Tratto dalla prefazione a Milano Futurista
Filippo Tommaso Marinetti fu prima di tutto un uomo dagli
inquieti appetiti intellettuali; una figura che non poteva trovare un posto di
prima fila nelle emergenze culturali della sua epoca perché non sapeva fingere
di condividere gli stretti limiti delle avanguardie in auge ai primi del
Novecento.
Filippo
Tommaso Marinetti aveva, almeno agli inizi, un idolo: Gabriele D’Annunzio.
Scrisse, in effetti, il pamphlet Les
Dieux s’en vont, D’Annunzio reste, ma non
riusciva ad essere al centro dell’attenzione come il suo maestro.
Filippo
Tommaso Marinetti aveva un sogno: diventare qualcuno nel panorama culturale del
suo tempo.
Filippo
Tommaso Marinetti aveva un estremo bisogno di affermare la propria personalità
attraverso un progetto che lo rendesse immortale nei cuori e negli animi del
suo tempo.
Filippo
Tommaso Marinetti voleva stupire e inventare, voleva dire e dare, e voleva,
come forse tutti, soprattutto essere.
Forse era
conscio che la sua personalità non era strabordante come tanti altri interpreti
dell’imperante decadentismo primonovecentesco, D’Annuzio su tutti, certo, ma
come non ricordare il des Esseints tratteggiato da Joris Karl Huysmans nel suo
celeberrimo A Rebours, o l’immarcescibile Mario l’Epicureo di Walter Pater. Filippo Tommaso Marinetti
poteva atteggiarsi a dandy nel
ricordo di Oscar Wilde, poteva seguire l’ultima moda e presenziare a feste e
ricevimenti, incantando gli astanti con lo sfoggio della propria cultura ma il
Mito no, non lo rasentava neanche da lontano, altre erano le figure dirompenti
che sapevano veramente soggiogare chi li frequentava; lui no.
E’
indiscutibile peraltro che l’estasi creativa e il tormento di una ricerca ai
confini dell’universo gli appartenevano a tutto tondo. Aveva solo bisogno di
un’intuizione che lo portasse sulla cima della scala dei valori, che lo
additasse come prima donna, sicuramente non furono i suoi primi scritti,
incerti e di maniera, a dargli quell’opportunità, anzi, ne decretavano una
prematura fine artistica, né fu lo scandalo che uno di essi, Mafarka, gli procurò,
a dargli la stura per la celebrità.
No, fu una
piccolissima intuizione: ribaltare il problema che assillava le avanguardie
culturali dell’epoca.
Mentre tutti
si arrabattavano a cercare di rappresentare la realtà con tratti che fossero
più consoni a rifletterne le molteplici facce, primo fra tutti il cubismo, con
la sua invenzione della visione contemporanea, Marinetti cercò in essa una
spiegazione ultima, la trovò nella meccanica del movimento, colse nella realtà
la forza propulsiva del mutamento e attraverso questi semplici princìpi si
accinse non a raffigurare, bensì a ricreare la realtà stessa piegandola a un
nuovo codice di regole: il Futurismo.
Il Futurismo, tra i movimenti artistico-letterari che hanno animato la scena culturale
nazionale negli ultimi cinque secoli, è quello che, forse, a cento anni esatti
di distanza — la fondazione ufficiale viene di norma ascritta al 1909, — più di
ogni altro è rimasto presente nella fantasia, se non nell’esercizio artistico,
degli italiani. Questo nonostante abbia sviluppato ed esaurito la sua stagione
vitale nell’arco di meno di vent’anni, caratterizzandosi, dunque, tra i
movimenti artistici (e tra i fenomeni di costume, quale anche fu) come uno dei
più brevi in assoluto di ogni tempo.
Benché non
fossero mancate ramificazioni, ancorché molto tiepide, in altri paesi europei
(tra questi, stranezza nella stranezza, la lontana Russia), il fenomeno
interessò in forma quasi esclusiva la Penisola, e anch’essa solo nelle regioni
settentrionali e, in misura minore, centrali. Gli artisti che vi aderirono, in
ogni caso, quand’anche di estrazione meridionale, in gran parte operarono negli
ambienti artistici e letterari centro-settentrionali.
I suoi
princìpi ispiratori e i suoi esiti non sopravvissero, almeno in misura
significativa, oltre il suo ristretto arco vitale e gli stessi artisti che vi
avevano aderito si espressero poi in altre forme, informandosi a stilemi
diversi.
Delle “parole in libertà” e dei “versi liberi” dei poeti
futuristi la letteratura italiana non ha conservato tracce; degli
“intonarumori” e del “rumorarmonio” — strumenti inventati e costruiti da Luigi
Russolo — restano soltanto sbiadite fotografie e scarne documentazioni
critiche.
L’arte
figurativa futurista, che pure ebbe esponenti e sortì risultati di valore
assoluto, si manifestò però in forme espressive non sempre omogenee e forse
spesso figlie più della evoluzione dei tempi che non del movimento stesso.
Diversa fu la
situazione dell’architettura. L’apporto dei concetti fondamentali del movimento
futurista incontrarono, nell’immediato, scarsa applicazione nell’ars costruendi italica
— e milanese in particolare, benché a Milano il Futurismo fosse nato e avesse
la sua sede naturale, — superati e sostituiti, ancor prima di trovare una
realizzazione pratica, dal Razionalismo e dall’architettura di regime che ne
rappresentava la strumentalizzazione estrema. Ma gli stilemi, nonché le
tecniche, dell’architettura futurista furono quelle che gettarono le basi
dell’architettura moderna in Italia, con effetti e derive ancor oggi
avvertibili.
Va osservato come il “messaggio futurista” fosse stato
scarsamente recepito dal grande pubblico. Per quanto riguarda la letteratura e
la musica, gli italiani continuavano a preferire testi in cui il cuore faceva
rima con amore.
Nulla a che
vedere, dunque, con quanto sostenuto da Marinetti nel suo Manifesto tecnico
della letteratura futurista (11 maggio 1912): « Bisogna distruggere la
sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono. […] Usare il verbo
all’infinito, perché si adatti elasticamente al soggetto e lo sottoponga all’io
dello scrittore… […] abolire l’aggettivo… […] sopprimere il come, il quale, il
così… […] abolire anche la punteggiatura… ».
La poetica
corrente era ancora legata a doppio filo al naturalismo letterario ottocentesco
— già peraltro negato, fin dal 1883, da D’Annunzio — e al decadentismo
gozzaniano, e le preferenze della popolazione andavano alla lettura del
cosiddetto “romanzo d’appendice”, che aveva in Carolina Invernizio e in Guido
da Verona i massimi rappresentanti. Il messaggio marinettiano del « facciamo
coraggiosamente il brutto » non era, non sarà mai, raccolto dal fruitore medio.
E, benché Marinetti stesso commentasse questa posizione negativa con « E che
fortuna! », lo scarso numero di estimatori (e di aderenti) incontrato dalla
poesia e dalla letteratura futurista circoscrisse il fenomeno a uno sparuto
drappello di operatori isolati.
L'Intonarumori inventato da Luigi Russolo
La musica
leggera rispecchiava questi gusti: « …quando d’inverno al mio cuor si stringeva
/ come pioveva, così piangeva » scriveva (e cantava) Armando Gill nel 1918; E.
A. Mario (l’autore della leggendaria Canzone del Piave) gli faceva eco (Vipera,
1919) con « …e quando mi divincolo ribelle a questo amore / qualcosa mi si
annoda in fondo al cuore ». Quanto a Gino Franzi e al suo Scettico blu (« Cosa
m’importa se il mondo mi rese glacial / se di ogni cosa nel fondo non trovo che
mal ») erano figli nostalgici della ormai estinta scapigliatura più che
epigoni del Futurismo.
È interessante
notare come la cosiddetta “musica colta” (quella che troppo spesso, con una
locuzione del tutto priva di significato, viene popolarmente detta “musica classica”)
avesse totalmente ignorato le ispirazioni futuriste e nessuno dei compositori
postromantici, veristi e postveristi, di quelli definiti “di transizione” o dei
“modernisti”, si fosse lasciato attrarre nell’orbita del nuovo movimento. In
realtà l’unico lavoro musicale del quale si può affermare che si identificasse
nelle proposizioni e negli ideali futuristi nacque più tardi e in un’area
geografica estranea alle esplorazioni di Marinetti & C. La genitura
dell’unica composizione che rispecchi fedelmente le filosofie futuriste va
infatti assegnata all’elvetico Arthur Honegger, autore nel 1923 di Pacific 231, movimento
sinfonico ispirato alla velocità, alla potenza e al fragore di una locomotiva,
il cui mondo il compositore dichiarò sempre di amare « passionalmente ».
Agli albori
del secolo xx alcuni musicisti,
Ferruccio Busoni (autore nel 1907 del saggio Abbozzo di una nuova estetica
della musica) tra i primi, avevano concepito una rivoluzione in campo musicale,
ma nella realtà l’evoluzione di questo settore artistico seguì strade diverse.
Atonalità e dodecafonia si sarebbero tenute lontane dai princìpi futuristi non
meno della letteratura modernista.
Rimase,
ugualmente estranea alle argomentazioni futuriste la gastronomia, nonostante le
sollecitazioni marinettiane (nel 1931, sulla rivista “Comœdia”, lo scrittore
avrebbe pubblicato perfino il Manifesto
della cucina futurista) e malgrado le
proposte del cuoco francese Jules Maincave , il più rilevante apostolo
dell’etica culinaria futurista, il, che
suggeriva accostamenti inediti e discutibili di alimenti e sapori, nei quali è
possibile identificare una prefigurazione della nouvelle cuisine, non a caso anch’essa creata da un
francese, Paul Bocuse. Anche in questo caso gli italiani continuarono a
preferire un tradizionale, sano piatto di pastasciutta — proprio ciò che
Marinetti aveva proposto di eliminare! — e a utilizzare, per la propria
alimentazione, cucchiai, coltelli e forchette, strumenti dei quali era stata
pure suggerita l’abolizione.
È altresì un errore storico e ideologico ritenere il
Futurismo anticipatore del Fascismo. Il movimento culturale ufficialmente
fondato da Filippo Tommaso Marinetti era nato da posizioni ideologiche,
discutibili finché si vuole, ma ben precise e definite. Il soggetto politico
ideato e creato da Benito Mussolini era invece stato originato dalle
aspirazioni autoritarie personali del futuro duce che, unendo i suoi ancora
nebulosi progetti politici ai sussulti nazionalisti postbellici, aveva dato
vita al movimento fascista. Se è vero che quest’ultimo aveva fatta sua una
parte dei princìpi futuristi e che molti “futuristi” — un buon numero dei quali
aderì poi effettivamente al fascismo — avrebbero fatto proprie alcune delle
ideologie fasciste (ma alcuni, almeno inizialmente, mostrarono simpatie verso
il socialismo e il neonato bolscevismo), è altrettanto vero che le dottrine
mussoliniane tenevano in scarso conto l’arte e tutte le sue manifestazioni
(curiosamente, però, il passatempo preferito da Mussolini era il violino) e che,
in conseguenza, il connubio futurismo-fascismo fosse, e rimanga, poco credibile
e soprattutto non suscettibile di sviluppi creativi positivi. È anzi vero che
la scarsa comprensibilità del messaggio futurista determinò verso questo
movimento l’ostilità di molti esponenti del fascismo più generalista.
Probabilmente questa avversione non tanto del regime quanto di gran parte dei
sostenitori del fascismo portò poi al refluire del movimento futurista verso
atteggiamenti meno oltranzisti, in una sorta di rinnovamento che lo stesso
Marinetti definì « secondo futurismo ».
Ora, a cento anni esatti dalla fondazione del Futurismo
occorre astrarsi dagli aspetti più inconsueti della produzione del movimento e
togliere definitivamente il velo consueto con cui si vuole bollare
quell’esperienza come cosa di poco conto e involuta in un sé improduttivo. Il
Futurismo anzi ha dato, anche involontariamente a volte, una spinta feroce
verso la modernità di alcune arti, prime fra tutte la pittura, che in esso
colse la scintilla per svincolarsi definitivamente dalla rappresentazione
meramente figurativa.
L’intuizione
marinettiana di creare nuove regole in cui ingabbiare, e anche con cui domare,
l’estrinsecarsi della realtà, hanno portato a risultati inattesi in più di un
campo: l’ architettura, paradossalmente, è quella che più immediatamente ha
risposto alla chiamata, rigettando i dettami floreali e deco in virtù di una
più immediata configurazione delle masse costruttive attraverso il movimento
razionalista e le istanze di giovani architetti come Gio Ponti, Lancia,
Portaluppi e Muzio, operando quindi in Milano un sostanziale residenzialismo
volto al futuro.
La danza
moderna è decisamente debitrice a Marinetti dell’uso di mezzi espressivi ed
evocativi altri che non il corpo; la cucina internazionale moderna, dicasi e
leggasi fusion,piuttosto che molecolare ha fatto propri i giochi di materie prime, consistenze,
cromatismi e assonanze, prefigurate nel manifesto della cucina futurista, e la
musica ha da par suo definitivamente codificato il gioco di suoni e note
attraverso una sperimentazione che vede nella creazione dell’“intonarumori” di
Luigi Russolo l’inizio vero e concreto della musica elettronica, laddove i
Tangerine Dream e i Pink Floyd più concettuali, piuttosto che i pianoforti preparati
di John Cage o di Antonio Ballista, rendono doveroso rendiconto delle
intuizioni futuriste.
Se unico neo è la letteratura, va aggiunto che l’estro
creativo di Marinetti e dei suoi seguaci ha avuto sempre il merito di appiccare
la scintilla a un razzo pronto a volare, con metodi spesso discutibili e
trovate spettacolarizzanti.
Il Futurismo
ha creato una rappresentazione della realtà sicuramente diversa e più pregna di
sviluppi di quanto non fosse stato fatto fino al suo apparire; il suo voler
piegare tutto a stretti concetti di dinamica, contemporaneità e velocità seppur
non cogliendo risultati immediati ha pur sempre lasciato semi in tutto il
panorama culturale che si sarebbe di lì a lì inoltrato nelle epoche e nei
tempi.
Una
rappresentazione recitata in diversi atti, in diversi spazi, in diversi tempi,
e con diversi personaggi, con sviluppi inattesi e una sceneggiatura sempre
cangianti: una commedia; una commedia che diventa divina nella sua ricerca
delle forze predominanti che stanno dietro l’essere visibile.
Ecco perché la struttura di questo libro ricalca, con
timido impatto, la commedia di Dante, laddove il Paradiso ci racconta la figura
femminile, il Purgatorio dipana lo sperimentalismo più acuto del Futurismo, e,
infine, l’Inferno si occupa dell’artefice primo e ultimo di questa avventura:
Filippo Tommaso Marinetti.
È un libro
anomalo, certo, perché abbandona la logica cronologica del saggio critico,
privilegiando scene cardine, momenti topici, come degli acquerelli a una
esposizione — non aveva forse “impeti futuristici” anche Musorgskij?, — dove il
protagonista tanto atteso entra in gioco quasi alla fine e dove il vero
protagonista, Milano, entra in scena solo all’ultimo atto e s’impadronisce
dell’attenzione di tutti definitivamente.
Milano è la
culla del Futurismo, ma il Futurismo non ci sarebbe stato, senza la
“futuristicità” di Milano, che quindi è giusto si impadronisca dell’ultima
parola.
Ogliari e
Bagnera — già autori di Milano liberty e Milano déco — hanno voluto, con questo Milano futurista, raccontare a modo loro un momento importante nella storia culturale
della città in modo diverso, senza sottostare alle logiche divulgative che spesso accompagnano
pubblicazioni come questa.
Di saggi sul
Futurismo ne verranno pubblicati parecchi, in questo anno del centenario, ma i
nostri autori hanno preferito rendere omaggio a un uomo, un movimento e a una
città che li ha resi possibili, con una diversa interpretazione del fenomeno,
senza necessariamente citare e pontificare, senza sfoggio di nozioni e
criticismi, anzi con un messaggio non tanto nascosto: la volontà di incuriosire
il lettore e spingerlo a indagare da sé.
Seduti in quel
caffè, all’ingresso della Galleria, sorseggiando un Campari, Bagnera e Ogliari
discettano, con piglio svelto, sul perché e il percome di quella rissa appena
sviluppatasi, in quel marasma di rossi, di blu, di verdi, di linee frammentate
di azioni…
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