Anche questo piccolo Santo Natale di questo piccolo 2011 è sul filo del divenire
parole di gaudio e giubilo anfananti vanno nei nostri cuori.
Possa il Sole delle Alpi sorgere fulgente su quella terra nostra di Lombardia che amiamo e viviamo.
Con questa immagine ripresa da un affresco della cascina Runcata in St. Ulrich in Gröden, nel comune di Ortisei in Val Gardena, accompagnamo i nostri più fervidi voti di liete Feste e miglior anno nuovo 2012.
sabato 24 dicembre 2011
L'uomo che Abolì il Natale
Racconto natalizio di Susanna Federici scritto nel 1990 in occasione del I° Premio Narrativa del Lions Club Milano Duomo, nell'ambito del quale fu insignito della Menzione d'Onore.
Questo il testo della Motivazione:
In questa storia grottesca, intonata ad una corrente di umorismo fiorita
negli anni contemporanei, e congeniale anche a certe forme di teatro
cameristico, l'Autrice ha saputo evitare con leggerezza i possibili spunti
dissacratori, approdando ad una morale in gran parte vera e accettabile: e
cioè che non vi può essere festa, e soprattutto una festa così importante,
senza una partecipazione vera ai fatti che ne stanno all'origine. Perdendo
il senso di quei fatti, tutto può diventare squallidamente banale, anche a
Natale. E allora tanto vale ricordarsene solo quando ci si arriva col
pensiero e col cuore. Anche indipendentemente dalle intenzioni
dell'Autrice, il messaggio dovrebbe
essere questo. Per questi valori, la Giuria ha ritenuto questo racconto
meritevole della Menzione d'Onore per la sezione "Narrativa".
negli anni contemporanei, e congeniale anche a certe forme di teatro
cameristico, l'Autrice ha saputo evitare con leggerezza i possibili spunti
dissacratori, approdando ad una morale in gran parte vera e accettabile: e
cioè che non vi può essere festa, e soprattutto una festa così importante,
senza una partecipazione vera ai fatti che ne stanno all'origine. Perdendo
il senso di quei fatti, tutto può diventare squallidamente banale, anche a
Natale. E allora tanto vale ricordarsene solo quando ci si arriva col
pensiero e col cuore. Anche indipendentemente dalle intenzioni
dell'Autrice, il messaggio dovrebbe
essere questo. Per questi valori, la Giuria ha ritenuto questo racconto
meritevole della Menzione d'Onore per la sezione "Narrativa".
Il ragionier Gesuino Poli odiava il Natale. Lo odiava per numerosi motivi che risalivano ai primi anni della sua vita e che gli rendevano la festa sempre più invisa man mano che il tempo passava.
Innanzi tutto, il ragionier Gesuino era nato il 25 dicembre di cinquant’anni prima: sua madre, assai devota, aveva salutato la coincidenza come un segno del cielo che il suo primogenito sarebbe divenuto papa; così, la pia donna aveva imposto al neonato il nome di Gesuino, aggiungendo a questo primo strazio il successivo, e più grave, di fornirlo di un secondo nome, Natale. Con una simile sequenza, Gesuino Natale ringraziava il cielo di avere un cognome anonimo come Poli: chiamarsi Campana o Pasquali, in simili circostanze, sarebbe stato oltremodo increscioso. Oggetto di scherno dei compagni, Gesuino si sentiva un po’ come Gertrude, condannata a una vocazione tanto meno sentita quanto più era auspicata dalla madre. Nel suo caso, poi, non c’erano neppure patrimoni da mantenere integri, perché la famiglia Poli aveva solo qualche gallina, un maiale e un pezzo d’orto, ma ugualmente la pressione era forte. A salvare Gesuino intervenne il parroco del paese che, intuita la totale disaffezione del ragazzo alla la vita clericale, aveva caldamente sconsigliato la sua entrata in seminario. E così il prete mancato divenne ragioniere, mantenendo però la sua ridondante coppia di nomi di battesimo.
Altra ragione dell’odio era che, proprio un giorno di Natale, il grande amore della sua vita lo aveva respinto ed il rifiuto gli aveva reso immangiabili il tacchino e il panettone dei quali era, altrimenti, ghiottissimo. Rosalba si chiamava, la crudele, e Gesuino, per disperazione, s’era rassegnato a corteggiare Caterina che, appena diciottenne, mostrava già difetti tremendi, resi tuttavia sopportabili dalla giovane età. Ma ora Caterina aveva quarantacinque anni, emetteva parole a raffica, quasi urlando e le rare volte che qualcuno tentava di interloquire, veniva platealmente ignorato. Iniziava e finiva qualsiasi frase con la stentorea affermazione “Io lo so!” anche quando non sapeva in realtà nulla; Gesuino fremeva ma, alla fine, sopportava per quieto vivere: in fondo la Caterina era una brava cuoca e teneva puliti e ben pasciuti i figli del ragioniere.
Ma c’era, oltre a questi, un motivo più sostanziale e profondo perché Gesuino odiasse il Natale. Nonostante l’assenza di vocazione, egli era sinceramente devoto e credente e lo disturbavano la cagnara e la stupidità della gente in occasione della festa, svuotata ormai di ogni senso religioso e ridotta ad una corsa affannosa al cenone ed ai regali (Gesuino era anche un po’ spilorcio e tutti quei doni obbligatori lo infastidivano). Gli pareva un’offesa al Signore questo ricordare la sua nascita con tanta mondanità e gli faceva pena il bambinello paffuto di ceramica che sorrideva nel presepe della parrocchia. “E sì, poveretto - diceva - tu sei nato nella paglia, al freddo e al gelo, mentre qui tutti, con la scusa di festeggiarti, si fanno regali principeschi e si rimpinzano come oche!” A Gesuino veniva voglia di coprire quel bambinello ignudo col suo cappotto, ma poi lo sfiorava il dubbio che a Betlemme non facesse poi così freddo, anche d’inverno. Il ragioniere aveva l’incubo del freddo: era nato e sempre vissuto a Tartogne Iseo, un paesotto del bresciano che, nonostante il nome, si trovava a ben venti chilometri dal lago, nella nebbia padana, tetro come pochi d’inverno e allietato unicamente dalla Sagra della Tinca, il 3 novembre, quando cestoni di pesce arrivavano, non però freschi dal lago, bensì congelati da Milano.
Per tornare alle ubbìe di Gesuino, egli era ulteriormente disgustato dal fatto che a Tartogne - e in tutto il mondo, temeva - la gente traboccava di malanimo l’un verso l’altro, ma fingeva in occasione del Natale una intensa spiritualità ed una filantropia francescana. Era rimasto impresso al ragioniere il caso del geometra Lombardotti che, l’anno precedente, prima della Messa di mezzanotte, aveva fatto a pugni con un tale colpevole di avrgli occupato con scatto fulmineo l’unico posto libero davanti alla chiesa: il Lombardotti, sostenendo di avere per primo visto il parcheggio, era passato alle vie di fatto e aveva mandato all’ospedale col naso rotto il malcapitato avversario. S’era poi recato in tutta tranquillità e con aria umile e devota alla celebrazione natalizia. Per ironia, il geometra non era stato neppure condannato a pena alcuna perché, pur denunciato dalla vittima del pestaggio, si era rivolto all’avvocato Veriggi, una serpe, ma abilissimo, al punto che riuscì a far attribuire il torto tutto alla controparte.
A Tartogne Iseo c’erano muri divisori tra le proprietà che facevano invidia a quello di Berlino per continuità e sgradevolezza architettonica (naturalmente i progetti erano del geometra Lombardotti); c’erano state cause in tribunale per pochi centimetri di spazio occupati dalla siepe del vicino; mariti e mogli si tradivano allegramente, quasi vantandosene; chiunque potesse parlar male di qualcun altro ne era felicissimo e l’usura - nessuno la chiamava così, erano prestiti agevolati - era praticata regolarmente. Ma a Natale i Tartognesi divenivano, almeno a parole, un esercito di pie donne e di santi uomini, facevano offerte in parrocchia, portavano doni a ospizi e orfanotrofi e le Ostie della Comunione non bastavano mai.
Gesuino non ne poteva più: il sogno della sua vita era di passare il 25 dicembre al Cairo dove, a parte qualche Copto, il Natale non sapevano cosa fosse e per giunta faceva un bel caldo rigenerante, ma portare Caterina in Egitto nenache da parlarne e andarci da solo neppure lontanamente immaginabile.
C’era però un’idea che da anni maturava nella sua mente e prendeva forma sempre più precisa e definita: abolire il Natale, cancellare quella fiera delle vanità, delle falsità e degli obblighi parentali che tanto immalinconivano Gesuino. Ma come abolirlo? Era impresa ardua, perché esisteva da tanti secoli ed era radicato nella gente. Bisognava lavorare con pazienza e meticolosità ed il successo non era neppure garantito, ma il ragioniere ci voleva provare. Si mise all’opera dopo le ferie estive ed iniziò con le lettere anonime.
La prima fu inviata al geometra Lombardotti che, quando vide la busta con le lettere incollate ritagliate dai giornali, pensò con terrore che il suo ultimo abuso edilizio fosse ststo scoperto; sulla coscienza ne aveva molti, di questi abusi, ed anche tutta una serie di altri misfatti. Perciò, aprendo la lettera, fu con un sospiro di sollievo che che lesse: “Idioti! Gesù non è nato il 25 dicembre!” Arrivarono ai Tartognesi centinaia di lettere analoghe. Sulle prime la gente ci rideva sopra, pensando ad un mitomane. Il parroco mise più volte in guardia i fedeli e li assicurava che il 25 dicembre era l’unica vera data e che le lettere erano uno scherzo di dubbio gusto. Ma queste continuavano ad arrivare e i tartognesi, che non brillavano d’acume, iniziarono a nutrire qualche sospetto. Se fossero stati cinefili, un certo vecchio film avrebbe potuto aiutarli, ma difficilmente in paese si assisteva a spettacoli che non fossero varietà o quiz.
Gesuino aveva speso un capitale in carta e francobolli, ma non gliene importava: persino la sua taccagneria passava in secondo piano davanti al colpo di genio della sua vita. Aveva naturalmente scritto anche a sé stesso, per rendersi insospettabile, e la Caterina aveva reagito con virulenza popolana stracciando la lettera e lanciando epiteti irriferibili al misterioso mittente.
Il secondo atto fu più elaborato: Gesuino contattò un vecchio compagno di scuola, certo Bartoli, il burlone della classe col quale ogni tanto s’incontrava. Il Bartoli, opportunamente travestito, a fine novembre si presentò alla radio locale spacciandosi convincentemente per esperto teologo ed esibendo attestati e curricula degni di immensa considerazione. “Avendo saputo - diceva - che in questo paese qualcuno ha coraggiosamente voluto smentire la storica data del Natale, io avrei delle precisazioni da fare che potrebbero chiarire la faccenda”. A Radio Ganimede non aspettavano altro: che scoop, che pubblicità! Così il Bartoli parlò per tre quarti d’ora in diretta dicendo che, seppure il 25 dicembre fosse la data più accreditata, tuttavia alcuni sostenevano… altri dicevano… insigni storici… dotti teologi… persino in un’oscura pagina di Sant’Agostino… Insomma, non disse nulla di concreto, ma lo disse molto covincentemente ed il risultato fu che alcuni cominciarono a scambiarsi i regali all’ Immacolata Concezione e prenotarono l’albergo in montagna dal 20 dicembre; tanto, se il Natale non era il 25, non c’era più l’obbligo di passare quella giornata coi famigliari.
Il parroco era disperato; a Gesuino spiaceva perché era nipote di quello che anni prima lo aveva sottratto all’abito talare, ma non poteva farci nulla. Si compiaceva, anzi, di come tutto l’ingranaggio stesse funzionando bene.
L’ultimo e più grave colpo fu la pubblicazione di un libro dal titolo Natale a Ferragosto? che un altro amico di Gesuino, tipografo, aveva stampato in poche copie e distribuito soltanto alle due edicole-librerie di Tartogne (di librerie vere, naturalmente, non ce n’erano).
Il libro andò a ruba, fu un successo e quasi quasi il nostro rimpianse di averne fatti così pochi esemplari. Ma passaparola e fotocopie lavorarono ugualmente. Il parroco depose le armi e si rassegnò all’ineluttabile: il 25 dicembre niente Messa solenne, ma una manifestazione popolare inneggiante al Natale Libero. Il paese si spopolò per le vacanze ed il presepe venne smontato prima dell’arrivo dei Magi; niente alberi, niente luminarie, negozianti inferociti, ma Gesuino aveva vinto. Passò il giorno di Natale non come prima da zia Marta, ma beatamente leggendosi un giallo di Agatha Christie solo e tranquillo - anche la Caterina era scesa in manifestazione per il Natale Libero. Poi, verso sera, passò in chiesa a chiedere perdono a Dio, sostenendo però che tutto era nato per amor suo: “Tanto non era festeggiata la tua nascita, ma un’occasione come un’altra per crapule e stravizi. E’ meglio così, credimi!”
E poi successe una cosa strana: i tartognesi, liberati dal vincolo, si misero a celebrare il Natale quando volevano, a marzo, in agosto, facendo l’albero e il presepe; pregavano davanti alla capanna, si scambiavano regali modesti, ma di cuore e dicevano ai figli: “Oggi è un gran giorno: è nato Gesù e ha cambiato la storia del mondo!”.
Gesuino, capitato il 15 maggio a casa del Lombardotti, si vide offrire una fetta di panettone mentre il geometra sorridendo gli diceva: “Oggi è Natale, ragioniere; faccia festa con noi!”.
Quando la crisi non risparmia nessuno
Un gustoso racconto natalizio di Rolando di Bari
Melkon affrettò il passo. La strada da fare per arrivare al punto d’incontro con l’amico era fuori città, e aveva ancora un bel po’ di cammino da percorrere. Ed era in spaventoso ritardo.
Si era fermato al bar a bere un caffè e a chiacchierare con alcuni conoscenti, e non si era reso conto che il tempo passava in fretta. D’altro canto, fuori faceva un freddo polare, tirava un vento gelido e aveva già iniziato a cadere qualche fiocco di neve, mentre l’interno del locale era caldo, accogliente… Imprecò dentro di sé. Proprio una sera simile dovevano scegliere per rendere visita… A qualcuno che nemmeno conoscevano, poi! Ma l’amico che lo attendeva aveva più volte ripetuto e affermato che non si poteva rinviare. A certi eventi bisogna partecipare di persona, e arrivare per tempo.
Era inutile recriminare. Accelerò l’andatura, scivolando spesso sul nevischio che cominciava a ricoprire le strade deserte. A quell’ora, e con quel tempo, la gente se ne stava rintanata in casa, magari con i piedi sotto a una tavola imbandita di ogni ben di dio. Dopo qualche tempo le case cominciarono a diradarsi, fino a scomparire. Nonostante non ci fossero né luna né stelle, né fisse né cadenti, nella semioscurità riconobbe la zona dell’appuntamento.
L’amico era stato più puntuale di lui. Era già lì, in piedi vicino a un albero, nell’esatto punto dove la strada si biforcava, dividendosi in due tronconi che andavano a perdersi nel buio. Balthasar pestava ritmicamente i piedi, nel tentativo di evitare di congelarsi in mezzo a quella tormenta.
« Ciao. Sei in ritardo. »
« Lo so. Scusami. Ho avuto qualche contrattempo. » Il freddo gli gelava anche il cervello, e non riusciva a trovare una scusa più plausibile.
« Ma vedo che non è ancora arrivato neppure Gaspar. La roba l’hai portata? »
« No; ho chiesto a lui di portarla. Dovremmo incontrarlo poco più avanti. Lui è partito prima. Ha detto che, dovendo portare il carico, era più lento di noi.
« Ma sei sicuro che ci si possa fidare? Lo conosci bene, quel nero? »
« Stai tranquillo. Non fare caso al colore della pelle. È un brav’uomo, preciso e affidabile. Vedrai che ha tutto. »
Intanto si erano rimessi in cammino, prendendo la strada che portava verso oriente. Tacquero per un po’, poi Melkon non poté trattenersi dall’esternare le sue perplessità.
« Secondo me sarebbe stato meglio rimandare. Con questo tempo la roba si inumidirà, andrà a male. Faremo una figura meschina. »
Balthasar non rispose. Nel nevischio gli era sembrato di intravedere alcune ombre.
Non si sbagliava. Dopo qualche istante davanti a loro si materializzò un uomo che teneva per le briglie un asino. Dalla groppa del quadrupede pendevano alcune sacche. Melkon si stizzì. Apostrofò l’ombra scura davanti a lui:
« Ma, dico, non potevi prendere l’automobile? Cos’è, ti seccava sprecare la benzina? »
Gaspar sorrise.
« Ma no! Mi è sembrato che questo mezzo fosse più adatto al luogo verso cui stiamo dirigendo e alle persone che dobbiamo incontrare. E con l’asino non c’e il rischio di slittare sul fondo viscido e di finire fuori strada. »
« Avresti potuto montare le catene sulle ruote. In auto, almeno, avremmo patito meno freddo. E la roba che avete deciso di portare in regalo a quella gente non avrebbe corso il rischio di deteriorarsi. »
Balthasar intervenne:
« Finitela. Va bene così. E poi l’oro non si deteriora… »
Gaspar lo interruppe:
« Come, oro? Con tempi che corrono e dopo un’annata come questa? Incenso e mirra potevano anche andar bene, ma l’oro… Io ho cercato di contenere la spesa. Ho portato delle azioni. »
Melkon e Balthasar domandarono all’unisono:
« Azioni? Che azioni? »
« Dubai World. »
E fu così che il piccolo destinario dei regali, nato già di suo non troppo fortunato, nudo, al freddo, senza neppure il materasso ma soltanto un po’ di paglia per giaciglio, povero era e povero rimase.
lunedì 7 novembre 2011
LA SALVAGUARDIA DEI BENI D’ARTE E DEL PAESAGGIO Piero Lucca Vigevano 2 Febbraio 2001
Con la legge n. 352 DELL'8 ottobre 1997 il Parlamento delegava il governo ad emanare "un decreto legislativo recante un testo unico nel quale siano riunite le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali ed ambientali".
Le disposizioni vigenti erano le due importantissime leggi (leggi Bottai) che per 60 anni hann:O (in qualche modo) tutelato il nostro patrimonio artistico e ambientaleg leggi che per memoria storica ancora una volta ricordiamo: la 1089 del 1* giugno 1939 (a tutela del patrimonio artistico) e la 1497 del 29 giugno 1939 (per il patrimonio naturale).
I beni architettonici
e storici
Il vigente testo unico auspicato dal Parlamento nel 1997 ha avuto una gestazione rapidissima grazie alla ministra melandri si da poter nascere sul supplemento del n. 302 della Gazzetta Ufficjtyle del 27 ottobre 1999, con entrata in vigore 11 gennaio 2000.
Errerebbe chi credesse che l'assetto di questa materia sia stato riformato dalle fondamenta e che ci si trovi di fronte a una nuova sostanziale regolamentazione; questo non sarebbe costituzionalmente legittimo, perchè il legislatore delegato (cioè il governo) non può eccedere dai limiti della delega.
Per ciò che concerne la salvaguardia degli edifici monumentali (ex legge 1089/39) nessuna norma è mutata. Il vincolo tanto temuto e tanto necessario scatta automaticamente dopo 50 anni dalla costruzione dell'edificío. Tale vincolo può essere richiesto o concesso d'ufficio con decreto ministeriale che dichiara l'edificio di interesse nazionale; il decreto è notificato dalla Sovrintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di competenza (per noi Milano) al Comune e al proprietario dell'immobìle.
I proprietari hanno l'obbligo di conservare alla comunità il bene di valore artisticog le spese sostenute possono essere detratte nella dichiarazione dei redditi.
Dopo l'ultima guerra ai tradizionali edifici antichi Si Sono aggiunti i palazzi e le ville di architettura liberty e di architettura razionale, nonchè i grandi complessi industriali del recente passato (archeologia industriale).
L'obbligo della denuncia vale anche per gli oggetti d'arte (quadri, affreschi,sculture, arazzi, oreficerie, porcellane) che devono essere segnalati alla Soprintendenza ai Beni Storici e Artistici (per noi Brera a Milano) e per gli oggetti di archeologia, da segnalare alla Soprintendenza Archeologìca (a Milano).
Anche gli archivi storici di importanti famiglie, di società scomparse o di enti pubblici soppressi vanno segnalati alla soprintendenza Archivistica (a Milano).
Sia i beni immobili che quelli mobili possono essere venduti dai proprietari ma la vendita va segnalata alla Soprintendenza competente e lo Stato ha il diritto di prelazione.
L'ambiente
Piu', complessa la legislazione riguardante il patrimonio naturale (ex legge 1497 del 29 giugno 1939).
Piu' complessa perchè sono sorti diversi istituti di tutela (parchi nazionali) e perchè la tutela stessa è stata frazionata tra le Regioni che hanno legiferato per proprio conto (ad es. il Parco Regionale del Ticino) o non hanno legiferato affatto, come è il caso del Piemonte che si muove per il controllo in una selva di singole concessioni e autorizzazioni.
Anche lo Stato ha provveduto nei decenni del dopoguerra a varare leggi di tutela ottime e come tali dìsattese (vedi la legge Galasso)sulle costruzioni a precisa DISTANZA dalle acque demaniali. A proposito di demanio, vale la pena di ricordare che sono di proprietà demaniale le coste dei mari, dei laghi e dei fiumi, demaniale è il mare fino al limite delle acque terrítoriali i laghi e i fiumi.
Demaniale è il soprasuolo (se nel cortile di casa scoprite il petrolio, esso è di proprietà dello Stato), il cielo e il sottosuolo (l'acqua minerale è di proprietà demaniale.
Naturalmente lo Stato ciò che possiede lo dà in concessione e quando non lo dà si costruisce abusivamente su terreno di proprietà dello Stato, come regolarmente succede in Italia.
Il D.P.R. 616/77 e le leggi 67/88 e 349/86 hanno demandato alle Regio ni vasti compiti di sorveglianza per la difesa ambientale. Cito ad es.la collocazione dei cartelli stradali di propaganda commerciale e la mo difica dei colori delle facciate che provocano disturbo al contesto am
bientale (a tale proposito sarebbe bene che la Regione desse un'occhiata anche in casa nostra, dove gli orrori non mancano).
Alle Regioni lo Stato ha chiesto, di notificare al Ministero per i Beni Ambientali e Culturali un Piano Paesistico o un Piano Terri toriale cioè una dichiarazione di volontà politica per un programma operativo di tutela.
Dopo 15 questi piani regolatori regionali sono lettera morta per talune Regioni, Lombardia in testa (vedi lo scontro Formigoni Melandri) e compagnia al seguito (vedi fatti di Sarno)
Il Cittadino
Che cosa può fare?
Può addirittura rivolgersi alla Magístratura nel caso notasse una violazione delle leggi di tutela. Tuttavia è più semplice segnalare tale violazione ad istituti di tutela (Italia Nostra, Lega Ambiente WWF).
Istituti che procederanno alla denuncia.
Un'altra comoda via è la segnalazione agli ispettori onorari delle Soprintendenza e di esse rappresentanti.
Nelle grandi città ogni Soprintendenza ha un proprio rappresentante, ad esempio a Vigevano (che grande non è) solo la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici ha provveduto fin dal 1968 a far nominare dal Ministero per i Beni Ambientali e Culturali il proprio ispettore onorario, con competenza su mezza Lomellina.
Tale ispettore onorario risponde al nome del sottoscritto.
Piero Lucca Vigevano 2 febbraio 2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma
Le disposizioni vigenti erano le due importantissime leggi (leggi Bottai) che per 60 anni hann:O (in qualche modo) tutelato il nostro patrimonio artistico e ambientaleg leggi che per memoria storica ancora una volta ricordiamo: la 1089 del 1* giugno 1939 (a tutela del patrimonio artistico) e la 1497 del 29 giugno 1939 (per il patrimonio naturale).
I beni architettonici
e storici
Il vigente testo unico auspicato dal Parlamento nel 1997 ha avuto una gestazione rapidissima grazie alla ministra melandri si da poter nascere sul supplemento del n. 302 della Gazzetta Ufficjtyle del 27 ottobre 1999, con entrata in vigore 11 gennaio 2000.
Errerebbe chi credesse che l'assetto di questa materia sia stato riformato dalle fondamenta e che ci si trovi di fronte a una nuova sostanziale regolamentazione; questo non sarebbe costituzionalmente legittimo, perchè il legislatore delegato (cioè il governo) non può eccedere dai limiti della delega.
Per ciò che concerne la salvaguardia degli edifici monumentali (ex legge 1089/39) nessuna norma è mutata. Il vincolo tanto temuto e tanto necessario scatta automaticamente dopo 50 anni dalla costruzione dell'edificío. Tale vincolo può essere richiesto o concesso d'ufficio con decreto ministeriale che dichiara l'edificio di interesse nazionale; il decreto è notificato dalla Sovrintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di competenza (per noi Milano) al Comune e al proprietario dell'immobìle.
I proprietari hanno l'obbligo di conservare alla comunità il bene di valore artisticog le spese sostenute possono essere detratte nella dichiarazione dei redditi.
Dopo l'ultima guerra ai tradizionali edifici antichi Si Sono aggiunti i palazzi e le ville di architettura liberty e di architettura razionale, nonchè i grandi complessi industriali del recente passato (archeologia industriale).
L'obbligo della denuncia vale anche per gli oggetti d'arte (quadri, affreschi,sculture, arazzi, oreficerie, porcellane) che devono essere segnalati alla Soprintendenza ai Beni Storici e Artistici (per noi Brera a Milano) e per gli oggetti di archeologia, da segnalare alla Soprintendenza Archeologìca (a Milano).
Anche gli archivi storici di importanti famiglie, di società scomparse o di enti pubblici soppressi vanno segnalati alla soprintendenza Archivistica (a Milano).
Sia i beni immobili che quelli mobili possono essere venduti dai proprietari ma la vendita va segnalata alla Soprintendenza competente e lo Stato ha il diritto di prelazione.
L'ambiente
Piu', complessa la legislazione riguardante il patrimonio naturale (ex legge 1497 del 29 giugno 1939).
Piu' complessa perchè sono sorti diversi istituti di tutela (parchi nazionali) e perchè la tutela stessa è stata frazionata tra le Regioni che hanno legiferato per proprio conto (ad es. il Parco Regionale del Ticino) o non hanno legiferato affatto, come è il caso del Piemonte che si muove per il controllo in una selva di singole concessioni e autorizzazioni.
Anche lo Stato ha provveduto nei decenni del dopoguerra a varare leggi di tutela ottime e come tali dìsattese (vedi la legge Galasso)sulle costruzioni a precisa DISTANZA dalle acque demaniali. A proposito di demanio, vale la pena di ricordare che sono di proprietà demaniale le coste dei mari, dei laghi e dei fiumi, demaniale è il mare fino al limite delle acque terrítoriali i laghi e i fiumi.
Demaniale è il soprasuolo (se nel cortile di casa scoprite il petrolio, esso è di proprietà dello Stato), il cielo e il sottosuolo (l'acqua minerale è di proprietà demaniale.
Naturalmente lo Stato ciò che possiede lo dà in concessione e quando non lo dà si costruisce abusivamente su terreno di proprietà dello Stato, come regolarmente succede in Italia.
Il D.P.R. 616/77 e le leggi 67/88 e 349/86 hanno demandato alle Regio ni vasti compiti di sorveglianza per la difesa ambientale. Cito ad es.la collocazione dei cartelli stradali di propaganda commerciale e la mo difica dei colori delle facciate che provocano disturbo al contesto am
bientale (a tale proposito sarebbe bene che la Regione desse un'occhiata anche in casa nostra, dove gli orrori non mancano).
Alle Regioni lo Stato ha chiesto, di notificare al Ministero per i Beni Ambientali e Culturali un Piano Paesistico o un Piano Terri toriale cioè una dichiarazione di volontà politica per un programma operativo di tutela.
Dopo 15 questi piani regolatori regionali sono lettera morta per talune Regioni, Lombardia in testa (vedi lo scontro Formigoni Melandri) e compagnia al seguito (vedi fatti di Sarno)
Il Cittadino
Che cosa può fare?
Può addirittura rivolgersi alla Magístratura nel caso notasse una violazione delle leggi di tutela. Tuttavia è più semplice segnalare tale violazione ad istituti di tutela (Italia Nostra, Lega Ambiente WWF).
Istituti che procederanno alla denuncia.
Un'altra comoda via è la segnalazione agli ispettori onorari delle Soprintendenza e di esse rappresentanti.
Nelle grandi città ogni Soprintendenza ha un proprio rappresentante, ad esempio a Vigevano (che grande non è) solo la Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici ha provveduto fin dal 1968 a far nominare dal Ministero per i Beni Ambientali e Culturali il proprio ispettore onorario, con competenza su mezza Lomellina.
Tale ispettore onorario risponde al nome del sottoscritto.
Piero Lucca Vigevano 2 febbraio 2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma
Dell’Usura Rolando di Bari
Quella fonte inesauribile di studi e ricerche rappresentata dai documenti conservati nell’ Archivio Storico Civico di Vigevano in gran parte ancora sconosciuti al grande pubblico, ci fornisce ancora una volta Io spunto per una riflessione su di un argomento delicato, una vera piaga, grave e purulenta, del nostro tempo: l’usura.
Senza voler entrare nei meriti legale e penale del fenomeno aspetti che esulano dalla nostra competenza ci sembra opportuno che a tale problema, esistente fin dai tempi più antichi gli Organi di governo locali, più di mezzo millennio fa, avevano cercato di porre dei freni, dimostrando così un senso di responsabilità e una sensibilitá ai problemi della comunità sicu ramente maggiori a quelli degli amministratori d'oggigiorno.
Come ricordato nel titolo, l'usura (prestito di denaro, per il quale viene richiesto un interesse eccessivo è esistita in o gni tempo,senza distinzione di luogo o di razza.
Ampiamente documentata nell'antico Egitto, praticata tra i Greci, rappresentò nella realtà l’ossatura economica dell' Impero. Non ne erano immuni i Popoli cosiddetti Barbari,ne usarono tranquillamente i regnanti a ogni latitudine e longitudine, ne furono vittime po polani e nobili proletari e imprenditori.
Ma fu sempre considerata fuorilegge e, ove possibile, perseguita penalmente. In qualche caso essendosi dimostrato impossibile estirparne le radici (so prattutto perchè è sempre esistita una "utenza" a giustificarne, anzi a richiederne l’sistenza), si cercò di darle un minimo di regolamentazione.
E' quanto avviene a Vigevano nel 1435: un documento datato maggio (A.S.C.V. art. 52 5 §1, “Convocati del Consiglio Generale" n. 4, fol. 97/r.), precisa che: “il Consiglio Comunale convocato e congregato su mandato di Francischus de Bertonis vicario del Podestà Bastianus de Moscardis, al suono della campana e alla voce del banditore, dopo la lettura di sei capitoli degli statuti sugli ebrei, delibera che gli ebrei, prestatori di denaro, ricevano come interesse 12 denari al fiorino per ogni mese; se il prestito proseguirà oltre il mese, ma meno di un mese e mezzo, riceveranno per un mese e mezzo di prestito; se invece durerà oltre il mese e mezzo, ma meno di due mesi, riceveranno per due mesi di prestito e così via, per i mesi successivi.
Il documento è integrato, al verso, da una seconda delibera:"Il Consiglio Generale convocato, su mandato di Francischus de Bertanis vicario del Podesta Bastianus de Moscardis, delibera all’ ebreo Salomon de Gallis di venire ad abitare con la sua famiglia per praticare l'usura a norma dei 27 capitoli sui diritti degli ebrei, riguardanti le materie: ceIebrazioni di festività ebraiche; accettazione come pegno di qualunque bene tranne di quelli ecclesiastici; garanzie di pagamento per il denaro dato in prestito; non obbligo di restituzione dei pegni custoditi che siano stati rubati o incendiati.
Molto significativi sono due documenti più tardi, che comprovano come nemmeno gli enti pubblici potessero fare a meno di ricor rere all'usura:il 5 marzo 1450 "Il Consiglio Generale, convocato e congregato su mandato di Johannes de Sichis di Caravaggio, Podestà di Vigevano, al suono della campana e alla voce del banditore delibera che la somma di 255 ducati d’oro da consegnare a "Gasparus Delpiglio sia pagata con 150 ducati prestati dall' ebreo Datilus e irimanenti 105 siano forniti dalla comunità”.
Il 31 marzo dello stesso 1450 "Il Consiglio Generale etc…” delibera che i sindaci eletti dalla Comunità assicurino e diano garanzie all’ebreo Datilus per il (denaro da lui prestato al Comune” ( A.S.CV., art.52 §:1,"Convocati del Consiglio Generale'' n 6, fol 13\v e 17\r).
E’ interessante rilevare come da questi documenti risulti evidente la buona considerazione in cui erano tenuti gli ebrei (che giá allora detenevano il quasi completo monopolio dell' usura).
Quasi che la loro professione fosse una sorta dì "funzione sociale"; lo stesso insediamento di ebrei all’interno della Comunità vigevanese era ben visto, così sembra, dal popolo e dai suoi rappresentanti, e la loro attività godeva anche di una certa protezione (si vedano i commi della seconda delibera citata).
E' inoltre importante notare il rilievo dato all'obbligo per gli ebrei usurai di “accettazione come pegno” di qualunque bene, tranne di quelli ecclesiastici, a evidenziare come neppure il clero si facesse scrupolo di ricorrere all’usura impegnandovi le proprietá ecclesiastiche.
Purtroppo, in nessuna delle delibere citate, né in altri documenti è precisato se fossero previste pene per i contravventori, nè se sisiano mai rilevate infrazioni alle delibere stesse, ma è poco probabile che in questo settore la mano degli amministratori della giustizia rinascimentale fosse pesante come in altri settori.
Va comunque dato atto ai Consiglieri della Comunita vigevanese di buona volontà nel cercare di regolamentare una materia delicata, l’usura, che nella realtà della vita pratica si dimostrava di insostituibile supporto all’economia tanto nel commercio e nelle attività produttive quanto nell'amministrazione pubblica.
(2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma)
Senza voler entrare nei meriti legale e penale del fenomeno aspetti che esulano dalla nostra competenza ci sembra opportuno che a tale problema, esistente fin dai tempi più antichi gli Organi di governo locali, più di mezzo millennio fa, avevano cercato di porre dei freni, dimostrando così un senso di responsabilità e una sensibilitá ai problemi della comunità sicu ramente maggiori a quelli degli amministratori d'oggigiorno.
Come ricordato nel titolo, l'usura (prestito di denaro, per il quale viene richiesto un interesse eccessivo è esistita in o gni tempo,senza distinzione di luogo o di razza.
Ampiamente documentata nell'antico Egitto, praticata tra i Greci, rappresentò nella realtà l’ossatura economica dell' Impero. Non ne erano immuni i Popoli cosiddetti Barbari,ne usarono tranquillamente i regnanti a ogni latitudine e longitudine, ne furono vittime po polani e nobili proletari e imprenditori.
Ma fu sempre considerata fuorilegge e, ove possibile, perseguita penalmente. In qualche caso essendosi dimostrato impossibile estirparne le radici (so prattutto perchè è sempre esistita una "utenza" a giustificarne, anzi a richiederne l’sistenza), si cercò di darle un minimo di regolamentazione.
E' quanto avviene a Vigevano nel 1435: un documento datato maggio (A.S.C.V. art. 52 5 §1, “Convocati del Consiglio Generale" n. 4, fol. 97/r.), precisa che: “il Consiglio Comunale convocato e congregato su mandato di Francischus de Bertonis vicario del Podestà Bastianus de Moscardis, al suono della campana e alla voce del banditore, dopo la lettura di sei capitoli degli statuti sugli ebrei, delibera che gli ebrei, prestatori di denaro, ricevano come interesse 12 denari al fiorino per ogni mese; se il prestito proseguirà oltre il mese, ma meno di un mese e mezzo, riceveranno per un mese e mezzo di prestito; se invece durerà oltre il mese e mezzo, ma meno di due mesi, riceveranno per due mesi di prestito e così via, per i mesi successivi.
Il documento è integrato, al verso, da una seconda delibera:"Il Consiglio Generale convocato, su mandato di Francischus de Bertanis vicario del Podesta Bastianus de Moscardis, delibera all’ ebreo Salomon de Gallis di venire ad abitare con la sua famiglia per praticare l'usura a norma dei 27 capitoli sui diritti degli ebrei, riguardanti le materie: ceIebrazioni di festività ebraiche; accettazione come pegno di qualunque bene tranne di quelli ecclesiastici; garanzie di pagamento per il denaro dato in prestito; non obbligo di restituzione dei pegni custoditi che siano stati rubati o incendiati.
Molto significativi sono due documenti più tardi, che comprovano come nemmeno gli enti pubblici potessero fare a meno di ricor rere all'usura:il 5 marzo 1450 "Il Consiglio Generale, convocato e congregato su mandato di Johannes de Sichis di Caravaggio, Podestà di Vigevano, al suono della campana e alla voce del banditore delibera che la somma di 255 ducati d’oro da consegnare a "Gasparus Delpiglio sia pagata con 150 ducati prestati dall' ebreo Datilus e irimanenti 105 siano forniti dalla comunità”.
Il 31 marzo dello stesso 1450 "Il Consiglio Generale etc…” delibera che i sindaci eletti dalla Comunità assicurino e diano garanzie all’ebreo Datilus per il (denaro da lui prestato al Comune” ( A.S.CV., art.52 §:1,"Convocati del Consiglio Generale'' n 6, fol 13\v e 17\r).
E’ interessante rilevare come da questi documenti risulti evidente la buona considerazione in cui erano tenuti gli ebrei (che giá allora detenevano il quasi completo monopolio dell' usura).
Quasi che la loro professione fosse una sorta dì "funzione sociale"; lo stesso insediamento di ebrei all’interno della Comunità vigevanese era ben visto, così sembra, dal popolo e dai suoi rappresentanti, e la loro attività godeva anche di una certa protezione (si vedano i commi della seconda delibera citata).
E' inoltre importante notare il rilievo dato all'obbligo per gli ebrei usurai di “accettazione come pegno” di qualunque bene, tranne di quelli ecclesiastici, a evidenziare come neppure il clero si facesse scrupolo di ricorrere all’usura impegnandovi le proprietá ecclesiastiche.
Purtroppo, in nessuna delle delibere citate, né in altri documenti è precisato se fossero previste pene per i contravventori, nè se sisiano mai rilevate infrazioni alle delibere stesse, ma è poco probabile che in questo settore la mano degli amministratori della giustizia rinascimentale fosse pesante come in altri settori.
Va comunque dato atto ai Consiglieri della Comunita vigevanese di buona volontà nel cercare di regolamentare una materia delicata, l’usura, che nella realtà della vita pratica si dimostrava di insostituibile supporto all’economia tanto nel commercio e nelle attività produttive quanto nell'amministrazione pubblica.
(2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma)
“Dove si trova la gran città di Milano?” “Sulla strada di Madrid Senor! Franco Fava
Milano, decaduta nel corso del XVI secolo al rango di semplice capoluogo di una delle tante province spagnole, lasciata in balia di governatori autoritari e dispotici. autentici tiranni incuranti delle "Nuove costituzioni" e degli "Ordini di Worms" che fissavano i limiti entro i quali avrebbero dovuto agire, i quali non lasciarono nello stato e nella città alcuna ricordanza dí sé, se non per le ridondanti “kride" emanate a getto continuo su tutte le attività di pubblico interesse, e pergli assillanti aumenti di imposte, che colpivano in modo particolare il popolo minuto e la borghesia, le uniche classi produttive della società, conobbe uno dei periodi più tristi della sua storia.
L'industria della lana, uno dei fulcri dell'economia ambrosiana, venne quasi completamente distrutta, grazie alle tasse esorbitanti di cui venne gravata: i 70 lanifici che ancora sopravvivevano alla fine del XVI secolo si ridussero a 15 nel 1640, a 5 nel 1682. Identica contrazione subirono altre industrie, fiorenti nel periodo sforzesco, quali quella della seta, delle maioliche, della tintoria, ecc.
I dazi andavano di pari passo con le tasse: la regola generale era un protezionismo esasperato che, in teoria, avrebbe dovuto valorizzare l'industria e l'artigianato locali, ma in effetti risultò la causa prima, o almeno tra le prime, del dissesto economico e del quasi totale allontanamento dal Milanese di ogni commercio di transito.
La proprietà terriera era quasi totalmente nelle mani del clero e della nobiltà, in minima parte della borghesia. L'aggravio fiscale per le proprietà non privilegiate (cioè non in mano a enti, nobili e clero) era talmente pesante che quasi tutto il reddito finiva con l'essere assorbito dalle imposte. Perciò il piccolo proprietario era costretto a vendere, contribuendo in tal modo a gonfiare incredibilmente i possessi fondiari delle famiglie nobili, degli ecclesiastici e dei luoghi pii.
Dal canto loro, i produttori di merci lussuose, orefici, ricamatori, profumieri, musicisti, architetti e pittori si costruirono enormi fortune facendo leva su quelli che erano gli ideali della classe dirigente: condurre una vita sfarzosa, investendo enormi capitali nel perfezionamento della propria immagine pubblica. Accanto a costoro si impose un nuovo ceto di avventurieri senza scrupoli, che arrivarono ad accumulare favolose ricchezze: splendenti ed effimere meteore che il più delle volte venivano travolte dalla bancarotta e lasciavano dietro di sé i segni di un'ambizione smodata (volendo in ciò gareggiare con i nobili), colossali opere edilizie, spesso non finite, o finite da altri dopo la loro oscura scomparsa. Valga per tutti l'esempio di quel Tommaso Marino genovese che, trasferitosi a Milano nel 1532, si arricchì come appaltatore di dazi e gabelle e prestando al governo spagnolo enormi somme per il finanziamento degli eserciti, sulle quali esigeva interessi ad usura.
A lui si deve la costruzione di quello che ancor oggi viene chiamato “Palazzo Marino”, attuale sede del municipio di Milano. Tommaso Marino morì, quasi centenario, dopo essere miseramente fallito, e il grandioso palazzo non fu ultimato: la fronte verso piazza della Scala (che originariamente doveva essere la parte sinistra del palazzo, mentre la fronte principale dava sull'attuale via Marino) fu completata solo nel 1890, ad opera dell'architetto Luca Beltrami. Il palazzo crebbe, si narra, sotto il peso di una maledizione, lanciatagli da un misterioso profeta, mentre fervevano i lavori di costruzione: «Congeries lapidum, multis constructa rapinis, aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet» (questa congerie di pietre, innalzata con il frutto di tante rapine, o brucerà, o andrà in rovina, o sarà rubata da un altro ladrone).
La società era così dominata dal ceto egemone dei nobili, comprendente sia i nobili di origine feudale, sia la nobiltà di origine cittadina, la quale poteva vantare la residenza in città fin da epoche remote, e una nobiltà più recente, creata dai Visconti e dagli Sforza con la concessione di feudi a sudditi di provata fedeltà.
All'interno della classe dei nobili andò vieppiù distinguendosi una sorta di "nobiltà maggiore", o “patriziato”, che aveva diritto a ricoprire importanti cariche pubbliche, e a cui tutti naturalmente tendevano, tentando di dimostrare la superiorità della propria origine. In proposito un responso del collegio dei Giureconsulti precisava: «Quelli soltanto si debbono ritenere patrizii, i quali traggono origine da una famiglia antica o di antica nobiltà... e inoltre se i suoi membri si sono astenutì dalla mercatura, dagli affari e da lucri sordidi di qualsiasi genere sia procurati direttamente sia per il tramite di gestori, quei lucri soltanto sono ammessi per cui si costituisce il patrimonio famigliare con atti e cose dalle quali esula ogni immoralità».
Insieme con la smodata ambizione per i titoli nobiliari, si sviluppò la morbosa passione per le genealogie: ogni grande famiglia ambiva fregiarsi di un passato illustre e di antenati famosi e, se questi non c'erano, poco male, c'era sempre la possibilità di costruirseli su misura.Si sviluppo così tutta un'industria sotterranea di falsificazioni genealogiche, che faceva affari d'oro. Si giunse così a dimostrare la discendenza dei Visconti da Desiderio, re dei longobardi (ma esiste anche una pergamena che fa risalire la genealogia di tale famiglia fino ad Adamo, dato che oltre non era concesso andare).
La boria spagnolesca, entrata in Milano quasi di soppiatto, dapprima derisa, in seguito sopportata con sufficienza, finì col contagiare irrimediabilmente le famiglie nobili ambrosiane, le quali facevano a gara nell'ostentare il fasto e il lusso più pacchiani. Le feste erano le occasioni più propizie per ostentare tutto il bagaglio dipessimo gusto e vanagloria: si allestivano cortei interminabili, ci si addobbava con monumentali assurdi costumi e si improvvisavano ridicole carnevalate condite da tornei di scherma, lotta e ballo. La carrozza era uno degli "status symbol" del successo nei giorni di festa il popolo, ghiotto di forti emozioni si assiepava lungo il corso che dal Castello portava in Duomo ad ammirare la sfilata di carrozze delle nobili famiglie che si recavano in pompa magna alla messa. In breve tempo Milano arrivò a detenere il record mondiale delle carrozze (coupé, spider, berline) in circolazione. Nel 1666 vi circolavano 115 carrozze a sei cavalli (le Rolls Royce dell'epoca), 437 a quattro cavalli, 1634 a due cavalli.
Ma il pezzo forte della vita di società era costituito dal litigio: ogni occasione era buona per comporre una bella controversia da affidare nelle mani dell'azzeccagarbugli di fiducia. La causa principale dei litigi era la “Precedenza", tipico prodotto di importazione spagnolesca: chi era meno importante, o meno nobile, doveva cedere umilmente il passo a chi era più importante, o più nobile, nelle cerimonie pubbliche, nelle funzioni religiose, doveva sedersi o camminare in posizione arretrata, e via di questo passo; questioni fanciullesche, spesso di difficile, se non impossibile soluzione, che si trascinavano per anni, se non per generazioni.
La violenza finì col sostituire sempre più frequentemente il diritto, chi sapeva e poteva farne uso otteneva deferenza e rispetto. Ogni offesa, anche la più banale, doveva essere vendicata a fil di spada. Naturalmente i best seller librari dell'epoca erano ponderosi e grotteschi manuali di cavalleria, che enumeravano tutti i casi in cui era d'uopo incrociare le spade e le modalità di svolgimento dei duelli.
Con l'andar del tempo il culto della violenza che aveva contagiato i giovani rampolli dell'aristocrazia finì col trovare il suo naturale sfogo nell'ambito di un'istituzione che proprio della violenza aveva fatto il suo credo: l'esercito. I cadetti si arruolavano, assetati di sangue e di gloria e, se molto ricchi, arrivavano ad armare essi stessi piccoli agguerriti eserciti. Le femmine nobili erano invece spesso rinchiuse a fare le monache in conventi (di cui Milano possedeva un invidiabile campionario) che frequentemente erano scuola di superficialità e di immoralità. Come non ricordare la tristemente famosa "monaca di Monza“, Marianna de Leyva, che, nata nel 1575 a palazzo Marino, fu a soli 11 anni rinchiusa nel convento delle Benedettine di S. Margherita?
In convento suor Virginia ebbe due figli, uno dei quali nacque morto, dall'amante Giampaolo Osio, il quale uccise anche una conversa che aveva scoperto la tresca.
I nobili si circondavano di servitori armati, "bravi" (da "bravos", coraggiosi), il cui compito era di esercitare la violenza per conto terzi. Il popolo, in balia delle loro angherie, si lamentava presso le autorità, i governatoti rispondevano con inascoltate gride, che finivano con l'ammuffire negli archivi degli avvocati. D'altra parte spesso erano gli stessi governatori a dare il "buon esempio".avendo un malaugurato giorno una carrozza della marchesa Novati urtato una carrozza di corte, il governatore, il terribile duca d'Ossuna d'infausta memoria, furente di sdegno, fece devastare per un mese di fila dai suoi bravi le terre della marchesa, fino a che questa non si decise a placare l'ira funesta dell'offeso con un'adeguata "offerta" in monete d'oro.
La polizia, mal organizzata e spesso corrotta, generalmente faceva molto fumo ma combinava ben poco per mantenere l'ordine pubblico. Imperversavano in campagna e in città numerose bande organizzate di briganti, che terrorizzavano contadini e viandanti. Essendo dunque le strade quasi totalmente abbandonate nelle mani dei briganti, e latitando la polizia, si autorizzavano interi villaggi ad armarsi e tener sentinelle sui campanili delle chiese. Si arrivò a concedere a tutti gli abitanti di un'intera provincia di armarsi con spingarde e tromboniper respingere gli assalti dei banditi, autentici assedi.
Le pene previste per i criminali erano severissime e venivano eseguite pubblicamente, in piazza della Vetra: arrotamento, squartamento, roghi, impiccagioni erano ghiotti spettacoli per un popolo abituato a convivere con la violenza, corazzato contro la sofferenza ed educato al gusto del macabro e della morte.
Di pari passo con la delinquenza dilagava il “pauperismo", causato dalla endemica mancanza di posti di lavoro: fini col formarsi in tutta la Lombardia una vera e propria classe di disoccupati vagabondi i più intraprendenti dei quali si davano al piccolo brigantaggio e allo “sfroso" ("sfrosatore" era chi commerciava senza autorizzazione in merci vincolate da monopolio, come sale, farina, pane e formaggio, e chi introduceva merci in città eludendo il dazio, chi esportava o importava generi proibiti e introduceva nello stato monete false); gli altri la maggioranza, si dedicavano alla mendicità.
Di tanto in tanto i vagabondi venivano radunati dalle autorità comunali in grandi locali ("recontrados”) e le congregazioni religiose di carità si davano un gran daffare con elemosine e beneficenza per acquistare meriti e riuscendo in pratica ad accontentare solo una parte minima di bisognosi, ma incoraggiando pericolosamente il fatalismo e la rassegnazione.
Di partecipazione politica, ad ogni livello, non è neppure il caso di parlare; ilpopolo si disinteressava di avvenimenti dai quali non era personalmente toccato, e dal momento che Milano viveva solo di riflesso le vicende militari e politiche della Spagna, l'indifferenza, il qualunquismo, il disimpegno erano gli atteggiamenti mentali più diffusi. Tutta la politica cittadina si riduceva a plateali, ridicole ma sanguinose, scaramucce tra fautori della Spagna e fautori della Francia (i cosiddetti "navarrini”).
La Spagna aveva conquistato uno stato ancor florido economicamente per le sue attività industriali e mercantili e per l'agricoltura all'avanguardia grazie aipreziosi lavori di canalizzazione compiuti dall'età comunale a quella sforzesca; in meno di duecento anni lo trasformò in una larva pietosa, retta da una classe egemone di redditieri privilegiati che gravava sulla popolazione delle campagne con impossibili pesi fiscali. Al termine della dominazione spagnola Milano rimaneva una città discretamente popolata (130.000 abitanti, nonostante fosse stata due volte decimata dalla pestilenza), la cui popolazione non aveva però più alcun senso dell'indipendenza; si concedeva l'unico lusso del disprezzo nei confronti dei soldati stranieri e della diffidenza nei confronti della polizia e degli esattori delle tasse, gli unici reali nemici contro i quali ingaggiare la quotidiana lotta per salvare il salvabile.
(2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma)
L'industria della lana, uno dei fulcri dell'economia ambrosiana, venne quasi completamente distrutta, grazie alle tasse esorbitanti di cui venne gravata: i 70 lanifici che ancora sopravvivevano alla fine del XVI secolo si ridussero a 15 nel 1640, a 5 nel 1682. Identica contrazione subirono altre industrie, fiorenti nel periodo sforzesco, quali quella della seta, delle maioliche, della tintoria, ecc.
I dazi andavano di pari passo con le tasse: la regola generale era un protezionismo esasperato che, in teoria, avrebbe dovuto valorizzare l'industria e l'artigianato locali, ma in effetti risultò la causa prima, o almeno tra le prime, del dissesto economico e del quasi totale allontanamento dal Milanese di ogni commercio di transito.
La proprietà terriera era quasi totalmente nelle mani del clero e della nobiltà, in minima parte della borghesia. L'aggravio fiscale per le proprietà non privilegiate (cioè non in mano a enti, nobili e clero) era talmente pesante che quasi tutto il reddito finiva con l'essere assorbito dalle imposte. Perciò il piccolo proprietario era costretto a vendere, contribuendo in tal modo a gonfiare incredibilmente i possessi fondiari delle famiglie nobili, degli ecclesiastici e dei luoghi pii.
Dal canto loro, i produttori di merci lussuose, orefici, ricamatori, profumieri, musicisti, architetti e pittori si costruirono enormi fortune facendo leva su quelli che erano gli ideali della classe dirigente: condurre una vita sfarzosa, investendo enormi capitali nel perfezionamento della propria immagine pubblica. Accanto a costoro si impose un nuovo ceto di avventurieri senza scrupoli, che arrivarono ad accumulare favolose ricchezze: splendenti ed effimere meteore che il più delle volte venivano travolte dalla bancarotta e lasciavano dietro di sé i segni di un'ambizione smodata (volendo in ciò gareggiare con i nobili), colossali opere edilizie, spesso non finite, o finite da altri dopo la loro oscura scomparsa. Valga per tutti l'esempio di quel Tommaso Marino genovese che, trasferitosi a Milano nel 1532, si arricchì come appaltatore di dazi e gabelle e prestando al governo spagnolo enormi somme per il finanziamento degli eserciti, sulle quali esigeva interessi ad usura.
A lui si deve la costruzione di quello che ancor oggi viene chiamato “Palazzo Marino”, attuale sede del municipio di Milano. Tommaso Marino morì, quasi centenario, dopo essere miseramente fallito, e il grandioso palazzo non fu ultimato: la fronte verso piazza della Scala (che originariamente doveva essere la parte sinistra del palazzo, mentre la fronte principale dava sull'attuale via Marino) fu completata solo nel 1890, ad opera dell'architetto Luca Beltrami. Il palazzo crebbe, si narra, sotto il peso di una maledizione, lanciatagli da un misterioso profeta, mentre fervevano i lavori di costruzione: «Congeries lapidum, multis constructa rapinis, aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet» (questa congerie di pietre, innalzata con il frutto di tante rapine, o brucerà, o andrà in rovina, o sarà rubata da un altro ladrone).
La società era così dominata dal ceto egemone dei nobili, comprendente sia i nobili di origine feudale, sia la nobiltà di origine cittadina, la quale poteva vantare la residenza in città fin da epoche remote, e una nobiltà più recente, creata dai Visconti e dagli Sforza con la concessione di feudi a sudditi di provata fedeltà.
All'interno della classe dei nobili andò vieppiù distinguendosi una sorta di "nobiltà maggiore", o “patriziato”, che aveva diritto a ricoprire importanti cariche pubbliche, e a cui tutti naturalmente tendevano, tentando di dimostrare la superiorità della propria origine. In proposito un responso del collegio dei Giureconsulti precisava: «Quelli soltanto si debbono ritenere patrizii, i quali traggono origine da una famiglia antica o di antica nobiltà... e inoltre se i suoi membri si sono astenutì dalla mercatura, dagli affari e da lucri sordidi di qualsiasi genere sia procurati direttamente sia per il tramite di gestori, quei lucri soltanto sono ammessi per cui si costituisce il patrimonio famigliare con atti e cose dalle quali esula ogni immoralità».
Insieme con la smodata ambizione per i titoli nobiliari, si sviluppò la morbosa passione per le genealogie: ogni grande famiglia ambiva fregiarsi di un passato illustre e di antenati famosi e, se questi non c'erano, poco male, c'era sempre la possibilità di costruirseli su misura.Si sviluppo così tutta un'industria sotterranea di falsificazioni genealogiche, che faceva affari d'oro. Si giunse così a dimostrare la discendenza dei Visconti da Desiderio, re dei longobardi (ma esiste anche una pergamena che fa risalire la genealogia di tale famiglia fino ad Adamo, dato che oltre non era concesso andare).
La boria spagnolesca, entrata in Milano quasi di soppiatto, dapprima derisa, in seguito sopportata con sufficienza, finì col contagiare irrimediabilmente le famiglie nobili ambrosiane, le quali facevano a gara nell'ostentare il fasto e il lusso più pacchiani. Le feste erano le occasioni più propizie per ostentare tutto il bagaglio dipessimo gusto e vanagloria: si allestivano cortei interminabili, ci si addobbava con monumentali assurdi costumi e si improvvisavano ridicole carnevalate condite da tornei di scherma, lotta e ballo. La carrozza era uno degli "status symbol" del successo nei giorni di festa il popolo, ghiotto di forti emozioni si assiepava lungo il corso che dal Castello portava in Duomo ad ammirare la sfilata di carrozze delle nobili famiglie che si recavano in pompa magna alla messa. In breve tempo Milano arrivò a detenere il record mondiale delle carrozze (coupé, spider, berline) in circolazione. Nel 1666 vi circolavano 115 carrozze a sei cavalli (le Rolls Royce dell'epoca), 437 a quattro cavalli, 1634 a due cavalli.
Ma il pezzo forte della vita di società era costituito dal litigio: ogni occasione era buona per comporre una bella controversia da affidare nelle mani dell'azzeccagarbugli di fiducia. La causa principale dei litigi era la “Precedenza", tipico prodotto di importazione spagnolesca: chi era meno importante, o meno nobile, doveva cedere umilmente il passo a chi era più importante, o più nobile, nelle cerimonie pubbliche, nelle funzioni religiose, doveva sedersi o camminare in posizione arretrata, e via di questo passo; questioni fanciullesche, spesso di difficile, se non impossibile soluzione, che si trascinavano per anni, se non per generazioni.
La violenza finì col sostituire sempre più frequentemente il diritto, chi sapeva e poteva farne uso otteneva deferenza e rispetto. Ogni offesa, anche la più banale, doveva essere vendicata a fil di spada. Naturalmente i best seller librari dell'epoca erano ponderosi e grotteschi manuali di cavalleria, che enumeravano tutti i casi in cui era d'uopo incrociare le spade e le modalità di svolgimento dei duelli.
Con l'andar del tempo il culto della violenza che aveva contagiato i giovani rampolli dell'aristocrazia finì col trovare il suo naturale sfogo nell'ambito di un'istituzione che proprio della violenza aveva fatto il suo credo: l'esercito. I cadetti si arruolavano, assetati di sangue e di gloria e, se molto ricchi, arrivavano ad armare essi stessi piccoli agguerriti eserciti. Le femmine nobili erano invece spesso rinchiuse a fare le monache in conventi (di cui Milano possedeva un invidiabile campionario) che frequentemente erano scuola di superficialità e di immoralità. Come non ricordare la tristemente famosa "monaca di Monza“, Marianna de Leyva, che, nata nel 1575 a palazzo Marino, fu a soli 11 anni rinchiusa nel convento delle Benedettine di S. Margherita?
In convento suor Virginia ebbe due figli, uno dei quali nacque morto, dall'amante Giampaolo Osio, il quale uccise anche una conversa che aveva scoperto la tresca.
I nobili si circondavano di servitori armati, "bravi" (da "bravos", coraggiosi), il cui compito era di esercitare la violenza per conto terzi. Il popolo, in balia delle loro angherie, si lamentava presso le autorità, i governatoti rispondevano con inascoltate gride, che finivano con l'ammuffire negli archivi degli avvocati. D'altra parte spesso erano gli stessi governatori a dare il "buon esempio".avendo un malaugurato giorno una carrozza della marchesa Novati urtato una carrozza di corte, il governatore, il terribile duca d'Ossuna d'infausta memoria, furente di sdegno, fece devastare per un mese di fila dai suoi bravi le terre della marchesa, fino a che questa non si decise a placare l'ira funesta dell'offeso con un'adeguata "offerta" in monete d'oro.
La polizia, mal organizzata e spesso corrotta, generalmente faceva molto fumo ma combinava ben poco per mantenere l'ordine pubblico. Imperversavano in campagna e in città numerose bande organizzate di briganti, che terrorizzavano contadini e viandanti. Essendo dunque le strade quasi totalmente abbandonate nelle mani dei briganti, e latitando la polizia, si autorizzavano interi villaggi ad armarsi e tener sentinelle sui campanili delle chiese. Si arrivò a concedere a tutti gli abitanti di un'intera provincia di armarsi con spingarde e tromboniper respingere gli assalti dei banditi, autentici assedi.
Le pene previste per i criminali erano severissime e venivano eseguite pubblicamente, in piazza della Vetra: arrotamento, squartamento, roghi, impiccagioni erano ghiotti spettacoli per un popolo abituato a convivere con la violenza, corazzato contro la sofferenza ed educato al gusto del macabro e della morte.
Di pari passo con la delinquenza dilagava il “pauperismo", causato dalla endemica mancanza di posti di lavoro: fini col formarsi in tutta la Lombardia una vera e propria classe di disoccupati vagabondi i più intraprendenti dei quali si davano al piccolo brigantaggio e allo “sfroso" ("sfrosatore" era chi commerciava senza autorizzazione in merci vincolate da monopolio, come sale, farina, pane e formaggio, e chi introduceva merci in città eludendo il dazio, chi esportava o importava generi proibiti e introduceva nello stato monete false); gli altri la maggioranza, si dedicavano alla mendicità.
Di tanto in tanto i vagabondi venivano radunati dalle autorità comunali in grandi locali ("recontrados”) e le congregazioni religiose di carità si davano un gran daffare con elemosine e beneficenza per acquistare meriti e riuscendo in pratica ad accontentare solo una parte minima di bisognosi, ma incoraggiando pericolosamente il fatalismo e la rassegnazione.
Di partecipazione politica, ad ogni livello, non è neppure il caso di parlare; ilpopolo si disinteressava di avvenimenti dai quali non era personalmente toccato, e dal momento che Milano viveva solo di riflesso le vicende militari e politiche della Spagna, l'indifferenza, il qualunquismo, il disimpegno erano gli atteggiamenti mentali più diffusi. Tutta la politica cittadina si riduceva a plateali, ridicole ma sanguinose, scaramucce tra fautori della Spagna e fautori della Francia (i cosiddetti "navarrini”).
La Spagna aveva conquistato uno stato ancor florido economicamente per le sue attività industriali e mercantili e per l'agricoltura all'avanguardia grazie aipreziosi lavori di canalizzazione compiuti dall'età comunale a quella sforzesca; in meno di duecento anni lo trasformò in una larva pietosa, retta da una classe egemone di redditieri privilegiati che gravava sulla popolazione delle campagne con impossibili pesi fiscali. Al termine della dominazione spagnola Milano rimaneva una città discretamente popolata (130.000 abitanti, nonostante fosse stata due volte decimata dalla pestilenza), la cui popolazione non aveva però più alcun senso dell'indipendenza; si concedeva l'unico lusso del disprezzo nei confronti dei soldati stranieri e della diffidenza nei confronti della polizia e degli esattori delle tasse, gli unici reali nemici contro i quali ingaggiare la quotidiana lotta per salvare il salvabile.
(2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma)
UN DIAPASON IN MI...LANO BREVI ED INCOMPLETE OSSERVAZIONI SUL MONDO MUSICALE DELLA CITTA'. Roberto Bagnera
GIOVANNI D'ANZI
Il nostro piccolo viaggio inizia il giorno 11 gennaio del 1906, in una casa al civico n° 48 di via Locati, dove nasce la figura sicuramente più ieratica della musica meneghina: Giovanni D'Anzi, il maestro, bambino prodigio al pianoforte ed eccelso scrittore di quelle indimenticabili melodie fra le quali vogliamo ricordare: "Ma le Gambe", " Bambina Innamorata","Non Dimenticar le mie Parole","Signorina Grandi Firme","Voglio Vivere Così", "Silenzioso Slow ( Abbassa la tua Radio)",tutti grandi successi, scritti con l'amico di sempre Alfredo Bracchi,che accompagnarono la sua carriera fino agli anni '50, poi la svolta milanese:"O mia Bela Madonina","Lassa pur ch'el mond el disa","El Biscella de Porta Cines", "El gagà del Motta", "Mariolina de Porta Romana","El tu mi ami del Lorett", e tante tante altre.
(2001 Annuario Fondazione Milano Policroma)
Giovanni D'Anzi morì il 15 aprile del 1974, dopo aver speso gli ultimi anni occupandosi anche di edizioni musicalei e scoprendo, tra gli altri Memo Remigi, che fu da molti indicato come suo erede, a noi rimane indelebile il ricordo delle sue melodie e quella statua al museo delle cere, in Stazione Centrale, che lo raffigura seduto al suo amato pianoforte.
LA POVERA ROSETTA
La canzone Milanese, per quanto poco nota al vasto pubblico, vanta un nutrito repertorio di canzoni tradizionali che interpreti come i "Cantamilano" e il "Duo Padano" cercano di mantenere in auge con svariati concerti, fra le tante citiamo "La Povera Rosetta":una delle prime canzoni della "Mala".
Rosetta era una "Belle de Jour" dei primi del 900, che fu uccisa dal suo gelosissimo amante, un agente di questura,forse nel 1914, la bella Rosetta, riferisce Luigi Inzaghi: "..è rimasta per quasi un secolo come l'esempio drammatico della tragica fine che incombe su ogni donna della malavita,la pietà, ed ancor più la tenerezza che riesce a suscitare ancora oggi è data dal fatto che la Rosetta è morta non ancora ventenne...".
PORTA ROMANA
Tra le tante canzoni popolari milanesi spicca "Porta Romana Bella", una specie di racconto in musica di uno spaccato di vita quotidiana in uno dei quartieri più antichi dela città, la canzone in questione è assurta nel tempo ad una specie di stornello romano con le strofe che cambiano a seconda delle situazioni che si vogliono descrivere e, anche discograficamente, ne esistono svariate versioni, memorabili quella degli anni '60 proposta da Giorgio Gaber che praticamente la riportò alle luci della ribalta, e quella ironica e dissacrante dei Gufi.
GIORGIO GABER
Figlio di oriundi triestini, Giorgio Gaberscik, era nato il 25 gennaio del 1939 e debuttò nel mondo della musica a soli 17 anni come chitarrista del gruppo dixieland "Rocky Mountain"; due anni dopo, era il 1958,approdò sulla pedana del prestigioso locale Santa Tecla, dove si riunivano gli amanti del jazz e del nascente Rock'n'Roll e dove debuttarono anche Ricky Gianco,Celentano e Jannacci.
Gaber iniziò la sua carriera saltando sul carrozzone del R'n'R assieme ad un pugno di amici concorrenti che fiutavano le possibilità immense di questo filone e così ecco "Ciao ti Dirò", che però raccolse maggiori successi nella versione “rubatagli” da Celentano, e "Una Fetta di Limone" eseguita con il gruppo, dalla vita, ahimè, troppo breve, dei "due Corsari" (Gaber stessoed Enzo Jannacci).
Entrando in contatto con la scuola dei cantautori genovesi, Gaber inizia ad ammorbidire il suo stile, producendosi in delicate ballate come "Geneviève",”Mai Mai Valentina”,“Non Arrossire”, o “Parlami d’Amore Mariù”, per poi approdare ad un repertorio più correlato alla città di Milano.
La milanesità di Gaber è un'inevitabile celebrazione del lavoro, delle sue glorie e delle sue miserie,, ma è anche una contemplazione mesta e retro di un tessuto sociale che, già negli anni '60, non esiste più, ecco allora quegli apparentemente bonari quadretti di vita milanese, che nascondono però una partecipe attenzione alla realtà degli emarginati, dei piccoli balordi da osteria:"La ballata del Cerutti", "Il Riccardo", "Nel Trani a go go", "Barbera e Champagne",”E Allora Dai”,”Come è Bella la Città”, “Torpedo Blu”.
Gli anni che seguono vedono maturare il percorso artistico di Gaber in una direzione ancor più impegnata, memorabili i suoi recital dedicati al "Signor G.", interprete di brani come “Ipotesi per una Maria”,”Quello che Perde i Pezzi”, “I Borghesi”, “I Soli”, “Lo Shampoo”,che ne decretano il definitivo successo e la consacrazione a star nazionale.
OMBRETTA COLLI
Nata a Genova nel 1945, nota più per essere la moglie di Giorgio Gaber che per le sue qualità artistiche, si tratta invece di un'interprete poliedrica e vitale, la sua carriera, esordì nel cinema e nel teatro, si è sempre risolta nell'ambiente della canzone satirica ed impegnata,collaborando co i vari Svampa, Gufi, Jannacci e Dario Fo, impegno nella vita sociale che l'ha anche recentemente portata alla ribalta della politica lombarda.
CASA RICORDI
Il 1958, come abbiamo detto poc'anzi, vede l'esordio di Gaber , ma è anche una data storica per una famiglia "musicalmente" fondamentale per Milano: i Ricordi.
La "Dischi Ricordi", comparto discografico della casa di edizioni musicali che tanto contribuì, soprattutto con l'instancabile attività di Giulio Ricordi, a far conoscere la grande musica del nostro paese in giro per il mondo fra l'Ottocento e il Novecento, nasce appunto nel 1958: l'occasione è il centocinquantesimo anniversario della fondazione di "Casa Ricordi".
Ma è solo all'inizio degli anni '60 che si afferma come una delle realtà discografiche più influenti in Italia,soprattutto per la sua meritoria promozione della canzone d'autore.
Nanni Ricordi, uno dei giovani rampolli della celebre famiglia, ha un ruolo di assoluta rilevanza in questa attività: grazie al suo formidabile intuito si materializzano come dal nulla alcuni dei personaggi che faranno grande la nostra canzone: da Gino Paoli ad Umberto Bindi, da Ornella Vanoni a Giorgio Gaber, da Sergio Endrigo a Luigi Tenco ed Enzo Jannacci.
IL CABARET
Altra fondamentale istituzione della musica, e dello spettacolo, milanese, è il "CABARET": termine francese che significa Taverna".
Nelle taverne francesi era possibile consumare varie qualità di vino ed erano frequentate spesso da cospiratori, intellettuali e pittori che vi concertavano i loro moti.
Fu nel 1881, che uno squattrinato pittore, Rodolfo Salis, aprì un locale in boulevard Rochechouart, il "CHAT NOIR" (il gatto nero), dotato di una pedana dove amici del Salis si esibivano declamando poesie o storielle ed improvvisando canzoni, il successo arrise immediatamente e originò una nuova moda che si propagò per tutta Europa.
In Italia gli esordi di questa specie di Pastiche furono a Genova per poi approdare in breve tempo a Milano.
Nel 1962, un musicista, Enrico Intra, in societa' con il proprietario dell'albergo- ristorante Derby, rileva il "Whisky a go go" di via Monterosa, locale ricavato da uno scantinato, crea l'"INTRA's DERBY CLUB" dove confluiranno ben presto leesibizioni dei maggiori jazzisti d'epoca.
Tra un esibizione e l'altra avvengono degli strampalati siparietti dove personaggi come Franco Cerri, Enzo Jannacci, Pupo de Luca e Maria Monti, fra gli altri pianpiano creano un modo diverso di fare musica e teatro.
I siparietti piacciono talmente tanto che finiscono pian piano per prendere il sopravvento sulla musica Jazz e assurgere a forma di spettacolo radicatamente milanese: il Cabaret appunto.
Al Derby e poi al Nebbia Club, aperto da Franco Nebbia,in piazza Pio XI, nel 64 dopo una scissione dal Derby, passano praticamente tutti i personaggi che oggi ricordiamo: Jannacci, Gatti di vicolo Miracoli, Walter Valdi,Cochi e Renato, Felice Andreasi, Paolo Poli, Arnoldo Foà, i Gufi.
Ancora oggi la grande tradizione del Cabaret milanese è vivace e vitale, in tanti nuovi locali come il Ciak o lo Zelig e con personaggi come Paolo Rossi, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio fra i tanti.
I GUFI
Gruppo storico del cabaret milanese, nasce nel 1964,dall'incontro di Gianni Magni, Nanni Svampa, Roberto Brivio e Lino Patruno, debutta al Derby di via Monterosa,ma solo in un secondo tempo, nell'ottobre del medesimo anno, nel locale "Il Lanternin" adotta il nome "I Guf" e si presenta con il celebre look che la ha resi immediatamente riconoscibili: abito nero e bombetta in testa, e che li ha accompagnati fino al 1968, anno del loro scioglimento.
Già i titoli delle loro canzoni la dicono tutta: "Giù col Morale", "Il Cimitero è Meraviglioso", "Io Vado in Banca",”La Ballata del Metronotte”, “Il Gattone Deluso”, “La Badoglieide”, la dice tutta sulla poetica "antigraziosa affrontata dai quattro, che all'interno del gruppo assumevano anche delle ben precise funzioni: Nanni Svampa era il " Cantastorie", Lino Patruno il "Cantamusico", Roberto Brivio il "Cantamacabro" e il compianto Gianni Magni il "Cantamimo".
Furono anticipatori convinti di una tendenza al mescolamento di quei linguaggi musicali disparati che le quattro diverse anime del gruppo rappresentavano ( dal Jazz alla canzone popolare, dalla macchietta d'avanspettacolo all Chanson d'ispirazione francese).
I Gufi hanno saputo esprimere una sorta di sana congiura dell'intelligenza in un'Italia della canzone dominata dai piccoli miti sanremesi e dalla retorica dei buoni sentimenti.
ENZO JANNACCI E
COCHI E RENATO
Dal Conservatorio all'Università, dal pentagramma al Bisturi, negli anni 50 si delinea la personalità di quel vero Giano Bifronte che è il dottor,cardiochirurgo esimio, Enzo Jannacci.
Nato il 3 giugno 1935, a Milano, dalle parti del Forlanini, fu musicista Jazz e poi cabarettista al Derby, creando in poco tempo un repertorio di brani indimenticabili: " El Portava i Scarp del Tennis","Giovanni Telegrafista", "Aveva un Taxi Nero", "Ohè Sunt Chi", “Faceva il Palo”, “L’Armando”, “Vengo Anch’io, No Tu No”,”Ragazzo Padre”,fra le tante, dove la sua voce a tratti sguaiata ripercorreva versi e frasi musicali che hanno regalato un'inedita profondità e maliconia alla canzone d'autore Italiana.
Una lunga carriera la sua, ma sempre ricavata negli spazi di una mai rinnegata profesione medica, che lo hanno portato a collaborare con i maggiori musicisti e cabarettisti di Milano, da Gaber a Dario Fo, da Roberto Vecchioni a Ricky Gianco , dai Gufi su su fino ai suoi prediletti figliocci: Cochi e Renato.
Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, amici d’infanzia, costituirono una coppia dalla comicita' surreale che, dai palchi dell'immancabile Derby li accompagnò, successo dopo successo fino agli anni settanta.
La collaborazione con Enzo Jannacci ci ha regalato momenti di vera evasione con "La Canzone Intelligente", "E la Vita, la Vita",”A me mi Piace il Mare”, “La Gallina”,”Come Porti i Capelli Bella Bionda”, fino alla recentissima " Nebbia in Val Padana".
ORNELLA VANONI
L’indiscussa signora della canzone milanese, Ornella Vanoni, nasce a Milano il 22 settembre 1934, figlia di un industriale farmaceutico , sin dall'adolescenza concilia la nativa estrazione alto-borghese con un certo gusto della ribellione e con una fragilità di fondo che, dicono, ne motivi, l'atteggiamento spesso scostante.
Nel 1953 si iscrive alla scuola del Piccolo, dove intrecccciò una storia d'amore con Strehler, e dove debuttò nel '56 in "Sei Personaggi in cerca d'Autore” di Pirandello.
Poi eccola protagonista di recitals di canzoni della "Mala", dall' “Opera da Tre Soldi” di Brecht fino alle più note, e più sue "Hanno ammazzato il Mario","La Zolfara","Ma Mi".
Negli anni la Vanoni trova la sua migliore espressione nella canzone d'autore, dove si rivela raffinata ed ineguagliabile interprete di "L'appuntamento","La Musica è Finita" ,"Senza Fine", scritta per lei da Gino Paoli,”Io ti Darò di Più”, “Dettagli”, “Il Tempo di Impazzire”, “L’Appuntamento e poi anche intrigante e suadente autrice di brani come “Ricetta di Donna” e "Vai, Valentina".
ADRIANO CELENTANO
Che dire del molleggiato nazionale, che non sia stato scritto o detto già più volte?
Forse che "...questa è la storia di uno di noi...", nato per caso il 6 gennaio del 1938, al n° 14 della via Gluck.
Nasce artisticamente negli anni 50, cavalcando la tigre del R'n'R, e scimmiottando gli atteggiamenti sornionamente sensuali di Elvis, the Pelvis, Presley, portandoli all'estremo limite delle giunture dei suoi arti e guadagnandosi il soprannome di molleggiato.
Il successo lo premiò in modo rapido e folgorante, illudendolo a volte di essere onnipotente e portandolo a clamorosi fiaschi finanziari, la fine della "casa musicale-famiglia-gruppo di amici": il famoso"Clan", fra beghe finanziarie e atti legali, oppure i flop di alcuni film da lui prodotti.
Personaggio estroverso e poliedrico ha però sempre saputo risollevarsi e ricostruirsi un posto di primo piano nel panorama della canzone e dello spettacolo italiani.
Una carriera lunga e densa di successi che ancora oggi ne decretano i trionfi, una carriera costellata di canzoni capolavoro: "Il Tuo Bacio è Come un Rock", "Con 24.000 Baci", "Il Ragazzo della via Gluck", godibilissima a tal proposito la "Risposta al Ragazzo della Via Gluck" scitta da Giorgio Gaber e dedicata all'amico\nemico Adriano, forse una piccola vendetta per il furto, da parte di Celentano di "Ciao ti Dirò".
E poi ancora "Il Tangaccio", "Azzurro","La Coppia più Bella del Mondo" fino agli ultimi e recentissimi successi, scritti con l'ausilio di Mogol e Gianni Bella.
GLI ANNI '60 ,
IL BEAT E I COMPLESSI
I favolosi anni 60, figli del Rock'n' Roll, vengono folgorati da due gruppi inglesi: "Beatles" e "Rolling Stones" e il panorama della musica nazionale non sara' più lo stesso, nascono anche a Milano tutta una serie di complessi dalla vita breve ed effimera, dai capelli lunghi e dalle chitarre roboanti e, spesso dai nomi impossibili, ci piace ricordare, fra gli altri "I Balordi" e la loro canzone "Fateli Tacere".
A Milano si formarono i Dik Dik, anche se in realtà sono romagnoli, milanesi d'adozione furono anche "L'Equipe 84" e i "Rokes".
Autenticamente milanesi furono "I Profeti",autori di brani come :”Bambina Sola” e “Gli Occhi Verdi dell’Amore”,il loro leader Renato Brioschi intraprese anche una fortunata carriera solista raggiungendo il successo con la canzone “Lady Barbara”.
"I Camaleonti", di cui ricordiamo: “Applausi”,”Io per Lei”, “L’Ora dell’Amore”, “Perché ti Amo” , “Il Diario di Anna Frank” e “Viso d’Angelo”.
Gli allegri e scanzonati "Nuovi Angeli" ci hanno divertito con:”Donna Felicità”, “Singapore”, “Uakadi, Uakadu”, “Anna da Dimenticare” e “Un Viaggio in Inghilterra”.
Forse situati su di un piano più in alto furono "I Giganti", quattro ragazzotti di Greco, alla periferia milanese,in possesso di una capacità vocale che si stemperava in cori armonicamente ben disegnati , erano già proiettati verso le tendenze americane di fine anni sessanta, rappresentate dal mondo Hippie e dai Figli dei Fiori; ricordiamo qualcuna delle loro canzoni: “Il Lavoro”, “In Paese è Festa”,”La Bomba Atomica”, “Proposta (Mettete dei Fiori nei Vostri Cannoni)”, “Tema”,”Una Ragazza in Due”, “Summertime”.
GLI ANNI SETTANTA
E IL PROG ROCK
Già sul finire degli anni '60 si cominciava a creare una specie di bivio fra chi poneva più attenzione alla musica e chi privilegiava i contenuti del testo, ciò diede origine da una parte al cosiddetto “Cantautorato” e dall’altra al filone del rock progressivo.
In questa ottica due gruppi milanesi, cambiando nome e formazione diedero il via alla strada italiana del cosiddetto Progressive-Rock , che all'estero stava spopolando grazie a gruppi come "Genesis", "Yes" e, soprattutto "King Crimson" ed Emerson Lake & Palmer".
I "quelli", incoraggiati anche dalla loro casa discografica, la Numero Uno, di Battisti e Mogol, affiliata a casa Ricordi, divennero la "Premiata Forneria Marconi" e esordirono con "La Carrozza di Hans" e la celeberrima "impressioni di Settembre", scritta per loro dal duo Mogol-Battisti.
Anche i "Ribelli, arcinoti per la canzone "Pugni Chiusi", capitanati da un cantante, mai troppo compianto, dalla voce possente e dall'impressionante capacità interpretativa, Demetrio Stratos, cambiarono pelle e nome in "Area" esordendo con un disco epocale "Arbeit macht frei", ricco di suoni intriganti e con diverse influenze dal jazz.
Sempre in campo Jazz, rock-jazz per l'esattezza non dobbiamo poi dimenticare il "Perigeo", autore di raffinate melodie e forse troppo sottovalutato.
Anche altri generi si affacciavano nel panorama musicale di quegli anni la musica techno e Dance, lanciava i suoi primi vagiti e un altro protagonista dei 60, Maurizio Arcieri ne fu uno dei più ascoltati profeti.
Milanese di Porta Romana, Maurizio Arcieri esordì nei ‘60 come membro dei New Dada, un gruppo che puntava su di un look estremamente raffinato, tutti vestiti da dandy, e visi puliti, e che si proponeva con delle cover di gruppi stranieri, fra le loro canzoni ricordiamo: “Lady Jane”, “I Go Crazy”, “Rubacuori”.
Sciolto il gruppo, il nostro iniziò poi una carriera solista da interprete blues-melodico con brani come “24 Ore Spese Bene con Amore”, “Blu, L’Amore è Blu”, “Cinque Minuti”,per poi formare con la moglie Cristina il duo Krisma che con la canzone “Many Kisses” avrebbe inaugurato la stagione della techno-dance.
Gli anni 70 vedono poi anche il fiorire del filone dei cantautori e Milano si fa rappresentare da personaggi come Roberto Vecchioni, sua la splendida "Luci a San Siro", ma da Gaber a Jannacci, dai Gufi a Ombretta Coll, la parola cantautore non era certo una novità per Milano e così, passando da Tony Renis, a Memo Remigi, sua l’indimenticabile “Innamorati a Milano”, Alberto Camerini, Eugenio Finardi,Ivan Cataneo, fino a Fabio Concato e Biagio Antonacci anche questo genere trova la sua nutrita rappresentanza.
Sul finire del decennio assistiamo anche al formarsi di una scena iconoclasta, che opera al Centro Sociale Santa Marta dove si esibiscono gruppi dai nomi inequivocabili, fra i tanti: i “Kaos Rock” e un gruppetto di ragazzine quattordicenni dal nome “Kandeggina Gang”, la cui leader, Jo Squillo, prosegue ancora oggi la sua carriera solista.
Pubblicazione ufficiale di questa scena, e anche dei fermenti giovanili di sinistra di quegli anni fu la famigerata rivista “Re Nudo”che per alcuni anni organizzò al Parco Lambro, degli happening social-politi-musicali sulla scorta del famoso rafuno di Woodstock, raduni oceanici sul finire del decennio che videro la partecipazione di gruppi storici come PFM; AREA, Stormy Six e cantautori impegnati come Ivan della Mea,Claudio Pascoli e Claudio Rocchi.
PER FINIRE
Difficile tracciare una linea esaustiva dei vari percorsi musicali di Milano senza intrecciarsi alla storia delle radio e TV private che portarono un disc jockey, tale Claudio Cecchetto a fondare una sua scuderia discografica che per anni ha sfornato personaggi di successo, legati professionalmente alla nostra città: "Sandy Marton", "Dan Arrow","I Righeira", gli "883", "Jovanotti" e le milanesissime sorelle Iezzi: "Paola e Chiara".
E poi non possiamo dimenticare Alberto Fortis, autore di un disco d'esordio roboante, chi non ricorda "Milano e Vincenzo","A Voi Romani", "La sedia di Lillà", in collaborazione con una pimpante Premiata Forneria Marconi, trascinante e trascinata da quell'autentico animale da palcoscenico che è il batterista-cantante Franz di Cioccio.
Proprio il batterista della PFM anima le serate in vari locali, e con diverse trasmissioni radiofoniche, della Milano anni 80, e oltre, aiutato da altri due personaggi che non è proprio possibile non citare: Fabio Treves, musicista Blues che con il suo gruppo, la "Treves Blues Band", ha creato la via italiana e milanese a questo genere musicale, tenendo a battesimo tutta una serie di epigoni, Toffoletti, Ciotti, Backer,e iniziando le fortune di locali ormai diventati storia, il Tangram ad esempio; Treves è anche stato per anni assessore al comune per le politiche giovanili; poi, ultimo , ma non ultimo il rauco e sempreverde Pino Scotto cantante dalla voce possente di quello che è stato il primo gruppo Hard Rock in assoluto in Italia: i "Vanadium", gruppo che aprì letteralmente la strada per quei suoni rozzi e grezzi che spesso caratterizzano le nuove leve,"Lacuna Coil" e "Fasten Belt" per citarne alcuni..
Un cenno finale lo riserviamo al nostro amico Enrico Ruggeri, oggi cantautore affermato, ma quanti ricordano i suoi esordi da rock scolastico con un gruppo che si chiamava Champagne Molotov e scimmiottava i suoni dei Roxy Music e di David Bowie?.
Nei primi 80 cambiarono nome in decibel e suonavano musica Punk, canzoni come "LSD","Figli di...", "Paparock" e poi andarono a Sanremo, tutti belli pulitini con la canzone "Contessa".
Enrico poi di Festival ne vinse due uno con "Si puo' Dare di Più", insieme a Tozzi e Morandi, e uno con "Mistero".
Autore raffinato e ispirato dalla scuola degli chansonnier francesi ci ha regalato alcune delle più belle canzoni degli ultimi anni:”Rien ne Va Plus”, "Il Mare D'inverno", "Il Portiere d'Albergo", "Non Finira'",”Polvere”, “Nuovo Swing”,”Giorni Randagi”, “Confusi in un Playback”, “Con la Memoria”, "Vivo da Re", "Canta ancora per me", "Quello che le donne non dicono", "I dubbi dell'amore" ecc.
Giunto è ora lo sfumar dei suoni, molto abbiam dimenticato e molto riassunto troppo in fretta, ma ora a noi convien che tosto finiamo, si riponga orsù, quel diapason che suona in MI...LANO.
Rifondazione Milano Policroma
Lo stemma di Milano nel cortile del Castello |
Fondare un'immagine policroma della città di Milano, alla faccia di chi la vede grigia ed informe,
passaggio senza fiato di multiformi attivismi, senza la concretezza dell'esistere.
Fu 29 anni fa, 29 anni esatti oggi, ma il compleanno è data cabalistica, che diedi inizio all'esperienza della Fondazione Milano Policroma, una associazione che sarebbe col tempo diventata abbastanza importante fino all'attribuzione della Benemerenza dell'Ambrogino d'Oro ricevuta lo scorso 2010.
Pure non tutto brilla e il concetto di Policromia nella città Ambrosiana è ancora di là da venire, non si fa mai abbastanza, così da oggi, 7 Novembre 2011, anche questo compleanno sarà cabalistico, si ricomincia.
Una "storica" cartolina degli anni 60 |
Esiteremo gli scritti che Roberto Bagnera ha pubblicato nei Quaderni Annnuario della Fondazione Milano Policroma, per le riviste "Itinera" e "La Martinella di Milano", e seguiremo nuove suggestioni di indagini meneghine.
Franco Fava, già direttore della Martinella di Milano |