne proprio durante il Secondo conflitto. Una straordinaria trovata pubblicitaria per “sfruttare” il buio del coprifuoco. I fratelli Guglielmone fecero affiggere sulle case di Milano e di altre città lombarde i numeri civici degli edifici su targhette fosforescenti recanti oltre al numero anche il loro marchio. Un servizio pubblico gratuito e un potente bombardamento pubblicitario che non lasciò indifferenti.


Numero civico sponsorizzato Guglielmone durante la Seconda Guerra Mondiale (Foto dal sito www atrieste eu)
Proprio nel mondo della pubblicità e della comunicazione con l’immagine la maestria dei Guglielmone è sempre emersa. Furono tra i primi a fare la “reclame” in televisione e tutti i loro manifesti, gadget, le loro confezioni, oggi, a distanza di anni, sono considerati veri capolavori del genere. (Sandro Passi)

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La Guglielmone fu un’azienda tra le più gloriose della realtà industriale mortarese.
Tre i nomi da ricordare, tre gli uomini che la crearono. Il fondatore, Pietro Guglielmone, che nel lontano 1883 iniziò aprendo in Piazza del Municipio, a Mortara, un bar pasticceria, che divenne in breve tempo luogo di incontro dell’élite mortarese.

Il Caffè Pietro Guglielmone in piazza del Municipio
Il primo figlio, Giovanni, valido amministratore della società (già allora dirigeva un ufficio con cento impiegati in piazza Duomo a Milano!) nonchè sagace uomo di marketing ante litteram.
Il secondo, Erminio, direttore dello stabilimento di Mortara, infaticabile lavoratore, dotato di lucida intelligenza, costantemente proteso alla ricerca di innovazioni per migliorare i prodotti.
Risparmiamo gli sterili dettagli tecnici sull’organizzazione, sia del primo, sia del successivo, nuovo e più
moderno stabilimento, preferendo invece rievocare alcuni episodi di “colore” afferenti la quotidiana vita
di fabbrica, con i suoi protagonisti: uomini che per dedizione, generosità e quella giusta dose di disincanto
e leggera ironia, hanno saputo affrontare – con spirito certo pionieristico – anche compiti gravosi, e risolvere
impreviste situazioni di emergenza.

Erminio Guglielmone

Mi perdonerete se solo di alcuni ricorderò il nome, ma vi assicuro che di tutti ho scolpito il ricordo.
Non di rado oggi restiamo a bocca aperta quando ci capita di assistere alle varie fasi di lavorazione, meccanizzata ed informatizzata, del ciclo di produzione di un prodotto. Uguale stupore proveremmo se potessimo osservare le stesse fasi, compiute però interamente dall’uomo, ripercorrendole in una sorta di cammino a ritroso nel passato. Tra i compiti più impegnativi cui gli operatori della Guglielmone dovevano attendere, vi era senza dubbio la movimentazione dei panettoni, che, posti ancora crudi e non lievitati, su assi di supporto (in file da dieci), dovevano essere introdotti per promuoverne la lievitazione in apposite camere
di lievitazione a 38/40 gradi di temperatura e 80% di umidità. E ancora: le assi introdotte dovevano essere
poste in incasellature a più ripiani, che dal basso, arrivavano quasi al livello del soffitto. Manovre opposte,
poi, si dovevano fare a panettoni lievitati.Tutto questo a torso nudo e a forza di braccia degli addetti alla descritta movimentazione.

Pubblicità dei Wafer O'mill
Altra incombenza decisamente impegnativa era quella dell’addetta al forno a cialde, la quale doveva stare in piedi, davanti a stampi roventi (riscaldati a fiamma diretta), per staccare da ogni stampo la relativa cialda
cotta, e i singoli stampi si presentavano alla velocità di 12 al minuto, con il risultato che attorno all’operatrice
l’aria era, di regola, vicina ai 40 gradi!
Quanta fatica per qualche secondo di dolce felicità per l’ignaro consumatore!
Parlando per l’appunto di ghiottonerie è impossibile non citare i mitici “cubini”, cioccolatini a forma di cubo, con in mezzo un dolce strato bianco di burro di cacao. I cubini venivano avvolti – uno ad uno – da una squadra di operatrici addette alla confezione, spesso intente, a testimonianza della bontà del prodotto,
alla sua piacevole degustazione. Fu così deciso di effettuare un raffronto tra il numero di cubini entrati dalla fabbricazione e usciti dalla confezione, e chi scrive, suo malgrado, venne incaricato del relativo controllo. Dovendo dare notizia degli ammanchi rilevati direttamente ad Erminio Guglielmone, egli mi rispose, riferendosi alle addette, col pragmatismo che lo contraddistingueva: «Meglio lasciarle mangiare perché, prima o poi, si stuferanno anche dei cubini!»
Era evidentemente consapevole dalla volubilità dei gusti del consumatore, e della necessità di carpire la sua attenzione con prodotti sempre nuovi ed allettanti.


Pubblicità su una rivista dei prodotti Guglielmone
La “nostra” Torta Paradiso era distribuita in astuccio recante una poesia scritta in dialetto lombardo da Gabriele D’Annunzio, a lode della squisitezza del prodotto, con versi autografi stampati sulla confezione.
Non meno sorprendente e innovativo per l’epoca fu l’accostamento tra la voce di Natalino Otto e i prodotti
Guglielmone alla Fiera Campionaria di Milano.
Mi riferisco a un biscotto rotondo, chiamato “Marie”, che, già di per sé apprezzato per le sue intrinseche
qualità, conobbe un ulteriore incremento delle vendite grazie a due geniali iniziative pubblicitarie della Guglielmone. Venne deciso di cambiare in “Oj Marì” la precedente (più anonima) denominazione di “Marie”,
e di presentare il prodotto alla Fiera, sottolineandolo col commento musicale della voce registrata di un
Natalino Otto, impegnato a cantare, con la sua ben nota vocalità “swing”, un’inedita versione della partenopea “Oj Marì”, con effetti dirompenti per l’epoca.
Originale fu anche l’accostamento tra il panettone e la mitica impresa della scalata al K2 compiuta da Compagnoni e Lacedelli nel 1954. In quell’anno i prodotti della Guglielmone vennero esibiti in uno spazio espositivo messo a disposizione dal Comune di Mortara nelle scuole Elementari, sul quale campeggiava un
imponente olio su tela (il cui valente autore credo fosse Gandini) con la sagoma della celebre vetta.

Il successo di Modugno "Ciao Ciao Bambina" fa da reclame per Guglielmone

Come è facile intuire da quanto esposto, in quegli anni si viveva un importante momento di transizione nel
quale sempre più forti erano gli stimoli al passaggio dalla produzione in piccola scala alla produzione industriale, al fine di soddisfare le esigenze di un consumatore sempre più attento e consapevole del proprio
ruolo. Nel campo della dolciaria tale cambiamento ha comportato sforzi non indifferenti: il lievito, atto a far
fermentare la pasta dei panettoni, come tutti sanno, è un microrganismo dal carattere imprevedibile, essendo
una cosa viva! Alle sue bizzarrie non è facile adeguarsi: ancora oggi per averne approfondita conoscenza
occorrono anni di esperienza, ed il mestiere di “lievitista” si apprende sul campo, nutrendo il lievito
periodicamente, dosando oculatamente – con metodo, magari empirico ma efficace - le dosi di farina ed acqua che gli occorrono più volte al giorno, esaminandolo e curandolo senza sosta come un bambino.
È così che ho iniziato, lasciando in un angolo i testi di chimica studiati all’università, consapevole che solo
la classica gavetta mi sarebbe stata d’aiuto, consentendomi di superare, quando mi venne affidata la gestione
dal punto di vista qualitativo della produzione, la naturale diffidenza dei mortaresi che mi chiedevano:
«A si ancùra bon da fa i paneton?». Quella frase - detta al plurale - lascia facilmente intendere che,
non solo nell’immaginario collettivo, ma anche nella realtà, il panettone, e di riflesso tutti i prodotti della
Guglielmone, non potevano che essere frutto di un lavoro di squadra. Per questo vorrei chiudere questa
prima parte del mio racconto menzionando – non me ne vorranno i più – solo alcuni esempi di coloro che
in questa squadra hanno vissuto, lasciando un segno indelebile della loro indiscutibile personalità.

Coperchio di una scatola di biscotti degli anni 50                                                                                                                       (Foto di Amedeo Pero sulla pagina Facebook "Foto di Mortara come era"


Il Silvio.
Una vera “istituzione” nella Guglielmone. Assunto in officina come meccanico, presto ne uscì e, per la sua
innegabile versatilità, divenne in breve tempo un indispensabile “solving problems” per tutti i reparti.
Di lui è bello ricordare due tra le numerose imprese che lo hanno visto protagonista:
- l’aver effettuato una indifferibile riparazione alla parete interna di un forno, ancor caldo (oltre 40 gradi di temperatura), entrandovi ed uscendo solo a riparazioneeseguita;
- l’aver realizzato, per sopraggiunte esigenze di spazio, lo spostamento di un forno a tunnel elettrico. Forno che, per sua natura, è destinato a rimanere inamovibile una volta installato, e che venne invece spostato collegandolo con una fune, e con le immaginabili cautele del caso, ad un automezzo posto in zona limitrofa.

L’Albertina.
Benchè madre natura non l’avesse dotata di una statura imponente, accettava con slancio di adempiere ad
incombenze che avrebbero messo a dura prova soggetti fisicamente ben più dotati.


L’epopea storica della Guglielmone è giunta al culmine, ma l’indiscutibile valenza evocativa del suo marchio è tale che ancora sarà protagonista per moltianni sulle tavole dei consumatori, anche dopo la sua acquisizione da parte della multinazionale Parein - De Beukelaer, con l’immutato entusiasmo ed il fattivo
apporto umano dei suoi operatori. Ma di questo parleremo in seguito.



Nel 1966 la Guglielmone viene ceduta alla multinazionale dolciaria belga Parein - De Beukelaer. Il presidente
della società Edouard De Beukelaer visitando lo stabilimento, lo aveva giudicato idoneo alla fabbricazione
di prodotti da vendersi in Italia.
Vengo confermato quale direttore di produzione e ricevo la visita del nuovo amministratore delegato,
Joseph Verbruggen, il quale, dinamico e perspicace, subito comprese i meccanismi che regolavano il mercato
della dolciaria in Italia.
Dati i risultati positivi, dovuti ad un tangibile incremento della produzione, la nuova amministrazione pensò di far conoscere in Italia un loro prodotto: il P.P.F., un biscotto farcito alla crema, gusto cioccolato e vaniglia, che già aveva riscontrato successo e larga diffusione in Francia, Germania e Austria.
Ai fini della relativa produzione del prodotto, ci venne fornito il necessario “know how” come oggi si usa
dire, consistente in una macchina “farcitrice” e due “impacchettatrici”. Non fummo però dotati del pur
necessario tunnel frigorifero per la dovuta refrigerazione del prodotto, che dovemmo costruirci noi stessi
facendo ancora una volta appello all’italico ingegno, ossia alle risorse interne. Nel dettaglio fu il Wilmo a
costruirlo. Un tecnico, purtroppo precocemente deceduto, che ricordo per il suo ingegno e la sua straordinaria capacità a creare – dal nulla – manufatti di ogni genere. Egli riuscì a fabbricare in ogni sua parte
(trasportatore a nastro, frigorifero e mobile esterno) un tunnel lungo ben venti metri, che l’amministrazione,
anche per la sua eleganza, decise di trasportare nel nuovo stabilimento. Così attrezzati riuscimmo a vendere
tonnellate di P.P.F. in Italia!

Villa Guglielmone affiancata dallo stabilimento di produzione in una vecchia cartolina di Mortara

 L’amministratore Joseph Verbruggen lasciò l’incarico, non senza aver prima provveduto, con l’abituale
oculatezza e lungimiranza che lo contraddistingueva, all’acquisto del terreno sul quale edificare il nuovo
stabilimento, da erigersi nella circonvallazione Sud di Mortara, oggi vero polmone industriale e commerciale
della città. Lo stabilimento venne costruito tra il 1970 ed il 1971, sul modello di analoghe realtà produttive esistenti in Belgio nelle città di Beveren ed Herentals, ove si producevano prodotti ancor oggi noti
alla collettività intera: uno su tutti il cracker “Tuc”.
Con l’avvio della produzione nel nuovo stabilimento, la Generale Biscuit Italia – questa la denominazione
attribuita alla azienda mortarese – col tempo aveva consolidato la sua posizione, tanto da essere prima
nell’Europa Continentale e terza nel mondo per la produzione di biscotti, venduti anche negli Stati Uniti
col marchio LU - Burry LU - Mother’s LU, e in Giappone col marchio Glico LU. La Generale Biscuit aveva
aperto stabilimenti, oltre al nostro, anche in Francia, Belgio, Olanda, Austria e Spagna. Realtà tuttora
operanti, a differenza, purtroppo, di quella mortarese, legata unitamente ad altre fabbriche cittadine, ad un
tragico destino di chiusura.

Già si è detto della costante presenza nel tempo di collaboratori che, con il loro acume, unito ad un’innegabile professionalità, hanno contribuito, per quanto di loro competenza, alla realizzazione di programmi e progetti a beneficio di questa importante realtà produttiva.
Per quanto attiene al nuovo stabilimento, non posso esimermi dal ricordarne almeno tre:
Il Luciano.
Termoidraulico dotato di intelligenza pronta e vivace, pari alla sua piacevole stravaganza. Ebbe il merito di
aver risolto diverse situazioni di estrema emergenza:
- riattivando il meccanismo di condizionamento temperatura/vapore nella cella di fermentazione dei panettoni;
- determinando, con l’ausilio di un pirometro termoelettrico, la temperatura delle piastre del forno cosiddetto
“a tanks” (cioè a serbatoi);
- operandosi costantemente per la gestione della grande centrale elettrica annessa allo stabilimento.
Il Giancarlo.
Tecnico delle macchine impacchettatrici: a lui va il merito di aver organizzato un gruppo automatico per la confezione di astucci atti a contenere biscotti in assortimento, con l’invidiabile capacità di illustrami ogni progetto proposto, con disegni geometrici a mano libera così accurati, da sembrare eseguiti con riga e compasso.
Il Tino.
Vero deus ex machina dei lieviti, successivamente titolare apprezzato dai mortaresi della rinomata “Pasticceria Raffaghelli”. Fu anche grazie a lui che il marchio Guglielmone (come produttore di panettoni) continuò a prosperare con immutato gradimento presso i consumatori, anche stranieri, consapevoli della specificità di questo prodotto che ci è sempre stato invidiato.

Erminio Guglielmone tra i suoi operai con monsignor Luigi Dughera e il vescovo di Vigevano

Siamo così arrivati al 1984. In concomitanza con un’epoca grigia e tristemente profetica sul piano della
futura crisi occupazionale, la storia della Guglielmone giunge al capolinea. L’azienda che aveva inondato
per anni la città col fragrante aroma della vaniglina chiudendo i battenti, lascerà i cittadini, sgomenti, al
cospetto di altri e certo meno edificanti olezzi.
Sic transit gloria mundi! (Fausto Ciniselli)




domenica 5 gennaio 2014

I Germogli Religiosi di Milano di Roberto Bagnera



Parlare di Milano senza dedicare un sia pur breve accenno alle sue profonde radici religiose, i suoi vescovi:
Ansperto, Sant’Ambrogio, Federigo Borromeo, San Carlo Borromeo su su fino al Cardinal Montini che divenne Papa col nome di Paolo Sesto; Milano e le sue chiese, invidiateci da tutto il mondo: il Duomo, Santa Maria delle Grazie e relativo Cenacolo di Leonardo, Sant’Eustorgio con la sua arcinota cappella Portinari, San Lorenzo e le Colonne Romane e via di seguito perche’ sono veramente tante, qui vi vogliamo solo ricordare i protagonisti minori dell’espressione spirituale Ambrosiana.


In  un palazzo  di Corso di Porta Romana esiste un passaggio coperto che conduce alla via San Calimero, qui si nasconde una gemma preziosa della città: un minuscolo ma veneratissimo santuario dedicato a S.Maria Bambina, vi si accede per una scalinata letteralmente tappezzata di ex voto. Sorse intorno ad un’immagine miracolosa in cera del ‘700 e si presenta attualmente in graziose forme neo rinascimentali, era il luogo di culto prediletto dai bambini Milanesi.

Portone d'accesso del Santuario dedicato a Santa Maria Bambina (Foto dal sito www preghiereagesuemaria it)

Primo piano dell'effige di Santa Maria Bambina (foto dal blog Regio18)

Al centro dello spartitraffico di Via Lorenteggio troviamo quella che i Milanesi chiamano “Gesetta di Lusert” chiesetta delle lucertole, perche’ una volta l’oratorio dedicato a S.Protaso si trovava immerso in un’assolata campagna. Recentemente restaurato.
Risale al tardo Medioevo, al suo interno è custodita  quella che forse è la prima effigie Milanese di Santa Caterina, firmata da un “ fra de Porta Vercellina” e datata 1428.

San Protaso al Lorenteggio in un'immagine degli anni 30

L'interno di San Protaso al Lorenteggio (Foto Associazione Amici dell'Oratorio di San Protaso)

In via Toffetti, a ridosso del modernissimo palazzo sede dell’INPS, fanno mostra di se’ i pietosi resti di un oratorio degli Umiliati, risalente al XII° secolo: Sant'Anna in Castagnedo, che in origine apparteneva ad un complesso più vasto.
L’Oratorio conserva pressoché intatte le sue caratteristiche di chiesa romanica a nave unica, lo stato di conservazione fa temere il peggio però  perché la chiesetta è veramente fatiscente.

Una "irritante" immagine di Sant'Anna in Castagnedo (Foto dal sito www Viboldone it)

 Singolare la situazione ambientale della cappella Pozzobonella in zona Stazione Centrale, incorniciata com’è dalla struttura del prospiciente e sovrastante albergo dallo strana forma ellissoidale che sembra essere stata creata apposta per fare da scrigno all'architettonico gioiello.

Immagine dall'alto dei resti della "Pozzobonella"
La Cappella è tutto ciò che resta della quattrocentesca villa, demolita nel 1907, appartenuta alla famiglia Pozzobonelli.

Immagine storica con il portico intatto
L’interno della cappella e del piccolo tratto di portico  è ricoperto con graffiti a motivi geometrici e figure
Architettoniche, fra le quali la P.za S.Marco di Venezia e la facciata del Castello Sforzesco, della quale il Beltrami si servì per la sua ricostruzione dela rocca.
 
I resti della cascina Pozzobonelli come si presentano ancora oggi in una vecchia cartolina

Dalla drogheria alla Banca, al negozio di scarpe, eccetera: questo il singolare destino di uno dei più piccoli oratori milanesi.

La chiesetta al Vigentino in una foto d'epoca
Santa Maria al Portello Vigentino sorse al posto di una delle croci viarie che un tempo erano poste agli incroci viari più trafficati e poi si ritrovò inglobato in una costruzione commerciale moderna di cui divenne, suo malgrado una dependance, svolgendo per anni il ruolo di sgabuzzino.

Santa Maria al Portello Vigentino oggi (Foto Academi King Atall)
 
Santa Maria al Portello Vigentino oggi (Foto Academi King Atall)

San Siro alla Vepra è un edificio  che trae  origine nel IX° secolo e che fu trasformato poi in Grangia. La struttura si presenta incastonata in un edificio nobile più grande ma famigerato : Villa Triste, così chiamata perché vi si tenevano  interrogatori particolari, con torture e sevizie, durante gli anni della seconda Guerra Mondiale.

Abside di San Siro alla Vepra (Foto dal blog Un Cicinin de Milan)

Figura ieratica e sempre affettuosamente presente ai Milanesi è infine la statua  in cemento del Signore sita sul terrazzo di una casa in via San Dionigi.
Si narra che si trattasse dello stampo, in tre pezzi di una statua in metallo che il fonditore, dopo l’uso, aveva ordinato di trasportare alla discarica, il carrettiere incaricato, pensando al terrazzino di casa pensò di farne uso e così la statua è ancora lì dove la vediamo oggi , sulla punta del triangolare terrazzino rivolta verso Chiaravalle con la mano alzata in gesto benedicente.
Come fosse e come non fosse il “Signorone”, come è sempre stato chiamato, con quelle tre dita alzate al cielo sembrò voler avvertire gli immigrati che giungevano del contado: “de pagà l Fitt ogni tri mes”, pagare cioè l’affitto ogni tre mesi, come era regola in città e non ogni sei come si usava in campagna.

El Signoron de Ciaraval (Foto Academi Franco Mauri)