Pubblicazione omaggio della Liebig con la pianta dell'Esposizione |
La Mappa dell'EXPO 1906 |
Questa manifestazione puo’ essere considerata, a buon titolo, la vera
progenitrice della Fiera Campionaria di Milano, una specie di sontuosa “prova generale”, cui daremo in questa
trattazione ampio spazio
Essa si svolse
in occasione dell’apertura del Traforo del Sempione, in un periodo ricco di
entusiasmo e di novità.
La spesa
per questo evento fu sei volte più grande di quella per le precedenti
esposizioni. Se, infatti, nel 1881 e nel 1894 non si raggiunsero i due milioni,
nel 1906 si superarono i dodici milioni di lire.
Parteciparono
espositori da tutte le parti del mondo, a ribadire l’internazionalità della
manifestazione, in numero di circa trentacinquemila; i visitatori furono
calcolati essere circa cinque milioni e mezzo.
La
manifestazione rimase aperta per sei mesi, a partire dal 28 aprile fino ai
primi di novembre di quell’anno, occupando un’area di circa un milione di metri
quadrati, comprendente il Parco e l’area della ex Piazza d’Armi (futura area
della Fiera di Milano), che erano collegati in maniera arditissima per l’epoca,
come vedremo tra poco. All’incirca un terzo della superficie era coperto dalle
costruzioni: si trattava di numerosi padiglioni, progettati da illustri
architetti dell’epoca, alcuni dei quali sono arrivati fino ai nostri tempi.
Vediamone
la storia: nel 1901 la Lega Navale e l’associazione Lombarda dei Giornalisti
proposero una grande mostra dedicata ai mezzi di trasporto acquatici. Qualche
tempo dopo si fece strada l’idea di associare la manifestazione alla ormai
prossima inaugurazione del Traforo del Sempione, onde darle maggiore
visibilità. Questo portò a rivederne i contenuti, per cui si rese necessario
ampliare il campo a tutti gli aspetti del lavoro e si rivelò utile, onde
ottenerne la maggiore pubblicizzazione possibile, estenderla a tutte le nazioni
del mondo.
La
partecipazione, come detto, superò le più rosee previsioni: non fu neppure
possibile accogliere tutte le richieste di partecipazione alla esposizione, e
in alcune sezioni si fu persino costretti a respingere addirittura i quattro quinti delle richieste! Le nazioni presenti all’evento, alla
fine, furono quaranta; gli edifici costruiti appositamente per esso furono 225;
tutto insomma contribuì al rilancio della economia milanese e lombarda.
Le
sezioni definitivamente scelte furono : Arte decorativa; Belle arti; Galleria
del lavoro per le arti industriali; Trasporti terrestri, Aeronautica,
Meteorologia; Trasporti Marittimi e Fluviali; Mostre retrospettive dei
trasporti; Previdenza; Igiene Pubblica; Agraria; Piscicoltura.
Va
inoltre rilevato che, per l’occasione, fu realizzata una ferrovia elettrica
sopraelevata di sette metri dal suolo, la prima a quell’epoca, che collegava
l’area del Parco Sempione attuale con l’area dell’ex Piazza d’Armi (area della
Fiera Campionaria cittadina dal 1923 fino ai giorni nostri) scavalcando lo
Scalo Sempione che si trovava nel mezzo (e che comprendeva l’area tra le vie
Ferruccio, Nievo, Panzini, Pallavicino dei nostri tempi). Purtroppo questa futuristica
costruzione fu smontata al termine della Esposizione.
Vale la
pena, infine, spendere due parole per l’organizzazione dell’evento, che fu
estremamente curata. Tra gli organizzatori furono l’architetto Luigi Broggi
(1851-1926), uno dei maggiori professionisti dell’epoca, che, come abbiamo
visto, aveva già attivamente partecipato alle precedenti esposizioni milanesi,
unitamente all’ingegnere Evaristo Stefini (1868-1935), noto per aver proposto,
nel 1909, il Quartiere Industriale Nord Milano, una “città lineare”, con
edifici residenziali e industriali, sviluppata lungo un asse largo sessanta
metri (gli attuali viali Zara e Testi). Presidente della Esposizione fu il
senatore Cesare Mangili (1850-1917), consigliere della Banca Commerciale
Italiana, di cui fu poi presidente dal 1907 al 1916.
I reali si recano all'inaugurazione dell'Esposizione; il corteo mentre passa innanzi alla Galleria VIttorio Emanuele |
Realizzazioni
importanti su tutta l’area espositiva
furono l’impianto di acqua potabile e la fognatura, oltre naturalmente alle
strade di accesso; Si allestirono la
rete telefonica e così pure quella elettrica, venne infine completamente
piantumata l’area della Piazza d’Armi.
I
numerosi padiglioni vennero realizzati in materiali diversi: taluni in legno
(tra cui la sezione di Architettura e delle Arti decorative italiane, distrutta
da un incendio assieme ai cimeli della Fabbrica del Duomo in essa custoditi),
altri in pietra (tra i quali l’Acquario, come detto l’unico padiglione a
sopravvivere alla manifestazione e che venne poi donato alla municipalità « a
ricordo dell’evento ») altri infine in ferro (quale, ad esempio, la Galleria
del Lavoro).
La
sistemazione generale del Parco fu affidata all’architetto Sebastiano Giuseppe
Locati, nato a Pavia nel 1861 (dove sarebbe morto nel 1939), che fu l’autore,
unitamente a Orsino Bongi (che nel 1914 avrebbe progettato la Galleria
Warowland delle Terme di Salsomaggiore), del progetto che vinse il concorso
indetto nel 1903 e il progettista del citato Acquario. Questo edificio,
progettato in stile liberty viennese, venne costruito usando
il cemento come elemento decorativo, tecnica estremamente innovativa per
l’epoca. Le decorazioni vennero realizzate dall’impresa costruttrice Chini,
dallo scultore Oreste Labò e dalla ditta Richard-Ginori, specificamente per
quanto concerne le piastrelle ceramiche decorate e smaltate.
La
grande testa dell’ippopotamo, dalle cui fauci escono zampilli d’acqua, nella
fontana sita all’ingresso, è opera di Giovanni Chini, celebre per la
lavorazione delle pietre artificiali e autore, tra l’altro, anche della
Stazione Ferroviaria Centrale di Milano; la statua sulla facciata opposta,
quella del Nettuno, è opera di Oreste Labò.
La realizzazione di piazza d’Armi
invece fu curata dall’architetto Giuseppe Sommaruga, di cui abbiamo già detto
in precedenza, coadiuvato dagli ingegneri Cesare Bianchi, Francesco Magnani e
Mario Rondoni, anch’essi autori di un progetto premiato al concorso del
1903.
L’Esposizione internazionale del 1906 viene universalmente
considerata come il momento di verifica ed affermazione in Milano dello stile
Liberty che in questa occasione trova i
tempi ed i luoghi per la definitiva consacrazione, uniformando le architetture
dei padiglioni in un trionfo del floreale, delle curve a colpo di frusta,
dell’impiego ancora più sperimentale ed azzardato di quanto mai fatto prima di
allora di materiali e soluzioni
architettoniche “futuristiche”.
I primi anni del secolo XX° vedevano a Milano anche
la nascita di un nuovo fervore di interessi legati al mondo allora misterioso e
magico dei trasporti; l’argomento che più faceva discutere e che più infiammava
i discorsi nei salotti bene della città era senza dubbio quell’opera ciclopica
che fu il Traforo del Sempione.
Non pareva possibile a quei tempi che un lavoro così
ardito potesse essere portato a compimento e il solo fatto che questo venisse tentato
dava adito ad una serie di dibattiti e scontri verbali sul progresso, sulle vie
di comunicazione ed i mezzi di trasporto, ma ben presto non ci si volle più
accontentare della pura disquisizione ma si volle impostare un discorso più
tecnico e puntuale.
E’ in questo contesto che in seno alla Lega Navale
Italiana, che nel 1901 aveva ancora la sua sede in città, si manifesta il
progetto di tenere a Milano un’esposizione internazionale di mezzi di
trasporto, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti diede fin da subito all’idea
il conforto del suo valido appoggio.
L’Esposizione progettata avrebbe dovuto limitarsi come già detto,
ad una mostra di mezzi di trasporto per via d’acqua ed aver luogo nel 1904.
Ma appunto allora lo stato dei lavori per il traforo
del Sempione dava affidamento che il tunnel potesse essere completato per
l’epoca indicata per l’esposizione, quindi l’idea si allargò a comprendere il
mondo dei trasporti in generale e, per arricchire la mostra di nuove attrattive
fu architettata la Mostra delle Belle Arti.
La Manifestazione si sarebbe articolata in dieci
sezioni:
1 Trasporti
terrestri
2
Aeronautica e Metrologia
3 Trasporti
marittimi e fluviali
4
Previdenza
5 Arte
Decorativa
6 Galleria
del lavoro per le arti industriali
7 Mostre
prospettive dei trasporti
8
Piscicultura
9 Agraria
Una volta stabilita una linea di base per il
programma, restava da decidere il luogo dove si sarebbe tenuta l’Esposizione e
la scelta, dopo diverse controversie di carattere politico e logistico, ricadde
sul Parco e sulla Piazza d’Armi, quando si trattò di occupare quest’ultima con
gli edifici della mostra si dovette pensare a risolvere il problema di
conferire un aspetto ameno a quel vasto piazzale nudo e brullo.
Si stabilì di trasportarvi le piante del parco che
si dovevano sradicare per fare spazio alle costruzioni del primo reparto
espositivo.
Furono utilizzati grandi carri dalla forma
particolare per trasportare le piante con tutte le radici e la massa di terra
per reimpiantarle in modo che, l’anno seguente, una volta che gli alberi
avessero rimesso le fronde, compiute le aiuole, formati i tappeti verdi,
distribuiti i cespugli, diramati i rivoli d’acqua e le cascatelle ornamentali,
i palazzi dell’effimera città sarebbero sorti fantastici in mezzo ad un
prezioso giardino comparso quasi per incanto.
Nel contempo i ritardi nel lavoro di scavo al
Sempione spostarono il momento dell’inaugurazione all’aprile dell’anno 1906,
parteciparono all’esposizione ben 24 nazioni: Austria, Belgio, Francia,
Germania, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Principato di Monaco, Portogallo,
Turchia, Giappone, Cina, Bulgaria, Canada, Cile, Guatemala, Marocco, Persia,
Perù, Santo Domingo, Stati Uniti d’America, Cuba, Uruguay e Ungheria.
Per tener desta l’attenzione di un più folto
pubblico, poiché si dubitava che una mostra dedicata a tecnici avrebbe raccolto
molti consensi, fu deciso di creare alcuni momenti di evasione diciamo così,
più turistiche, buon esempio ne è il concorso che fu bandito per costruire una
nave a grandezza naturale, la realizzazione del piroscafo fu affidata alla
ditta Piaggio di Sestri Ponente, avrebbe dovuto galleggiare nell’Arena a tal
proposito allagata ma, inconvenienti tecnici sconsigliarono la pur suggestiva
attuazione del progetto.
Nel largo piazzale del parco è situato il centro dei
divertimenti. Di fronte alla facciata interna delle mostre retrospettive si
erige un’altissima colonna sulla quale poggia un emisfero fatto con cerchi di
ferro, alla base un canale d’acqua azzurra corre intorno al grande padiglione.
Elegantissime barchette trasportano i viaggiatori
lungo il canale che si svolge per 500 metri in un labirinto di grotte di tufo e
di scisti, illuminate a colori da lampadine disseminate qua e là e nascoste tra
i crepacci e le spaccature delle rocce vive.
Lentamente ci si inoltra ed ecco affacciarsi
l’incantevole panorama di Gibilterra, opera del Rovescalli, o quello di Londra
dello scultore Rescaldoni,, resi in modo perfetto e quasi movimentati.
Quando la barca passa davanti ai fiordi norvegesi si
sente venire incontro un’ala di vento, fresca prima, poi più fredda, fino a che
l’acqua corrente trascina fino ad una svolta dove sulla roccia troviamo dipinto
l’eterno crepuscolo polare.
Quando la barca termina il suo viaggio, circa 15
minuti di durata, ecco un’immensa distesa di ghiacciai, una capanna da
esploratori ed un piroscafo incagliato tra i ghiacci: la precisa ricostruzione
del punto in cui giunse il Duca d’Abbruzzi.
Un altro tipo di giostra che piacque molto fu quello
definito “l’aeroplano2, si trattava di un gigantesco ombrello con la cupola a
quasi 30 metri dal suolo, l’armatura era di ferro e dieci enormi braccia che
tenevano sospese delle strutture a forma di battello con elica, si dipartivano,
spingendosi nel vuoto, dall’asse centrale. Al fischio di una sirena l’ombrello
gigantesco girava su se stesso, le navicelle si muovono, salendo lentamente
sopra la piattaforma dell’edificio circolare, mano a mano cresce la velocità
finchè un rintocco di campana annuncia la fine della corsa.
Ma le curiosità dell’esposizione non finiscono qui,
a parte la struttura degli edifici, tutti di un vago gusto secessionista,
orientaleggiante, spinto agli estremi più arditi dello sperimentalismo non solo
architettonico e difficilmente ascrivibili perfino al vasto termine
dell’accezione Liberty, oggi ne resta testimonianza ed esempio con l’edificio,
dell’architetto Sebastiano Locati, unica vestigia rimasta dell’Esposizione, in
via Gadio che attualmente ospita il Civico Acquario e che all’epoca accolse la
mostra di piscicoltura.
Costruito in cemento armato, finemente decorato in
ceramica e ravvivato, nelle sue linee essenzialmente semplici, da una statua
del dio Nettuno e da decorazioni che molto opportunamente ne ricordano la
destinazione.
Un altro edificio assai singolare fu il padiglione
dell’Eternit, questo è il nome che spiccava sulla fronte dell’edificio il cui
elegante, e un po’ bizzarro, profilo richiamava subito l’attenzione di chi
scendeva dalla stazione di Piazza d’Armi, dalla ferrovia elevata che univa le
due sezioni dell’esposizione.
La costruzione più che essere destinata ad una
mostra era una mostra essa stessa poiché era tutta costruita con un nuovo
materiale: l’Eternit appunto, si tratta di una pietra artificiale composta di
amianto e cemento Portland che si adatta ad un’infinità di soluzioni.
L’edificio modello era opera degli architetti milanesi Arcangelo Speranza e
Mauri Carlo, autori fra l’altro anche del bellissimo padiglione degli orafi al
Parco.
Automat: una parola che allora assumeva un connotato
quasi magico, era il nome di un padiglione sito sul Monte Tordo al Parco, si
trattava di un ristoratore automatico, di elegante e simpatico aspetto
e…smontabile.
Interessante l’organismo di distributori automatici,
i serbatoi di cristallo, racchiusi in camere refrigerate, i ricevitori delle
monete che registrano automaticamente anche il numero dei servizi, il
distributore-miscelatore alla cassa. Erano tutte macchine che naturalmente
all’ammirevole semplicità univano una robustezza straordinaria.
Curiosissimo il servizio dei piatti caldi: un
ingegnoso apparato elettrico avvisa il cuoco del piatto ordinato dall’ignoto e
silenzioso cliente.
Il pubblico accorso dapprima all’Automat come un
divertimento, vi trovò anche il risparmio e la comodità, in un solo giorno il
reparto sandwich giunse a distribuire in meno di due ore 2500 pezzi.
Concludiamo questa breve e immaginaria passeggiata
fra i viali dell’esposizione citando il padiglione che allora registrò la più
vasta affluenza di pubblico: IL Cairo.
Ebbene l’Esposizione compì anche questo miracolo, di
portare il Cairo a Milano, Non si trattava di un panorama pittorico ad
illusione ottica, né di cinematografo, o di una qualsiasi rappresentazione
bensì di una riproduzione autentica, sebbene di proporzioni ridotte.
La via del Cairo non è stata soltanto una delle più
brillanti sezioni dell’esposizione, ne fu una delle meraviglie, tanto fedele ed
elegante, e signorile, fu la riproduzione dell’architetto Galetti del
caratteristico ambiente orientale, di quel paese dei sogni e degli incanti.
Era un indescrivibile brulichio multiforme di vita
ciò che si andava svolgendo in quel recinto dalle mura e torri in stile
arabo-moresco di ben 4800 metri quadri.
Passato, col permesso del gigantesco negro, così ci
dicono le cronache dell’epoca, che controlla il biglietto, il cancello
d’ingresso, eccoci al tempio –Egiziano, riproduzione in puro stile che
rappresenta un tempio-tomba dei Faraoni, ed ha l’aria anche di racchiuderne i
tesori: broccati e vasi antichi.
A due passi da lì una nenia monotona richiama la
nostra attenzione: sono una dozzina di bambini arabi accovacciati in mezzo ad
una strada che ripetono una monotona litania.
Più oltre ecco una stazione di cavalcature: per chi
vuole godersi una corsa sono a disposizione cammelli ed asini coi relativi
cammellieri o asinai in fez o in turbante e camicione scuro o bianco.
Di qua e di là le viuzze anguste e tortuose a zig
zag sono fiancheggiate da casette con piccole porte, minuscole finestre a fitte
inferriate: là è l’impenetrabile e silenziosa dimora dell’ Arabo.Ad ogni tratto
graziosi portali moreschi, dappertutto negozi-bazaar, da ognuno di questi
negozi si affacciano fez e turbanti, graziosi profili birichini dalle trecce
brune, vi si chiama, vi si invita, vi si mostrano campioni e specialità, vi si
offre l’oggetto ricordo.
Ci fermiamo al Caffè Turco per sorbire una tazza di
vero Moka, avendo cura di lasciare a uno dei sonnolenti camerieri turchi tutto
il tempo necessario per alzarsi dallo sgabello e trascinarsi con molta flemma a
noi.
Alcuni Turchi, per le strade, armati di Scimitarra e
scudo, per qualche soldo danno lo spettacolo di un combattimento al suono di
tamburi e pifferi.
Più in là ecco un recesso silenzioso, che nasconde
il più attraente e geloso dei misteri orientali: l’Harem.
Qui con pochi soldi la “porta del sacro penetrale”
ci si apre dinnanzi e possiamo vedere
nel lussuoso salotto, mollemente abbandonata sui cuscini, la moglie del Pascià
che, con le compagne odalische, è vigilata da un colossale eunuco.
Un’altra casa seducente con l’onda di suoni dolci e
smorzati di cui giunge un’eco, un’altra porta che si apre, ecco la sala selle
dame egiziane, qui l’orchestra è di mandolini e chitarre dallo stridulo timbro:
a quel suono elegiaco e carezzevole una bella fanciulla dagli occhi neri, dalle
molli movenze, avanza al proscenio ed esegue la famosissima danza del ventre.
Non resta ora che fare la conoscenza con il
villaggio Nubiano: ecco le capanne di creta, foggiate a cono, disposte in
ordine sparso, c’è tutta una tribù. Qui le scuderie per i quadrupedi, là il
forno della comunità, piantato solidamente su tronchi di palmizio vivo, nel
centro del villaggio ecco una specie di palcoscenico ove ogni tanto un tam tam
di tamburi chiama a raccolta uomini donne e ragazzini, tutti adorni di
arabeschi, ciondoli e conchiglie, che nel movimento ritmico di una danza antica
danno un bizzarro suono di nacchere.
Chiudiamo la visita al Cairo, ed all’esposizioni
fermandoci a sorseggiare qualcosa al “Grand Café Restaurant du Caire”.
Al di là del
risultato
economico della manifestazione e del gradimento espresso dai milanesi va detto
che l’evento fu curato in ogni dettaglio: per esempio, per deciderne il
manifesto pubblicitario, la Casa Ricordi indisse, nel 1905, un concorso tra i
propri illustratori: Marcello Dudovich, Adolf Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz
e Giovanni Mataloni. I lavori furono tutti premiati, ma vennero usati in modo
differente (il cartellone ufficiale di Metlicovitz, la cartolina postale di
Mataloni, il logo di Hohenstein, sconosciuto è invece il disegno di Dudovich) e
in tempi diversi, perché, « allo scopo di evitare una réclame uniforme, antipatica e troppo commerciale, l’ufficio di
pubblicità ebbe cura che il medesimo articolo non uscisse contemporaneamente sui
giornali della stessa città, e, possibilmente, della stessa regione ».
Furono stampati il catalogo e
numerosissime cartoline illustrative dell’area e pubblicitarie dell’evento,
delle manifestazioni collaterali e dei singoli padiglioni; vennero coniate medaglie
e gettoni commemorativi, furono disegnati loghi, francobolli e adesivi e altro
ancora.
Ci è piaciuto dilungarci, a costo anche
di ripetizioni, in altri ambiti oziose, su questo brillante frammento di storia cittadina, ad un secolo
intero ormai compiuto dal suo accadimento, per l’importanza che esso
rappresentò nel futuro svolgersi delle
conquiste tecniche, artistiche ed architettoniche; lo stile Liberty che
cominciava a farla da padrone nelle architetture cittadine vi trovò una
insperata e prolifica vetrina che ne decretò la definitiva consacrazione, la
cartellonistica d’arte e la grafica iniziarono qui il lungo viaggio che avrebbe
portato da una parte alla nascita della scienza pubblicitaria e dall’altra a
porgere gli stili e le forme d’arte ad un pubblico eterogeneo che certamente
non avrebbe mai frequentato le gallerie specializzate.
Il mondo del commercio sperimentava le
proprie capacità di uscire dallo stretto ambito locale e nazionale, verificando
le proprie forze e la propulsione delle proprie idee, l’industria scopriva una
forma proficua di lancio delle proprie
attività con la possibilità di testare in tempo reale il gradimento dei nuovi
prodotti.
Nasce in questa occasione la Milano
moderna intraprendente e vincente che per tutto il XX° Secolo impronterà di sé
il mondo produttivo nazionale, ma è altrettanto vero che in quello scorcio di
secolo la vita era ancora semplicemente ancorata ad un passato più a misura
d’uomo, la città, già proteiforme comunque, era ancora un paesone allargato e
forse per questo l’Esposizione del 1906 colse nel segno tutti i suoi
obbiettivi, né vale citare quanti criticamente ricordano il “gigantismo da
varietà” o la disunità stilistica dell’allestimento perché il ragionamento
critico appare veramente fuori luogo riferito ad una manifestazione che della
molteplicità di intenti aveva fatto ragion di scelta.
Non
vale la disanima dell’evento il rigore scientifico che si applica alle moderne
esposizioni, il taglio stilistico era ancora da nascere, l’uniformità era un
termine decisamente pericoloso e poi ogni visitatore, fosse un privato o un
addetto settoriale, come oggi piace definire , ebbe il proprio personale
percorso, ebbe la luce di veder stimolato il proprio sense of Wonder,
componente fondamentale per una riuscita manifestazione, ebbe l’invidiabile
opportunità di vedere la nascita di un mondo e di scoprirne molteplici altri in
fieri, ebbe l’incoercibile certezza che di lì in poi le barriere della cultura
della conoscenza, dell’arte, dell’informazione, del progresso si sarebbero
infrante, che le camere stagne create da un’ignoranza storica e forse
atavica sarebbero definitivamente state
chiuse.
Il
Milanese che si recava in Piazza d’Armi, tutto lustrato e in ghingheri, come
alla sagra di paese, che altro non era per molti versi l’Esposizione, trovava
risposta concreta al suo desiderio di conoscenza e divertimento e innumerevoli
proposte per dare una svolta al proprio destino, tutto il nuovo e l’ignoto si
disvelavano come in un incanto allargandone la visuale e nel contempo
rinforzandolo nelle decisioni e nelle impostazioni di vita.
Questo
e non altro il vero centro del bersaglio guadagnato dall’esposizione di Milano,
piuttosto che quella di Torino o di altre città che in quegli anni
proliferavano, questo il leit motif che avrebbe poi congiunto le varie edizioni
della Campionaria propriamente detta, il consenso popolare riconosciuto alla
manifestazione portava con sé la realizzazione degli obbiettivi, la riuscita
commerciale delle proprie imprese e l’affermazione economica che di riflesso si
accompagnava era premio accessorio e gratificante al di là di quanto non
avvenga oggi.
La
definitiva chiusura della Campionaria, o Grande Fiera d’Aprile, mise fine ad
una proprietà comune del singolo Milanese che le settoriali tanto di moda oggi
non hanno mai saputo sostituire, lasciando il campo ad un vuoto bruciante (...)
(Le immagini di questo articolo sono tratte dall'archivio di Claudio Romeo e Ampelio Vimercati)
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