mercoledì 26 settembre 2012

Non v’è più bellezza se non nella lotta di Rolando di Bari



Tratto dalla prefazione a Milano Futurista



Filippo Tommaso Marinetti fu prima di tutto un uomo dagli inquieti appetiti intellettuali; una figura che non poteva trovare un posto di prima fila nelle emergenze culturali della sua epoca perché non sapeva fingere di condividere gli stretti limiti delle avanguardie in auge ai primi del Novecento.
Filippo Tommaso Marinetti aveva, almeno agli inizi, un idolo: Gabriele D’Annunzio. Scrisse, in effetti, il pamphlet Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste, ma non riusciva ad essere al centro dell’attenzione come il suo maestro.
Filippo Tommaso Marinetti aveva un sogno: diventare qualcuno nel panorama culturale del suo tempo.
Filippo Tommaso Marinetti aveva un estremo bisogno di affermare la propria personalità attraverso un progetto che lo rendesse immortale nei cuori e negli animi del suo tempo.
Filippo Tommaso Marinetti voleva stupire e inventare, voleva dire e dare, e voleva, come forse tutti, soprattutto essere.
Forse era conscio che la sua personalità non era strabordante come tanti altri interpreti dell’imperante decadentismo primonovecentesco, D’Annuzio su tutti, certo, ma come non ricordare il des Esseints tratteggiato da Joris Karl Huysmans nel suo celeberrimo A Rebours, o l’immarcescibile Mario l’Epicureo di Walter Pater. Filippo Tommaso Marinetti poteva atteggiarsi a dandy nel ricordo di Oscar Wilde, poteva seguire l’ultima moda e presenziare a feste e ricevimenti, incantando gli astanti con lo sfoggio della propria cultura ma il Mito no, non lo rasentava neanche da lontano, altre erano le figure dirompenti che sapevano veramente soggiogare chi li frequentava; lui no.
E’ indiscutibile peraltro che l’estasi creativa e il tormento di una ricerca ai confini dell’universo gli appartenevano a tutto tondo. Aveva solo bisogno di un’intuizione che lo portasse sulla cima della scala dei valori, che lo additasse come prima donna, sicuramente non furono i suoi primi scritti, incerti e di maniera, a dargli quell’opportunità, anzi, ne decretavano una prematura fine artistica, né fu lo scandalo che uno di essi, Mafarka, gli procurò, a dargli la stura per la celebrità.
No, fu una piccolissima intuizione: ribaltare il problema che assillava le avanguardie culturali dell’epoca.
Mentre tutti si arrabattavano a cercare di rappresentare la realtà con tratti che fossero più consoni a rifletterne le molteplici facce, primo fra tutti il cubismo, con la sua invenzione della visione contemporanea, Marinetti cercò in essa una spiegazione ultima, la trovò nella meccanica del movimento, colse nella realtà la forza propulsiva del mutamento e attraverso questi semplici princìpi si accinse non a raffigurare, bensì a ricreare la realtà stessa piegandola a un nuovo codice di regole: il Futurismo.


Il Futurismo, tra i movimenti artistico-letterari che hanno animato la scena culturale nazionale negli ultimi cinque secoli, è quello che, forse, a cento anni esatti di distanza — la fondazione ufficiale viene di norma ascritta al 1909, — più di ogni altro è rimasto presente nella fantasia, se non nell’esercizio artistico, degli italiani. Questo nonostante abbia sviluppato ed esaurito la sua stagione vitale nell’arco di meno di vent’anni, caratterizzandosi, dunque, tra i movimenti artistici (e tra i fenomeni di costume, quale anche fu) come uno dei più brevi in assoluto di ogni tempo.
Benché non fossero mancate ramificazioni, ancorché molto tiepide, in altri paesi europei (tra questi, stranezza nella stranezza, la lontana Russia), il fenomeno interessò in forma quasi esclusiva la Penisola, e anch’essa solo nelle regioni settentrionali e, in misura minore, centrali. Gli artisti che vi aderirono, in ogni caso, quand’anche di estrazione meridionale, in gran parte operarono negli ambienti artistici e letterari centro-settentrionali.
I suoi princìpi ispiratori e i suoi esiti non sopravvissero, almeno in misura significativa, oltre il suo ristretto arco vitale e gli stessi artisti che vi avevano aderito si espressero poi in altre forme, informandosi a stilemi diversi.


Delle “parole in libertà” e dei “versi liberi” dei poeti futuristi la letteratura italiana non ha conservato tracce; degli “intonarumori” e del “rumorarmonio” — strumenti inventati e costruiti da Luigi Russolo — restano soltanto sbiadite fotografie e scarne documentazioni critiche.
L’arte figurativa futurista, che pure ebbe esponenti e sortì risultati di valore assoluto, si manifestò però in forme espressive non sempre omogenee e forse spesso figlie più della evoluzione dei tempi che non del movimento stesso.
Diversa fu la situazione dell’architettura. L’apporto dei concetti fondamentali del movimento futurista incontrarono, nell’immediato, scarsa applicazione nell’ars costruendi italica — e milanese in particolare, benché a Milano il Futurismo fosse nato e avesse la sua sede naturale, — superati e sostituiti, ancor prima di trovare una realizzazione pratica, dal Razionalismo e dall’architettura di regime che ne rappresentava la strumentalizzazione estrema. Ma gli stilemi, nonché le tecniche, dell’architettura futurista furono quelle che gettarono le basi dell’architettura moderna in Italia, con effetti e derive ancor oggi avvertibili.

Va osservato come il “messaggio futurista” fosse stato scarsamente recepito dal grande pubblico. Per quanto riguarda la letteratura e la musica, gli italiani continuavano a preferire testi in cui il cuore faceva rima con amore.
Nulla a che vedere, dunque, con quanto sostenuto da Marinetti nel suo Manifesto tecnico della letteratura futurista (11 maggio 1912): « Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono. […] Usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al soggetto e lo sottoponga all’io dello scrittore… […] abolire l’aggettivo… […] sopprimere il come, il quale, il così… […] abolire anche la punteggiatura… ».
La poetica corrente era ancora legata a doppio filo al naturalismo letterario ottocentesco — già peraltro negato, fin dal 1883, da D’Annunzio — e al decadentismo gozzaniano, e le preferenze della popolazione andavano alla lettura del cosiddetto “romanzo d’appendice”, che aveva in Carolina Invernizio e in Guido da Verona i massimi rappresentanti. Il messaggio marinettiano del « facciamo coraggiosamente il brutto » non era, non sarà mai, raccolto dal fruitore medio. E, benché Marinetti stesso commentasse questa posizione negativa con « E che fortuna! », lo scarso numero di estimatori (e di aderenti) incontrato dalla poesia e dalla letteratura futurista circoscrisse il fenomeno a uno sparuto drappello di operatori isolati.


 L'Intonarumori inventato da Luigi Russolo


La musica leggera rispecchiava questi gusti: « …quando d’inverno al mio cuor si stringeva / come pioveva, così piangeva » scriveva (e cantava) Armando Gill nel 1918; E. A. Mario (l’autore della leggendaria Canzone del Piave) gli faceva eco (Vipera, 1919) con « …e quando mi divincolo ribelle a questo amore / qualcosa mi si annoda in fondo al cuore ». Quanto a Gino Franzi e al suo Scettico blu (« Cosa m’importa se il mondo mi rese glacial / se di ogni cosa nel fondo non trovo che mal ») erano figli nostalgici della ormai estinta scapigliatura più che epigoni  del Futurismo.
È interessante notare come la cosiddetta “musica colta” (quella che troppo spesso, con una locuzione del tutto priva di significato, viene popolarmente detta “musica classica”) avesse totalmente ignorato le ispirazioni futuriste e nessuno dei compositori postromantici, veristi e postveristi, di quelli definiti “di transizione” o dei “modernisti”, si fosse lasciato attrarre nell’orbita del nuovo movimento. In realtà l’unico lavoro musicale del quale si può affermare che si identificasse nelle proposizioni e negli ideali futuristi nacque più tardi e in un’area geografica estranea alle esplorazioni di Marinetti & C. La genitura dell’unica composizione che rispecchi fedelmente le filosofie futuriste va infatti assegnata all’elvetico Arthur Honegger, autore nel 1923 di Pacific 231, movimento sinfonico ispirato alla velocità, alla potenza e al fragore di una locomotiva, il cui mondo il compositore dichiarò sempre di amare « passionalmente ».
Agli albori del secolo xx alcuni musicisti, Ferruccio Busoni (autore nel 1907 del saggio Abbozzo di una nuova estetica della musica) tra i primi, avevano concepito una rivoluzione in campo musicale, ma nella realtà l’evoluzione di questo settore artistico seguì strade diverse. Atonalità e dodecafonia si sarebbero tenute lontane dai princìpi futuristi non meno della letteratura modernista.
Rimase, ugualmente estranea alle argomentazioni futuriste la gastronomia, nonostante le sollecitazioni marinettiane (nel 1931, sulla rivista “Comœdia”, lo scrittore avrebbe pubblicato perfino il Manifesto della cucina futurista) e malgrado le proposte del cuoco francese Jules Maincave , il più rilevante apostolo dell’etica culinaria  futurista, il, che suggeriva accostamenti inediti e discutibili di alimenti e sapori, nei quali è possibile identificare una prefigurazione della nouvelle cuisine, non a caso anch’essa creata da un francese, Paul Bocuse. Anche in questo caso gli italiani continuarono a preferire un tradizionale, sano piatto di pastasciutta — proprio ciò che Marinetti aveva proposto di eliminare! — e a utilizzare, per la propria alimentazione, cucchiai, coltelli e forchette, strumenti dei quali era stata pure suggerita l’abolizione.



È altresì un errore storico e ideologico ritenere il Futurismo anticipatore del Fascismo. Il movimento culturale ufficialmente fondato da Filippo Tommaso Marinetti era nato da posizioni ideologiche, discutibili finché si vuole, ma ben precise e definite. Il soggetto politico ideato e creato da Benito Mussolini era invece stato originato dalle aspirazioni autoritarie personali del futuro duce che, unendo i suoi ancora nebulosi progetti politici ai sussulti nazionalisti postbellici, aveva dato vita al movimento fascista. Se è vero che quest’ultimo aveva fatta sua una parte dei princìpi futuristi e che molti “futuristi” — un buon numero dei quali aderì poi effettivamente al fascismo — avrebbero fatto proprie alcune delle ideologie fasciste (ma alcuni, almeno inizialmente, mostrarono simpatie verso il socialismo e il neonato bolscevismo), è altrettanto vero che le dottrine mussoliniane tenevano in scarso conto l’arte e tutte le sue manifestazioni (curiosamente, però, il passatempo preferito da Mussolini era il violino) e che, in conseguenza, il connubio futurismo-fascismo fosse, e rimanga, poco credibile e soprattutto non suscettibile di sviluppi creativi positivi. È anzi vero che la scarsa comprensibilità del messaggio futurista determinò verso questo movimento l’ostilità di molti esponenti del fascismo più generalista. Probabilmente questa avversione non tanto del regime quanto di gran parte dei sostenitori del fascismo portò poi al refluire del movimento futurista verso atteggiamenti meno oltranzisti, in una sorta di rinnovamento che lo stesso Marinetti definì « secondo futurismo ».

Ora, a cento anni esatti dalla fondazione del Futurismo occorre astrarsi dagli aspetti più inconsueti della produzione del movimento e togliere definitivamente il velo consueto con cui si vuole bollare quell’esperienza come cosa di poco conto e involuta in un sé improduttivo. Il Futurismo anzi ha dato, anche involontariamente a volte, una spinta feroce verso la modernità di alcune arti, prime fra tutte la pittura, che in esso colse la scintilla per svincolarsi definitivamente dalla rappresentazione meramente figurativa.
L’intuizione marinettiana di creare nuove regole in cui ingabbiare, e anche con cui domare, l’estrinsecarsi della realtà, hanno portato a risultati inattesi in più di un campo: l’ architettura, paradossalmente, è quella che più immediatamente ha risposto alla chiamata, rigettando i dettami floreali e deco in virtù di una più immediata configurazione delle masse costruttive attraverso il movimento razionalista e le istanze di giovani architetti come Gio Ponti, Lancia, Portaluppi e Muzio, operando quindi in Milano un sostanziale residenzialismo volto al futuro.
La danza moderna è decisamente debitrice a Marinetti dell’uso di mezzi espressivi ed evocativi altri che non il corpo; la cucina internazionale moderna, dicasi e leggasi fusion,piuttosto che molecolare ha fatto propri i giochi di materie prime, consistenze, cromatismi e assonanze, prefigurate nel manifesto della cucina futurista, e la musica ha da par suo definitivamente codificato il gioco di suoni e note attraverso una sperimentazione che vede nella creazione dell’“intonarumori” di Luigi Russolo l’inizio vero e concreto della musica elettronica, laddove i Tangerine Dream e i Pink Floyd più concettuali, piuttosto che i pianoforti preparati di John Cage o di Antonio Ballista, rendono doveroso rendiconto delle intuizioni futuriste.

Se unico neo è la letteratura, va aggiunto che l’estro creativo di Marinetti e dei suoi seguaci ha avuto sempre il merito di appiccare la scintilla a un razzo pronto a volare, con metodi spesso discutibili e trovate spettacolarizzanti.
Il Futurismo ha creato una rappresentazione della realtà sicuramente diversa e più pregna di sviluppi di quanto non fosse stato fatto fino al suo apparire; il suo voler piegare tutto a stretti concetti di dinamica, contemporaneità e velocità seppur non cogliendo risultati immediati ha pur sempre lasciato semi in tutto il panorama culturale che si sarebbe di lì a lì inoltrato nelle epoche e nei tempi.
Una rappresentazione recitata in diversi atti, in diversi spazi, in diversi tempi, e con diversi personaggi, con sviluppi inattesi e una sceneggiatura sempre cangianti: una commedia; una commedia che diventa divina nella sua ricerca delle forze predominanti che stanno dietro l’essere visibile.

Ecco perché la struttura di questo libro ricalca, con timido impatto, la commedia di Dante, laddove il Paradiso ci racconta la figura femminile, il Purgatorio dipana lo sperimentalismo più acuto del Futurismo, e, infine, l’Inferno si occupa dell’artefice primo e ultimo di questa avventura: Filippo Tommaso Marinetti.
È un libro anomalo, certo, perché abbandona la logica cronologica del saggio critico, privilegiando scene cardine, momenti topici, come degli acquerelli a una esposizione — non aveva forse “impeti futuristici” anche Musorgskij?, — dove il protagonista tanto atteso entra in gioco quasi alla fine e dove il vero protagonista, Milano, entra in scena solo all’ultimo atto e s’impadronisce dell’attenzione di tutti definitivamente.
Milano è la culla del Futurismo, ma il Futurismo non ci sarebbe stato, senza la “futuristicità” di Milano, che quindi è giusto si impadronisca dell’ultima parola.
Ogliari e Bagnera — già autori di Milano liberty e Milano déco — hanno voluto, con questo Milano futurista, raccontare a modo loro un momento importante nella storia culturale della città in modo diverso, senza sottostare alle logiche  divulgative che spesso accompagnano pubblicazioni come questa.
Di saggi sul Futurismo ne verranno pubblicati parecchi, in questo anno del centenario, ma i nostri autori hanno preferito rendere omaggio a un uomo, un movimento e a una città che li ha resi possibili, con una diversa interpretazione del fenomeno, senza necessariamente citare e pontificare, senza sfoggio di nozioni e criticismi, anzi con un messaggio non tanto nascosto: la volontà di incuriosire il lettore e spingerlo a indagare da sé.
Seduti in quel caffè, all’ingresso della Galleria, sorseggiando un Campari, Bagnera e Ogliari discettano, con piglio svelto, sul perché e il percome di quella rissa appena sviluppatasi, in quel marasma di rossi, di blu, di verdi, di linee frammentate di azioni…

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