giovedì 21 marzo 2013

L' “Esposizione Internazionale” del 1906 di Roberto Bagnera

Pubblicazione omaggio della Liebig con la pianta dell'Esposizione


Questa manifestazione puo’ essere considerata, a buon titolo, la vera progenitrice della Fiera Campionaria di Milano, una specie di sontuosa  “prova generale”, cui daremo in questa trattazione ampio spazio
 Essa si svolse in occasione dell’apertura del Traforo del Sempione, in un periodo ricco di entusiasmo e di novità.
         La spesa per questo evento fu sei volte più grande di quella per le precedenti esposizioni. Se, infatti, nel 1881 e nel 1894 non si raggiunsero i due milioni, nel 1906 si superarono i dodici milioni di lire.
         Parteciparono espositori da tutte le parti del mondo, a ribadire l’internazionalità della manifestazione, in numero di circa trentacinquemila; i visitatori furono calcolati essere circa cinque milioni e mezzo.
         La manifestazione rimase aperta per sei mesi, a partire dal 28 aprile fino ai primi di novembre di quell’anno, occupando un’area di circa un milione di metri quadrati, comprendente il Parco e l’area della ex Piazza d’Armi (futura area della Fiera di Milano), che erano collegati in maniera arditissima per l’epoca, come vedremo tra poco. All’incirca un terzo della superficie era coperto dalle costruzioni: si trattava di numerosi padiglioni, progettati da illustri architetti dell’epoca, alcuni dei quali sono arrivati fino ai nostri tempi.
         Vediamone la storia: nel 1901 la Lega Navale e l’associazione Lombarda dei Giornalisti proposero una grande mostra dedicata ai mezzi di trasporto acquatici. Qualche tempo dopo si fece strada l’idea di associare la manifestazione alla ormai prossima inaugurazione del Traforo del Sempione, onde darle maggiore visibilità. Questo portò a rivederne i contenuti, per cui si rese necessario ampliare il campo a tutti gli aspetti del lavoro e si rivelò utile, onde ottenerne la maggiore pubblicizzazione possibile, estenderla a tutte le nazioni del mondo.



         La partecipazione, come detto, superò le più rosee previsioni: non fu neppure possibile accogliere tutte le richieste di partecipazione alla esposizione, e in alcune sezioni si fu persino costretti a respingere addirittura  i quattro quinti delle richieste!          Le nazioni presenti all’evento, alla fine, furono quaranta; gli edifici costruiti appositamente per esso furono 225; tutto insomma contribuì al rilancio della economia milanese e lombarda.
         Le sezioni definitivamente scelte furono : Arte decorativa; Belle arti; Galleria del lavoro per le arti industriali; Trasporti terrestri, Aeronautica, Meteorologia; Trasporti Marittimi e Fluviali; Mostre retrospettive dei trasporti; Previdenza; Igiene Pubblica; Agraria; Piscicoltura.

         Va inoltre rilevato che, per l’occasione, fu realizzata una ferrovia elettrica sopraelevata di sette metri dal suolo, la prima a quell’epoca, che collegava l’area del Parco Sempione attuale con l’area dell’ex Piazza d’Armi (area della Fiera Campionaria cittadina dal 1923 fino ai giorni nostri) scavalcando lo Scalo Sempione che si trovava nel mezzo (e che comprendeva l’area tra le vie Ferruccio, Nievo, Panzini, Pallavicino dei nostri tempi). Purtroppo questa futuristica costruzione fu smontata al termine della Esposizione.
         Vale la pena, infine, spendere due parole per l’organizzazione dell’evento, che fu estremamente curata. Tra gli organizzatori furono l’architetto Luigi Broggi (1851-1926), uno dei maggiori professionisti dell’epoca, che, come abbiamo visto, aveva già attivamente partecipato alle precedenti esposizioni milanesi, unitamente all’ingegnere Evaristo Stefini (1868-1935), noto per aver proposto, nel 1909, il Quartiere Industriale Nord Milano, una “città lineare”, con edifici residenziali e industriali, sviluppata lungo un asse largo sessanta metri (gli attuali viali Zara e Testi). Presidente della Esposizione fu il senatore Cesare Mangili (1850-1917), consigliere della Banca Commerciale Italiana, di cui fu poi presidente dal 1907 al 1916.

I reali si recano all'inaugurazione dell'Esposizione; il corteo mentre passa innanzi alla Galleria VIttorio Emanuele

         Realizzazioni importanti  su tutta l’area espositiva furono l’impianto di acqua potabile e la fognatura, oltre naturalmente alle strade di accesso; Si allestirono  la rete telefonica e così pure quella elettrica, venne infine completamente piantumata l’area della Piazza d’Armi.
         I numerosi padiglioni vennero realizzati in materiali diversi: taluni in legno (tra cui la sezione di Architettura e delle Arti decorative italiane, distrutta da un incendio assieme ai cimeli della Fabbrica del Duomo in essa custoditi), altri in pietra (tra i quali l’Acquario, come detto l’unico padiglione a sopravvivere alla manifestazione e che venne poi donato alla municipalità « a ricordo dell’evento ») altri infine in ferro (quale, ad esempio, la Galleria del Lavoro).
         La sistemazione generale del Parco fu affidata all’architetto Sebastiano Giuseppe Locati, nato a Pavia nel 1861 (dove sarebbe morto nel 1939), che fu l’autore, unitamente a Orsino Bongi (che nel 1914 avrebbe progettato la Galleria Warowland delle Terme di Salsomaggiore), del progetto che vinse il concorso indetto nel 1903 e il progettista del citato Acquario. Questo edificio, progettato  in stile liberty viennese, venne costruito usando il cemento come elemento decorativo, tecnica estremamente innovativa per l’epoca. Le decorazioni vennero realizzate dall’impresa costruttrice Chini, dallo scultore Oreste Labò e dalla ditta Richard-Ginori, specificamente per quanto concerne le piastrelle ceramiche decorate e smaltate.
         La grande testa dell’ippopotamo, dalle cui fauci escono zampilli d’acqua, nella fontana sita all’ingresso, è opera di Giovanni Chini, celebre per la lavorazione delle pietre artificiali e autore, tra l’altro, anche della Stazione Ferroviaria Centrale di Milano; la statua sulla facciata opposta, quella del Nettuno, è opera di Oreste Labò.
         La realizzazione di piazza d’Armi invece fu curata dall’architetto Giuseppe Sommaruga, di cui abbiamo già detto in precedenza, coadiuvato dagli ingegneri Cesare Bianchi, Francesco Magnani e Mario Rondoni, anch’essi autori di un progetto premiato al concorso del 1903. 
Le dighe mobili automatiche dell'Ing. Francesco Camagni

         L’Esposizione internazionale del 1906 viene universalmente considerata come il momento di verifica ed affermazione in Milano dello stile Liberty che in questa occasione  trova i tempi ed i luoghi per la definitiva consacrazione, uniformando le architetture dei padiglioni in un trionfo del floreale, delle curve a colpo di frusta, dell’impiego ancora più sperimentale ed azzardato di quanto mai fatto prima di allora  di materiali e soluzioni architettoniche “futuristiche”.
I primi anni del secolo XX° vedevano a Milano anche la nascita di un nuovo fervore di interessi legati al mondo allora misterioso e magico dei trasporti; l’argomento che più faceva discutere e che più infiammava i discorsi nei salotti bene della città era senza dubbio quell’opera ciclopica che fu il Traforo del Sempione.
Non pareva possibile a quei tempi che un lavoro così ardito potesse essere portato a compimento e il solo fatto che questo venisse tentato dava adito ad una serie di dibattiti e scontri verbali sul progresso, sulle vie di comunicazione ed i mezzi di trasporto, ma ben presto non ci si volle più accontentare della pura disquisizione ma si volle impostare un discorso più tecnico e puntuale.
E’ in questo contesto che in seno alla Lega Navale Italiana, che nel 1901 aveva ancora la sua sede in città, si manifesta il progetto di tenere a Milano un’esposizione internazionale di mezzi di trasporto, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti diede fin da subito all’idea il conforto del suo valido appoggio.
 L’Esposizione progettata avrebbe dovuto limitarsi come già detto, ad una mostra di mezzi di trasporto per via d’acqua ed aver luogo nel 1904.
Ma appunto allora lo stato dei lavori per il traforo del Sempione dava affidamento che il tunnel potesse essere completato per l’epoca indicata per l’esposizione, quindi l’idea si allargò a comprendere il mondo dei trasporti in generale e, per arricchire la mostra di nuove attrattive fu architettata la Mostra delle Belle Arti.
La Manifestazione si sarebbe articolata in dieci sezioni:
  1 Trasporti terrestri
  2 Aeronautica e Metrologia
  3 Trasporti marittimi e fluviali
  4 Previdenza
  5 Arte Decorativa
  6 Galleria del lavoro per le arti industriali
  7 Mostre prospettive dei trasporti
  8 Piscicultura
  9 Agraria
10 Belle Arti


Una volta stabilita una linea di base per il programma, restava da decidere il luogo dove si sarebbe tenuta l’Esposizione e la scelta, dopo diverse controversie di carattere politico e logistico, ricadde sul Parco e sulla Piazza d’Armi, quando si trattò di occupare quest’ultima con gli edifici della mostra si dovette pensare a risolvere il problema di conferire un aspetto ameno a quel vasto piazzale nudo e brullo.
Si stabilì di trasportarvi le piante del parco che si dovevano sradicare per fare spazio alle costruzioni del primo reparto espositivo.
Furono utilizzati grandi carri dalla forma particolare per trasportare le piante con tutte le radici e la massa di terra per reimpiantarle in modo che, l’anno seguente, una volta che gli alberi avessero rimesso le fronde, compiute le aiuole, formati i tappeti verdi, distribuiti i cespugli, diramati i rivoli d’acqua e le cascatelle ornamentali, i palazzi dell’effimera città sarebbero sorti fantastici in mezzo ad un prezioso giardino comparso quasi per incanto.


Nel contempo i ritardi nel lavoro di scavo al Sempione spostarono il momento dell’inaugurazione all’aprile dell’anno 1906, parteciparono all’esposizione ben 24 nazioni: Austria, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Principato di Monaco, Portogallo, Turchia, Giappone, Cina, Bulgaria, Canada, Cile, Guatemala, Marocco, Persia, Perù, Santo Domingo, Stati Uniti d’America, Cuba, Uruguay e Ungheria.
Per tener desta l’attenzione di un più folto pubblico, poiché si dubitava che una mostra dedicata a tecnici avrebbe raccolto molti consensi, fu deciso di creare alcuni momenti di evasione diciamo così, più turistiche, buon esempio ne è il concorso che fu bandito per costruire una nave a grandezza naturale, la realizzazione del piroscafo fu affidata alla ditta Piaggio di Sestri Ponente, avrebbe dovuto galleggiare nell’Arena a tal proposito allagata ma, inconvenienti tecnici sconsigliarono la pur suggestiva attuazione del progetto.
Nel largo piazzale del parco è situato il centro dei divertimenti. Di fronte alla facciata interna delle mostre retrospettive si erige un’altissima colonna sulla quale poggia un emisfero fatto con cerchi di ferro, alla base un canale d’acqua azzurra corre intorno al grande padiglione.
Elegantissime barchette trasportano i viaggiatori lungo il canale che si svolge per 500 metri in un labirinto di grotte di tufo e di scisti, illuminate a colori da lampadine disseminate qua e là e nascoste tra i crepacci e le spaccature delle rocce vive.

Lentamente ci si inoltra ed ecco affacciarsi l’incantevole panorama di Gibilterra, opera del Rovescalli, o quello di Londra dello scultore Rescaldoni,, resi in modo perfetto e quasi movimentati.
Quando la barca passa davanti ai fiordi norvegesi si sente venire incontro un’ala di vento, fresca prima, poi più fredda, fino a che l’acqua corrente trascina fino ad una svolta dove sulla roccia troviamo dipinto l’eterno crepuscolo polare.
Quando la barca termina il suo viaggio, circa 15 minuti di durata, ecco un’immensa distesa di ghiacciai, una capanna da esploratori ed un piroscafo incagliato tra i ghiacci: la precisa ricostruzione del punto in cui giunse il Duca d’Abbruzzi.
Un altro tipo di giostra che piacque molto fu quello definito “l’aeroplano2, si trattava di un gigantesco ombrello con la cupola a quasi 30 metri dal suolo, l’armatura era di ferro e dieci enormi braccia che tenevano sospese delle strutture a forma di battello con elica, si dipartivano, spingendosi nel vuoto, dall’asse centrale. Al fischio di una sirena l’ombrello gigantesco girava su se stesso, le navicelle si muovono, salendo lentamente sopra la piattaforma dell’edificio circolare, mano a mano cresce la velocità finchè un rintocco di campana annuncia la fine della corsa.
Ma le curiosità dell’esposizione non finiscono qui, a parte la struttura degli edifici, tutti di un vago gusto secessionista, orientaleggiante, spinto agli estremi più arditi dello sperimentalismo non solo architettonico e difficilmente ascrivibili perfino al vasto termine dell’accezione Liberty, oggi ne resta testimonianza ed esempio con l’edificio, dell’architetto Sebastiano Locati, unica vestigia rimasta dell’Esposizione, in via Gadio che attualmente ospita il Civico Acquario e che all’epoca accolse la mostra di piscicoltura.
Costruito in cemento armato, finemente decorato in ceramica e ravvivato, nelle sue linee essenzialmente semplici, da una statua del dio Nettuno e da decorazioni che molto opportunamente ne ricordano la destinazione.
Un altro edificio assai singolare fu il padiglione dell’Eternit, questo è il nome che spiccava sulla fronte dell’edificio il cui elegante, e un po’ bizzarro, profilo richiamava subito l’attenzione di chi scendeva dalla stazione di Piazza d’Armi, dalla ferrovia elevata che univa le due sezioni dell’esposizione.
La costruzione più che essere destinata ad una mostra era una mostra essa stessa poiché era tutta costruita con un nuovo materiale: l’Eternit appunto, si tratta di una pietra artificiale composta di amianto e cemento Portland che si adatta ad un’infinità di soluzioni. L’edificio modello era opera degli architetti milanesi Arcangelo Speranza e Mauri Carlo, autori fra l’altro anche del bellissimo padiglione degli orafi al Parco.


Automat: una parola che allora assumeva un connotato quasi magico, era il nome di un padiglione sito sul Monte Tordo al Parco, si trattava di un ristoratore automatico, di elegante e simpatico aspetto e…smontabile.
Interessante l’organismo di distributori automatici, i serbatoi di cristallo, racchiusi in camere refrigerate, i ricevitori delle monete che registrano automaticamente anche il numero dei servizi, il distributore-miscelatore alla cassa. Erano tutte macchine che naturalmente all’ammirevole semplicità univano una robustezza straordinaria.
Curiosissimo il servizio dei piatti caldi: un ingegnoso apparato elettrico avvisa il cuoco del piatto ordinato dall’ignoto e silenzioso cliente.
Il pubblico accorso dapprima all’Automat come un divertimento, vi trovò anche il risparmio e la comodità, in un solo giorno il reparto sandwich giunse a distribuire in meno di due ore 2500 pezzi.
Concludiamo questa breve e immaginaria passeggiata fra i viali dell’esposizione citando il padiglione che allora registrò la più vasta affluenza di pubblico: IL Cairo.
Ebbene l’Esposizione compì anche questo miracolo, di portare il Cairo a Milano, Non si trattava di un panorama pittorico ad illusione ottica, né di cinematografo, o di una qualsiasi rappresentazione bensì di una riproduzione autentica, sebbene di proporzioni ridotte.
La via del Cairo non è stata soltanto una delle più brillanti sezioni dell’esposizione, ne fu una delle meraviglie, tanto fedele ed elegante, e signorile, fu la riproduzione dell’architetto Galetti del caratteristico ambiente orientale, di quel paese dei sogni e degli incanti.
Era un indescrivibile brulichio multiforme di vita ciò che si andava svolgendo in quel recinto dalle mura e torri in stile arabo-moresco di ben 4800 metri quadri.
Passato, col permesso del gigantesco negro, così ci dicono le cronache dell’epoca, che controlla il biglietto, il cancello d’ingresso, eccoci al tempio –Egiziano, riproduzione in puro stile che rappresenta un tempio-tomba dei Faraoni, ed ha l’aria anche di racchiuderne i tesori: broccati e vasi antichi.
A due passi da lì una nenia monotona richiama la nostra attenzione: sono una dozzina di bambini arabi accovacciati in mezzo ad una strada che ripetono una monotona litania.
Più oltre ecco una stazione di cavalcature: per chi vuole godersi una corsa sono a disposizione cammelli ed asini coi relativi cammellieri o asinai in fez o in turbante e camicione scuro o bianco.
Di qua e di là le viuzze anguste e tortuose a zig zag sono fiancheggiate da casette con piccole porte, minuscole finestre a fitte inferriate: là è l’impenetrabile e silenziosa dimora dell’ Arabo.Ad ogni tratto graziosi portali moreschi, dappertutto negozi-bazaar, da ognuno di questi negozi si affacciano fez e turbanti, graziosi profili birichini dalle trecce brune, vi si chiama, vi si invita, vi si mostrano campioni e specialità, vi si offre l’oggetto ricordo.
Ci fermiamo al Caffè Turco per sorbire una tazza di vero Moka, avendo cura di lasciare a uno dei sonnolenti camerieri turchi tutto il tempo necessario per alzarsi dallo sgabello e trascinarsi con molta flemma a noi.
Alcuni Turchi, per le strade, armati di Scimitarra e scudo, per qualche soldo danno lo spettacolo di un combattimento al suono di tamburi e pifferi.
Più in là ecco un recesso silenzioso, che nasconde il più attraente e geloso dei misteri orientali: l’Harem.
Qui con pochi soldi la “porta del sacro penetrale” ci si apre dinnanzi  e possiamo vedere nel lussuoso salotto, mollemente abbandonata sui cuscini, la moglie del Pascià che, con le compagne odalische, è vigilata da un colossale eunuco.


Un’altra casa seducente con l’onda di suoni dolci e smorzati di cui giunge un’eco, un’altra porta che si apre, ecco la sala selle dame egiziane, qui l’orchestra è di mandolini e chitarre dallo stridulo timbro: a quel suono elegiaco e carezzevole una bella fanciulla dagli occhi neri, dalle molli movenze, avanza al proscenio ed esegue la famosissima danza del ventre.
Non resta ora che fare la conoscenza con il villaggio Nubiano: ecco le capanne di creta, foggiate a cono, disposte in ordine sparso, c’è tutta una tribù. Qui le scuderie per i quadrupedi, là il forno della comunità, piantato solidamente su tronchi di palmizio vivo, nel centro del villaggio ecco una specie di palcoscenico ove ogni tanto un tam tam di tamburi chiama a raccolta uomini donne e ragazzini, tutti adorni di arabeschi, ciondoli e conchiglie, che nel movimento ritmico di una danza antica danno un bizzarro suono di nacchere.
Chiudiamo la visita al Cairo, ed all’esposizioni fermandoci a sorseggiare qualcosa al “Grand Café Restaurant du Caire”.
Statua prospicente il Padiglione dell'Arte Decorativa Francese

Al di là del risultato economico della manifestazione e del gradimento espresso dai milanesi va detto che l’evento fu curato in ogni dettaglio: per esempio, per deciderne il manifesto pubblicitario, la Casa Ricordi indisse, nel 1905, un concorso tra i propri illustratori: Marcello Dudovich, Adolf Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz e Giovanni Mataloni. I lavori furono tutti premiati, ma vennero usati in modo differente (il cartellone ufficiale di Metlicovitz, la cartolina postale di Mataloni, il logo di Hohenstein, sconosciuto è invece il disegno di Dudovich) e in tempi diversi, perché, « allo scopo di evitare una réclame uniforme, antipatica e troppo commerciale, l’ufficio di pubblicità ebbe cura che il medesimo articolo non uscisse contemporaneamente sui giornali della stessa città, e, possibilmente, della stessa regione ».
         Furono stampati il catalogo e numerosissime cartoline illustrative dell’area e pubblicitarie dell’evento, delle manifestazioni collaterali e dei singoli padiglioni; vennero coniate medaglie e gettoni commemorativi, furono disegnati loghi, francobolli e adesivi e altro ancora.
         Ci è piaciuto dilungarci, a costo anche di ripetizioni, in altri ambiti oziose, su questo brillante  frammento di storia cittadina, ad un secolo intero ormai compiuto dal suo accadimento, per l’importanza che esso rappresentò  nel futuro svolgersi delle conquiste tecniche, artistiche ed architettoniche; lo stile Liberty che cominciava a farla da padrone nelle architetture cittadine vi trovò una insperata e prolifica vetrina che ne decretò la definitiva consacrazione, la cartellonistica d’arte e la grafica iniziarono qui il lungo viaggio che avrebbe portato da una parte alla nascita della scienza pubblicitaria e dall’altra a porgere gli stili e le forme d’arte ad un pubblico eterogeneo che certamente non avrebbe mai frequentato le gallerie specializzate.
         Il mondo del commercio sperimentava le proprie capacità di uscire dallo stretto ambito locale e nazionale, verificando le proprie forze e la propulsione delle proprie idee, l’industria scopriva una forma proficua di  lancio delle proprie attività con la possibilità di testare in tempo reale il gradimento dei nuovi prodotti.

         Nasce in questa occasione la Milano moderna intraprendente e vincente che per tutto il XX° Secolo impronterà di sé il mondo produttivo nazionale, ma è altrettanto vero che in quello scorcio di secolo la vita era ancora semplicemente ancorata ad un passato più a misura d’uomo, la città, già proteiforme comunque, era ancora un paesone allargato e forse per questo l’Esposizione del 1906 colse nel segno tutti i suoi obbiettivi, né vale citare quanti criticamente ricordano il “gigantismo da varietà” o la disunità stilistica dell’allestimento perché il ragionamento critico appare veramente fuori luogo riferito ad una manifestazione che della molteplicità di intenti aveva fatto ragion di scelta.

Non vale la disanima dell’evento il rigore scientifico che si applica alle moderne esposizioni, il taglio stilistico era ancora da nascere, l’uniformità era un termine decisamente pericoloso e poi ogni visitatore, fosse un privato o un addetto settoriale, come oggi piace definire , ebbe il proprio personale percorso, ebbe la luce di veder stimolato il proprio sense of Wonder, componente fondamentale per una riuscita manifestazione, ebbe l’invidiabile opportunità di vedere la nascita di un mondo e di scoprirne molteplici altri in fieri, ebbe l’incoercibile certezza che di lì in poi le barriere della cultura della conoscenza, dell’arte, dell’informazione, del progresso si sarebbero infrante, che le camere stagne create da un’ignoranza storica e forse atavica  sarebbero definitivamente state chiuse.
Il Milanese che si recava in Piazza d’Armi, tutto lustrato e in ghingheri, come alla sagra di paese, che altro non era per molti versi l’Esposizione, trovava risposta concreta al suo desiderio di conoscenza e divertimento e innumerevoli proposte per dare una svolta al proprio destino, tutto il nuovo e l’ignoto si disvelavano come in un incanto allargandone la visuale e nel contempo rinforzandolo nelle decisioni e nelle impostazioni di vita.

Questo e non altro il vero centro del bersaglio guadagnato dall’esposizione di Milano, piuttosto che quella di Torino o di altre città che in quegli anni proliferavano, questo il leit motif che avrebbe poi congiunto le varie edizioni della Campionaria propriamente detta, il consenso popolare riconosciuto alla manifestazione portava con sé la realizzazione degli obbiettivi, la riuscita commerciale delle proprie imprese e l’affermazione economica che di riflesso si accompagnava era premio accessorio e gratificante al di là di quanto non avvenga oggi.
         La definitiva chiusura della Campionaria, o Grande Fiera d’Aprile, mise fine ad una proprietà comune del singolo Milanese che le settoriali tanto di moda oggi non hanno mai saputo sostituire, lasciando il campo ad un vuoto bruciante (...)
(Le immagini di questo articolo sono tratte dall'archivio di Claudio Romeo e Ampelio Vimercati)

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