sabato 25 novembre 2023

L'Osteria del Gatto Nero di Roberto Bagnera

via Ortica 15, la storica sede, foto ACAdeMI - Roberto Gusmaroli


Le origini di questo locale potrebbero risalire alla fine dei Seicento, quando era conosciuto come “Osteria dell'Ortica" di proprietà dell'abate Cesare Gorani. Comunque, entrando si aveva l'impressione che l'orologio si fosse fermato da un paio di secoli: tale infatti era l'atmosfera generata dai massicci tavoloni di abete e dal rivestimento di legno scuro delle pareti.

La Trattoria Gorana all'Ortica in una foto anni 20 del Novecento


Quelli della "Banda dell'Ortica” - al secolo i vari cantanti e cantas torie, Jannacci in testa, che hanno reso famose le canzoni della mala - la conoscevano bene e spesso poteva capitare di finire la serata con qualcuno di loro alla chitarra.
Condotta dal "Tiglin" (il cui vero nome è Attilio Rusconi) e famiglia, il "Gatto Nero" era la tipica osteria dove: "se parla, se canta e se fa baldoria in milanes".

Il Tiglin sulla soglia della sua Osteria, Archivio ACAdeMI

L'ingresso, che in inverno diventava la sala principale, era catterizzato da un grosso camino sempre acceso sul quale l'Attilio mescolava ogni sera la polenta.
La cucina, ovviamente, non poteva che essere principalmente milanese con salumi nostrani, frittatine e sottaceti come antipasti, risotti, Busecca e Cassoeula come piatti forti.

Il Tiglin al banco, archivio ACAdeMI
Interno dell'osteria, archivio ACAdeMI

Particolare di una parete con fotografie ricordo, foto di Leotorda

Lasciato il quartiere dell'Ortica, l'Osteria del Gatto Nero e il Tiglin proseguono per qualche anno la loro attività in una nuova sede in via Privata Decemviri 14, per poi chiudere definitivamente una pagina imprescindibile di storia milanese.

Primo piano del caminetto, foto di Francesco Brambati

Il Tiglin si gode il caldo del caminetto, foto di Donjulio80


venerdì 24 novembre 2023

Piccola Rapsodia della Castagna, divertissement milanese di Roberto Bagnera

El Gigi de la Gnaccia a Porta Nuova, anni 20

Frutto prelibato dei boschi lombardi, carne e pane dei poveri nutrimento principale sul desco dei contadini nell'ubertoso autnno dei tempi che furono, fra campi e cascine, fra fatica sudore e dignità di povere vite, la castagna ha sempre rappresentato una risorsa imprescindibile della terra e anche nella cultura milanese arricchisce di sè e dei suoi prelibati preparati la vita quotidiana e i poveri pasti del volgo.

Così, a guisa di improvvisato dizionario facciamo una rapida escursione nei termini, nelle consuetudini ambrosiane, negli antichi mestieri ambulanti e nelle foto, d'epoca e non, ad essa legate  scoprendo così la milanesità della ...

Castegna: Castagna, detta anche maron, la cui polpa è protetta dalla gea o rusca: pellicina aderente, a sua volta ricoperta dalla dova, o dovanna o gussa: guscio; il tutto protetto dal risc, il riccio.

Fiera di Sinigaglia,ambulante vende collane di castagne foto di Mario Cattaneo del 1965


BaloeùsCastagna lessata con la buccia

BelegòttCastagne lessate col guscio ed essiccate. Esiste anche il modo di dire "acqua de belegott", frase usata come esclamazione di meraviglia, nel senso di caspita!, però!, perbacco!

BescottCastagne cotte al forno

BoroeùlCastagna arrosto


Venditore di caldarroste


Busecchina

La Busecchina, oggi considerata un sempplice e gustoso dolce era in realtà spesso il piatto unico sul desco delle povere genti lombarde, una tipica minestra con radici nel medioevo quando si diffuse la consuetudine di prepararla il 31 gennaio in occasione del giorno dedicato a Santa Savina

La Busecchina sobbolle...

Ingredienti per 4 persone

600 gr. di castagne secche

1/2 lt. di latte

100 gr. di panna da montare

1 foglia di aloro

1 pezzetto di scorza di limone

Lasciare le castagne a mollo per tutta una notte.

Prima di cuocerle sciacquarle con acqua tiepida, metterle in una pentola con dell'acqua, la foglia di alloro, la scorzetta di lmone e un pizzicone di sale.

Cuocere a fuoco basso finchè avranno assorbito gran parte dell'acqua (la cottura è abbastanza lunga).

A fine cottura, unirete del latte caldo, mescolate bene e servite caldo, magari con un'aggiunta di panna


Una moderna e golosa versione di Busecchina


Caldarrostaio, el Castagnatt: figura di ambulante tra le poche che sopravvivono ai tempi nostri, è colui che arrostisce alla fiamma — su fornelletti improvvisati, spesso ricavati da bidoni e fusti — le castagne, che vengono poi vendute a prezzo fisso, senza essere pesate bensì raccolte con un misurino apposito e avvolte in cartocci di carta.

Caldarrostaio in via Zumbini presso la Chiesa dei Santi Nazaro E Celso alla Barona, foto di Bruno Stefani del 1927






Castegn bianch o pestCastagne tolte dal riccio e lasciate seccare nel guscio, poi spogliate anche di quello.

Castegn CrodèllCastagne che giunte a maturazione cascano da sè dall'albero.

CùniCastagne cotte al forno e spruzzate di vino bianco, devono il loro nome al fatto che provenivano dalla città di Cuneo.

Quando le castagne così cucinate vengono legate tra loro passandole attraverso con dello spago a formare una specie di collana, si crea il cosiddetto firon, termine utilizzato per la somiglianza con la colonna vertebrale (firon).

Un  gruppo di Fironatt, venditori di firon di Cuni


Fà Maron: la parola maron, usata in questa locuzione, non deriva nè da marra che è la zappa, né da marrone che è la castagna, bensì dal verbo inglese to mar, che significa smarrirsi, sbagliarsi. In milanese quando si vede qualcuno che commette un errore si suol dire: "l’ha faa maron", ma non per indicare un inconsapevole malefatta quanto per sottolineare la malafede di chi sperava di farla franca ed è stato invece scoperto.

Farù/Faruff: Castagne lessate

Firon: schienale, il complesso delle vertebre degli animali macellati, allestito per diventare vivanda. Per similitudine anche la fila di castagne cotte al forno e legate tra loro con lo spago

Bancarella ricolam di Firon di castagne alla fiera degli O Bej O Bej, foto di Massimo A. Gardini


Gigi de la Gnaccia: castagnagnacciaro, venditore ambulante di castagnaccio (sorta di torta prodotta con farina di castagne). Tali commercianti (quasi sempre erano anche fabbricanti loro stessi), nel Milanese meglio noti con il nomignolo “Gigi de la gnaccia” facevano abitualmente uso, per l’esposizione e il taglio del prodotto, di un piccolo tavolino tondo munito di una sola gamba, spesso pieghevole per una maggior facilità di trasporto.

Un Gigi de la Gnaccia presso il ponte sul Naviglio di via Vallone

GNACCIA (Castagnaccio)

L’uso della parola “castagnaccio” sembra risalga al 1449, l'etimologia della parola è semplice: deriva dall'aggettivo castaniaceus del latino medievale), ma le origini del dolce, semplicissimo, povero e nutriente, fatto all’inizio soltanto di farina di castagne e acqua, sono sicuramente assai più lontane nel tempo.

Una teglia di Castagnaccio Toscano, dal sito labuonatavola.org

Questo dolce, sembrerebbe tipico della Toscana, ma è diffuso un po’ dappertutto e con molte varianti territoriali, anche nel nome.

Il castagnaccio è stato accolto e valorizzato dai romani in modo eccellente, probabilmente per via della grossa produzione di castagne nella regione laziale, così che il dolce, romanizzato, è stato ribattezzato con il nome al femminile "castagnaccia".

Secondo quanto si legge nel "Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia ed altri luoghi", di Ortensio Lando (Venetia, 1553), l'origine del castagnaccio è lucchese e il suo inventore pare sia stato un tale "Pilade da Lucca", che fu "il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda".

Inoltre, la superstizione attribuiva al rosmarino che talvolta era usato come uno degli ingredienti un significato amoroso: si credeva che se un giovane avesse mangiato “la gnaccia” col rosmarino offertagli da una ragazza, se ne sarebbe innamorato e l’avrebbe chiesta in sposa...

Ingredienti :

400g di farina di castagne

2 cucchiai di zucchero

100g di uvetta ammollata in acqua tiepida

4 cucchiai di olio evo

1 rametto di rosmarino

50g di pinoli

Sale

- Versate la farina di castagne in una terrina aggiungendo mezzo cucchiaino di sale e lo zucchero, versate 5dl di acqua fredda e mescolate energicamente fino ad ottenere un composto omogeneo ma nel contempo ancora abbastanza liquido.

- Aggiungete l'uvetta, 2 cucchiai di olio e amalgamate anche questi ultimi

- Ungete una teglia con l'olio e versatevi l'impasto, la dimensione della teglia deve essere tale da avere un impasto spesso 1,5cm

- Ricoprite la superficie con la restante uvetta, i pinoli e qualche ago di rosmarino

- Riponete la teglia in forno e cuocete l'impasto a 180° per 30 minuti

- Non resta che sfornare e servire ben caldo


Un Gigi de la Gnaccia con il tipico tavolino ad una gamba, foto del 1910, Archivio Touring

Peladej: castagne lessate senza bucce

Scotti: castagne arrosto

Verones: castagne cotte nel forno o nella stufa


Quel di Scotti caldi

Quel di Scotti Caldi, castagne arrosto, primi del 900

Con l'augurio di avervi rivelato dettagli e particolari meno conosciuti, concludiamo questo breve prolegomeno della castagna lasciando la parola ad un'antologia di immagini:


Venditore di caldarroste in corso vittorio emanuele, angolo via San Pietro All'Orto, foto del 2014 di Salvatore Lo Faro

Caldarroste in piazza Duomo, foto del 2009 di Alan Denney


Fine anni 40, venditore di caldarroste, foto di Federico Patellani

Fine anni 50, venditore di caldarroste Foto di Massimo A. Gardini

Scotti caldi al dazio ai Bastioni di Porta Nuova

Piazza Sant'Ambrogio, anni '50. fironatt durante la fiera degli o bei o bei

Un venditore di caldarroste in piazza del Duomo, 1970 circa, foto di Mario Cattaneo

Un'immagine scurita dal tempo inquadra il naviglio presso il ponte di Porta Romana, sulla destra s'intravvede un venditore di castagne, Archivio ACAdeMI

Venditore ambulante di caldarroste - Basilica di Sant'Ambrogio sullo sfondo, foto anni 50 di Enrico Cicero

Venditore di caldarroste in piazzale Marengo

Venditore di caldarroste, foto del 1938 di Bruno Stefani

Venditore di caldarroste, foto del 1963 di Ettore Ferrari

Venditore di castagne lesse, 1890

Venditori di caldarroste, foto del 1910, Archivio Touring

Venditori di castagne arrosto e mele



mercoledì 22 novembre 2023

L'affresco di S. Anna in Castagnedo di Roberto Bagnera

La fatiscente chiesetta di S. Anna in Castagnedo, foto anni 80, Archivio ACAdeMI - Franco Mauri

Castagnedo, antico borgo ormai (quasi) scomparso di cui si sono praticamente perse le tracce, salvo per l’unico edificio che ne rimane, la chiesetta di Sant’Anna (anche se, purtroppo, versa in condizioni quasi disperate).

Premesso che il nome proviene da un bosco di castagni, alla fine del diciannovesimo secolo il borgo compariva ancora nei registri della parrocchia di Santa Maria di Calvairate, ma il nome era stato storpiato in Castenedo, divenendo così omonimo di una frazione presso Voghera.

La località apparteneva già’ nel dodicesimo secolo alle monache di Santa Margherita, il cui monastero femminile sorgeva nel centro della città nei presi dell’omonima via tuttora esistente; tutto ciò è testimoniato da numerosi documenti relativi ad acquisti, permute e rivendicazioni di diritti del monastero a Castagnedo.

Verso la fine del tredicesimo secolo la località ospitava anche una comunità di monache Umiliate, dedite alla lavorazione della lana, caratteristica dall’intero ordine; esse vi eressero una chiesina dedicata a Santa Maria, come loro tradizione.

S. anna in Castagnedo in una foto anni 20 del Novecento, Archivio ACAdeMI

Le monache però ebbero rapporti piuttosto tesi con le monache di Santa Margherita, non si sa se per ragioni d’acque (all’epoca, ma anche oggi, risorsa indispensabile), per confini della proprietà o per diritti di accesso. Fatto sta che nella seconda metà del quattordicesimo secolo, e più precisamente nel 1385, esse preferirono aggregarsi al monastero di Santa Maria della Vittoria.

Poco dopo però, cessati i contrasti con le monache di Santa Margherita, le Umiliate tentarono di far marcia indietro dicendo che lo scorporo avvenuto nel 1385 era da ritenersi illegale in quanto il vicario generale dell’Arcivescovo aveva decretato l’aggregazione alla Vittoria quando era ormai decaduto dalla carica.

Tutto venne risolto poco tempo dopo, quando il Vescovo di Piacenza, delegato dal Papa Urbano VI, sanzionò la fusione dei due monasteri, acquietando così di fatto le acque, in quanto a quel punto tutto il podere di Castagnedo diventò proprietà del monastero di Santa Margherita, come risulta da un documento steso per ordine di Margherita Visconti, figlia di Bernabò e badessa di Santa Margherita.

Tornato il fondo alle precedenti monache, esso rimase loro proprietà fino alla soppressione dei monasteri, ordinata dall’imperatore d’Austria Giuseppe II verso la fine del Settecento. Nel frattempo la chiesetta di Santa Maria aveva cambiato il nome in Sant’Anna di Castagnedo.

Unico residuo della cascina, la chiesetta fu sottoposta a vincolo in quanto conteneva affreschi di notevole pregio: le Tre Marie, dipinte sopra un altro affresco, ed altri, tra cui una immagine miracolosa di San Carlo, che il 24 giugno del 1601 avrebbe risanato una donna paralitica da nove anni. Due altri affreschi quattrocenteschi vennero poi staccati ma danneggiati da vandali, e sono ora di proprietà di un privato. Il vincolo è stato tolto, ma per fortuna la chiesetta, pur ridotta a un rudere, è stata risparmiata.

Lo scomparso affresco, raffigurante il Cristo nella chiesetta di Sant'Anna 

Nella memoria di alcuni milanesi della zona è ancora vivo il ricordo di quando gli abitanti della cascina Boffalora, essendo lontani dalla parrocchia di Calvairate, nei giorni festivi andavano alla chiesetta per partecipare alla Santa Messa. Ed erano i parrocchiani di allora che, con carro e cavallo, andavano a prendere il sacerdote della chiesa di Santa Maria del Suffragio, lo portavano alla chiesina, poi pranzavano tutti insieme ed infine lo riportavano in sede.


L'ormai demolita Cascina Boffalora lungo la via Tertulliano prospiciente un tratto scoperto della roggia Gerenzana, anni 60, Archivio ACAdeMI


Il desolante stato odierno di S. Anna in Castagnedo. Foto di Ottavio Cane


lunedì 20 novembre 2023

I Martinitt e il Mandarinetto di Renato Marelli, foto di Arianna Pogliani

La foto allegata è riferita ad un Natale (si vedono le fette di panettone) ma serve per dare l'idea dei piccoli Martinitt allineati davanti ai tavoli in attesa dell'ordine di potersi sedere per mangiare. Era ancora il periodo dei tavoli lunghi. Prima di sederci a mangiare dovevamo ascoltare l'ordine del giorno, solo dopo la sua lettura ci davano l'ordine di sederci. Archivio Museo Martinitt e Stelline, per gentile concessione di Renato Marelli.

Dalla metà degli anni 50 fino alla metà degli anni 60, una nota industria milanese utilizzava le bucce dei mandarini per ricavarne essenze. Acquistava quindi tonnellate di mandarini dei quali utilizzava solo la buccia.
Ecco quindi la strana collaborazione che avvenne in quegli anni tra il collegio dei Martinitt e l'industria Milanese. Questa ditta propose la fornitura di mandarini a noi collegiali in cambio della sbucciatura degli stessi. Un connubio che andava bene ad entrambi. Da una parte c'era la frutta gratis e dall'altra la "manodopera" gratis.
Quindi a rotazione, le compagnie dei ragazzi delle medie (allora ancora avviamento) venivano mandate in cucina con l'incarico di sbucciare i mandarini che sarebbero serviti per il pranzo o per la cena. Il guaio era che ogni tot mandarini sbucciati uno finiva in pancia dello sbucciatore di turno. Andò a finire che qualcuno esagerando (forse erano più i mandarini mangiati che quelli consegnati sbucciati) si senti male. La direzione decise allora che la sbucciatura dei mandarini sarebbe avvenuta in refettorio prima di pranzo coinvolgendo l'intera comunità.

La sede della Isolabella in via Villoresi, archivio Pictures Archives


 In quegli anni, nel periodo invernale avveniva un fatto curioso. In refettorio sui tavoli trovavamo 5 o 6 mandarini ciascuno. Prima di sederci ci ordinavano di sbucciare i mandarini e tenere le bucce in mano, poi alcuni incaricati passavano con dei sacchi di tela dove noi dovevamo buttare le bucce. Dopo questa operazione ci si poteva sedere e mangiare quei mandarini come frutta.
Perché tutto questo?
Una nota fabbrica di Milano produceva il liquore Mandarinetto. A lei servivano solo le bucce per estrarre le essenze che avrebbero aromatizzato il liquore.

La storica bottiglia del Mandarinetto Isolabella, lquore creato da Egidio Isolabella nel 1870



Del frutto sbucciato non se ne facevano nulla e lo avrebbero mandato al macero. Da qui l'idea di una collaborazione con i Martinitt. Loro ci donavano i mandarini in cambio dovevamo sbucciarli e rendere a loro le bucce.
A noi questa procedura non dava fastidio, anzi era l'occasione per farci una scorpacciata di mandarini.
Non vi dico le battaglie che facevamo con i semi dei mandarini da una tavolata all'altra, tra le nostre risate e l'incazzatura di qualche istitutore colpito involontariamente (non sempre involontariamente) da qualche seme.

Una storica pubblicità di Marcello Dudovich

In corso Cristoforo Colombo 11, sussiste un edificio che fu una delle sedi della ditta Isolabella & C.: presenta in facciata una curiosa decorazione, dei tondi che incorniciano 3 sculture di volti femminili con tanto di denominazione: Lina, Tilde, Nina, tali decorazioni si ripresentano anche nel lato che dà sulla via Alessandria anche se in questo caso non ci sono nomi incisi. Gradevoli anche le decorazioni dell'androne che rimandano a riminiscenze Liberty.
Qui di seguito alcune immagini scattate da Arianna Pogliani