giovedì 27 febbraio 2014

Breve Historia del Carnevale Ambrosiano di Franco Fava


Milano è forse stata la prima città d'Italia ad istituire il Carnevale come oggi lo intendiamo, nel secolo XI, e più precisamente intorno agli anni in cui le redini del potere erano saldamente tenute dal famoso arcivescovo Ariberto da Intimiano.

Il Carnevale ambrosiano nel 1950 (Civica Raccolta delle Stampe Bertarelli)

 Nelle epoche viscontea e sforzesca (XIV‑XV sec.) le manifestazioni carnevalesche a Milano erano sfarzose e imponenti. La città si trasformava in una bolgia infernale, nelle strade spadroneggiavano individui senza scrupoli che indossavano maschere per il viso, confezionate con tela incerata, contro l'uso delle quali si scagliavano, con scarso successo, le autorità, nell'intento di colpire coloro che ne abusavano per compiere misfatti e ladrocini. Mentre nelle strade impazzava il Carnevale del popolo, a corte e nei palazzi patrizi si organizzavano feste e spettacoli, "gestiti da veri e propri coreografi e scenografi. Fra questi ricordiamo nientemeno che Leonardo da Vinci, chiamato a Milano dall'ambizioso Ludovico il Moro non tanto per le sue doti artistiche, bensì proprio in qualità di organizzatore di spettacoli.
Nel corso del Carnevale venivano inoltre rappresentati, nelle piazze di Milano, rozzi spettacoli teatrali burleschi,satirici, scollacciati e spesso volgari.
Dopo un periodo abbastanza buio e tribolato, seguito alla caduta di Ludovico il Moro (1499) e alla presa del potere da parte dei francesi prima e in seguito degli spagnoli, nella seconda metà del Cinquecento il Carnevale riprese vigore, soprattutto per merito di un'accademia burlesca, detta "dei Facchini della val di Blenio ", costitui­ta dal pittore e poeta Gian Paolo Lomazzo, e animata da nobili e artisti che assumevano lafoggia dei popolani della val di Blenio, i quali erano soliti "calare" a Milano a cercar lavoro come facchini e brentatori. Gli accademici avevano mutuato dai bleniesi dialetto, abiti e comporta­menti, dando vita a manifestazioni grottesche e spassosis­sime, nettamente in contrasto con quelle delle accademie letterarie tradizionali. Nacque in tal modo la ':facchinata", elemento che da allora divenne insostituibile in ogni manifestazione carnevalesca. In seguito fece la sua comparsa una seconda accademia burlesca, sulla falsariga dell'Ac­cademia della val di Blenio: la Wagnifica Badia dei Facchini del Lago Maggiore".

 
Il balcone del "giurì" della sfilata dei carri in un Carnevale milanese agli inizi del secolo scorso

Nonostante ciò il "corso mascherato" a Milano non riuscì mai ad acquisire l'importanza e la grandiosità che assunse in altre città italiane, quali Roma, Firenze e Venezia. Ricordiamo, a tal proposito, che il "corso" nei primi tempi si svolgeva lungo la stretta contrada che dal Duomo conduceva alla Porta Ticinese. Solo in seguito fu scelta la corsia di Porta Romana, ragion per cui si dovette giocoforza allargare il vicolo che la congiungeva al centro della città, che si chiamò via Velasca, dal nome del governatore spagnolo dell'epoca, Giovanni Velasco.
Contro le intemperanze carnascialesche e il tradizionale “prolungamento"del Carnevale ambrosiano (che, comunque, in realtà, come ricorda Raffaele Bagnoli, "non è un allungamento arbitrario del Carnevale comune, bensì un'inalterata osservanza della durata originale di questo, onde non siamo noi milanesi che abbiamo allungato il Carnevale, bensì gli altri che lo hanno accorciato”) si scagliò con scarsi risultati ma fiero cipiglio il santo arcivescovo cardinale Carlo Borromeo, più e più volte, minacciando addirittura torture e morte.

In periodo spagnolo, nonostante la severità delle gride governative in proposito, le quali arrivavano ad impedire di mascherarsi, di ballare nelle strade, di portare armi e bastoni, nonché di dire parolacce, i "corsi" carnevaleschi erano teatro dei più suggestivi eccessi. Dai carri (i cosiddetti “barconi”) e dai balconi venivano lanciate tra la folla uova marce o ripiene di liquidi maleodoranti, ladri e malfattori mascherati terrorizzavano la popolazione, ovunque infuriavano violente scazzottate, nel corso delle quali non raramente ci scappava il morto.
Nel Settecento venne importato dalla Francia l'uso delle "maschere‑ritratto" che, eseguite da valenti pittori, riproducevano le fattezze di personaggi famosi e non; fino a che non vennero proibite, con ordinanza governativa del 12 marzo 1749, furono strumento di disordini, imprese truffaldine ed efferati delitti.

Intorno alla metà del XVIII secolo il pittore milanese Francesco Londonio fondò, ispirandosi all’Accademia dei Facchini della Val di Blenio", la "Compagnia dei Foghetti" ' congrega di artisti bontemponi che organizzavano il corso mascherato e varie sfilate per le vie cittadine, durante le quali veniva portato a spalle dai “Foghetti" una sorta di teatrino portatile, che attraverso un ingegnoso sistema e una lanterna magica, riusciva a creare vivaci figurazioni e suggestioni, suscitando l'entusiasmo degli spettatori: insomma, Milano nel Settecento aveva già il suo cinematografo.
Tra le altre compagnie e accademie che animarono i Carnevali milanesi del XVIII e XIX secolo, meritano un ricordo, di più non è purtroppo possibile, l' "Accademia degli Spensierati" e la celeberrima “Compagnia della Teppa" (il cui nome deriva dal luogo prescelto per i loro incontri notturni, uno spalto del castello ricoperto di muschio, in lingua milanese "teppa", da cui poi il termine, che ha valicato gli angusti confini cittadini, "teppista').
Tra gli elementi curiosi che caratterizzavano i Carnevali milanesi dell'Ottocento, ricordiamo i famosi "benis de gess", confetti di gesso e i coriandoli, che però in quei tempi erano esattamente ciò che era indicato dal loro nome, autentici semi di coriandolo, tuffati nel gesso e lasciati seccare. Tra gli oggetti che venivano lanciati dai "barconi” tra la folla, una menzione particolare, se non altro per la singolarità, meritano le monete, autentiche, di corso legale, ma... roventi! Si provi un po' ad immaginare la reazione dello sprovveduto che tentava di raccoglierle.

 
Mademoiselle Troupel Louzeaux, una Miss parigina ammiratissima al Carnevalone del 1905

Nel 1870 Milano, che aveva ormai acquistato grande fama per i suoi festosi "corsi" carnevaleschi, si gemellò con Torino. Meneghino fu accolto nel capoluogo pemontese da Gianduja e insieme guidarono un festosissimo corteo fino a palazzo Carignano. Gianduja venne poi a sua volta accolto con entusiasmo a Milano nel corso di un corteo chiamato "Gran Rabadan".
Sono gli anni della "Scapigliatura", che diede, con la follia dei suoi adepti, primo fra tutti Cletto Arrighi, un suo importante contributo per mantenere vive le tradizioni carnevalesche. E anche dei cosiddetti "veglioni", organizzati senza badare a spese dalle varie associazíoní (tra le quali una menzione particolare merita la "Società degli Artisti”) oltre che nelle loro sedi ufficiali anche nei teatri cittadini, Scala, Cannobiana, Carcano, ed in locande e sale popolari.
A Milano, sempre in tema di Carnevale, si deve un altro singolare primato: quello dell'invenzione dei coriandoli di carta, che finirono col sostituire i già citati coriandoli di gesso, i quali nel tempo avevano subìto varie trasformazioni fino a diventare, in taluni casi, pericolosi proiettili, tanto che i passanti, durante i corsi mascherati, erano costretti a munirsi di ombrelli per ripararsi dai lanci indiscriminanti: "i ombrell del Sabet Grass". L'invenzione dei coriandoli di carta viene per la precisione tuttora contesa da due personaggi: Enrico Mangili, che certamente fu il padre delle stelle filanti, ispirategli dai nastri di carta del telegrafo, e l'ing.Ettore Fonderi, mancato alla veneranda età di 104 anni nel 1967.
Verso la fine del secolo il Carnevale spostò il suo centro di attrazione a Porta Genova, dove si teneva una seguitissíma fiera, che divenne, e rimase per molti anni, il punto di arrivo del tradizionale corteo di Meneghíno e Cecca.


Sfilata dei carri durante il Carnevale del 1866 (Civica Raccolta delle Stampe Bertarelli)
La storia volge al termine. Giusto il tempo di ricordare, tra le tradizioni carnevalesche che anche in anni di crisi riuscirono a sopravvivere, il "veglione dei giornalisti, a cui arrise enorme fortuna specie nei primi anni del secolo; in particolare, nel 1909, ebbe uno strepitoso successo quello che fu chiamato profeticamente "veglion menabon".

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