lunedì 7 novembre 2011

“Dove si trova la gran città di Milano?” “Sulla strada di Madrid Senor! Franco Fava

Milano, decaduta nel corso del XVI secolo al rango di semplice capoluogo di una delle tante province spagnole, lasciata in balia di governatori autoritari e dispotici. autentici tiranni incuranti delle "Nuove costituzioni" e degli "Ordini di Worms" che fissavano i limiti entro i quali avrebbero dovuto agire, i quali non lasciarono nello stato e nella città alcuna ricordanza dí sé, se non per le ridondanti “kride" emanate a getto continuo su tutte le attività di pubblico interesse, e pergli assillanti aumenti di imposte, che colpivano in modo particolare il popolo minuto e la borghesia, le uniche classi produttive della società, conobbe uno dei periodi più tristi della sua storia.

L'industria della lana, uno dei fulcri dell'economia ambrosiana, venne quasi completamente distrutta, grazie alle tasse esorbitanti di cui venne gravata: i 70 lanifici che ancora sopravvivevano alla fine del XVI secolo si ridussero a 15 nel 1640, a 5 nel 1682. Identica contrazione subirono altre industrie, fiorenti nel periodo sforzesco, quali quella della seta, delle maioliche, della tintoria, ecc.

I dazi andavano di pari passo con le tasse: la regola generale era un protezionismo esasperato che, in teoria, avrebbe dovuto valorizzare l'industria e l'artigianato locali, ma in effetti risultò la causa prima, o almeno tra le prime, del dissesto economico e del quasi totale allontanamento dal Milanese di ogni commercio di transito.

La proprietà terriera era quasi totalmente nelle mani del clero e della nobiltà, in minima parte della borghesia. L'aggravio fiscale per le proprietà non privilegiate (cioè non in mano a enti, nobili e clero) era talmente pesante che quasi tutto il reddito finiva con l'essere assorbito dalle imposte. Perciò il piccolo proprietario era costretto a vendere, contribuendo in tal modo a gonfiare incredibilmente i possessi fondiari delle famiglie nobili, degli ecclesiastici e dei luoghi pii.
Dal canto loro, i produttori di merci lussuose, orefici, ricamatori, profumieri, musicisti, architetti e pittori si costruirono enormi fortune facendo leva su quelli che erano gli ideali della classe dirigente: condurre una vita sfarzosa, investendo enormi capitali nel perfezionamento della propria immagine pubblica. Accanto a costoro si impose un nuovo ceto di avventurieri senza scrupoli, che arrivarono ad accumulare favolose ricchezze: splendenti ed effimere meteore che il più delle volte venivano travolte dalla bancarotta e lasciavano dietro di sé i segni di un'ambizione smodata (volendo in ciò gareggiare con i nobili), colossali opere edilizie, spesso non finite, o finite da altri dopo la loro oscura scomparsa. Valga per tutti l'esempio di quel Tommaso Marino genovese che, trasferitosi a Milano nel 1532, si arricchì come appaltatore di dazi e gabelle e prestando al governo spagnolo enormi somme per il finanziamento degli eserciti, sulle quali esigeva interessi ad usura.
A lui si deve la costruzione di quello che ancor oggi viene chiamato “Palazzo Marino”, attuale sede del municipio di Milano. Tommaso Marino morì, quasi centenario, dopo essere miseramente fallito, e il grandioso palazzo non fu ultimato: la fronte verso piazza della Scala (che originariamente doveva essere la parte sinistra del palazzo, mentre la fronte principale dava sull'attuale via Marino) fu completata solo nel 1890, ad opera dell'architetto Luca Beltrami. Il palazzo crebbe, si narra, sotto il peso di una maledizione, lanciatagli da un misterioso profeta, mentre fervevano i lavori di costruzione: «Congeries lapidum, multis constructa rapinis, aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet» (questa congerie di pietre, innalzata con il frutto di tante rapine, o brucerà, o andrà in rovina, o sarà rubata da un altro ladrone).

La società era  così  dominata dal ceto egemone dei nobili, comprendente sia i nobili di origine feudale, sia la nobiltà di  origine  cittadina, la  quale   poteva vantare la residenza in città fin da epoche remote, e una nobiltà più recente, creata dai Visconti e dagli Sforza con la concessione di feudi a sudditi di provata fedeltà.
All'interno della classe dei nobili andò vieppiù distinguendosi una sorta di "nobiltà maggiore", o “patriziato”, che aveva diritto a ricoprire importanti cariche pubbliche, e a cui tutti naturalmente tendevano, tentando di dimostrare la superiorità della propria origine. In proposito un responso del collegio dei Giureconsulti precisava: «Quelli soltanto si debbono ritenere patrizii, i quali traggono origine da una famiglia antica o di antica nobiltà... e inoltre se i suoi membri si sono astenutì dalla mercatura, dagli affari e da lucri sordidi di qualsiasi genere sia procurati direttamente sia per il tramite di gestori, quei lucri soltanto sono ammessi per cui si costituisce il patrimonio famigliare con atti e cose dalle quali esula ogni immoralità».

Insieme con la smodata ambizione per i titoli nobiliari, si sviluppò la morbosa passione per le genealogie: ogni grande famiglia ambiva fregiarsi di un passato illustre e di antenati famosi e, se questi non c'erano, poco male, c'era sempre la possibilità di costruirseli su misura.Si sviluppo così tutta un'industria sotterranea di falsificazioni genealogiche, che faceva affari d'oro. Si giunse così a dimostrare la discendenza dei Visconti da Desiderio, re dei longobardi (ma esiste anche una pergamena che fa risalire la genealogia di tale famiglia fino ad Adamo, dato che oltre non era concesso andare).

La boria spagnolesca, entrata in Milano quasi di soppiatto, dapprima derisa, in seguito sopportata con sufficienza, finì col contagiare irrimediabilmente le famiglie nobili ambrosiane, le quali facevano a gara nell'ostentare il fasto e il lusso più pacchiani. Le feste erano le occasioni più propizie per ostentare tutto il bagaglio dipessimo gusto e vanagloria: si allestivano cortei interminabili, ci si addobbava con monumentali assurdi costumi e si improvvisavano ridicole carnevalate condite da tornei di scherma, lotta e ballo. La carrozza era uno degli "status symbol" del successo nei giorni di festa il popolo, ghiotto di forti emozioni si assiepava lungo il corso che dal Castello portava in Duomo ad ammirare la sfilata di carrozze delle nobili famiglie che si recavano in pompa magna alla messa. In breve tempo Milano arrivò a detenere il record mondiale delle carrozze (coupé, spider, berline) in circolazione. Nel 1666 vi circolavano 115 carrozze a sei cavalli (le Rolls Royce dell'epoca), 437 a quattro cavalli, 1634 a due cavalli.

Ma il pezzo forte della vita di società era costituito dal litigio: ogni occasione era buona per comporre una bella controversia da affidare nelle mani dell'azzeccagarbugli di fiducia. La causa principale dei litigi era la “Precedenza", tipico prodotto di importazione spagnolesca: chi era meno importante, o meno nobile, doveva cedere umilmente il passo a chi era più importante, o più nobile, nelle cerimonie pubbliche, nelle funzioni religiose, doveva sedersi o camminare in posizione arretrata, e via di questo passo; questioni fanciullesche, spesso di difficile, se non impossibile soluzione, che si trascinavano per anni, se non per generazioni.

La violenza finì col sostituire sempre più frequentemente il diritto, chi sapeva e poteva farne uso otteneva deferenza e rispetto. Ogni offesa, anche la più banale, doveva essere vendicata a fil di spada. Naturalmente i best seller librari dell'epoca erano ponderosi e grotteschi manuali di cavalleria, che enumeravano tutti i casi in cui era d'uopo incrociare le spade e le modalità di svolgimento dei duelli.

Con l'andar del tempo il culto della violenza che aveva contagiato i giovani rampolli dell'aristocrazia finì col trovare il suo naturale sfogo nell'ambito di un'istituzione che proprio della violenza aveva fatto il suo credo: l'esercito. I cadetti si arruolavano, assetati di sangue e di gloria e, se molto ricchi, arrivavano ad armare essi stessi piccoli agguerriti eserciti. Le femmine nobili erano invece spesso rinchiuse a fare le monache in conventi (di cui Milano possedeva un invidiabile campionario) che frequentemente erano scuola di superficialità e di immoralità. Come non ricordare la tristemente famosa "monaca di Monza“, Marianna de Leyva, che, nata nel 1575 a palazzo Marino, fu a soli 11 anni rinchiusa nel convento delle Benedettine di S. Margherita?
In convento suor Virginia ebbe due figli, uno dei quali nacque morto, dall'amante Giampaolo Osio, il quale uccise anche una conversa che aveva scoperto la tresca.
I nobili si circondavano di servitori armati, "bravi" (da "bravos", coraggiosi), il cui compito era di esercitare la violenza per conto terzi. Il popolo, in balia delle loro angherie, si lamentava presso le autorità, i governatoti rispondevano con inascoltate gride, che finivano con l'ammuffire negli archivi degli avvocati. D'altra parte spesso erano gli stessi governatori a dare il "buon esempio".avendo un malaugurato giorno una carrozza della marchesa Novati urtato una carrozza di corte, il governatore, il terribile duca d'Ossuna d'infausta memoria, furente di sdegno, fece devastare per un mese di fila dai suoi bravi le terre della marchesa, fino a che questa non si decise a placare l'ira funesta dell'offeso con un'adeguata "offerta" in monete d'oro.

La polizia, mal organizzata e spesso corrotta, generalmente faceva molto fumo ma combinava ben poco per mantenere l'ordine pubblico. Imperversavano in campagna e in città numerose bande organizzate di briganti, che terrorizzavano contadini e viandanti. Essendo dunque le strade quasi totalmente abbandonate nelle mani dei briganti, e latitando la polizia, si autorizzavano interi villaggi ad armarsi e tener sentinelle sui campanili delle chiese. Si arrivò a concedere a tutti gli abitanti di un'intera provincia di armarsi con spingarde e tromboniper respingere gli assalti dei banditi, autentici assedi.
Le pene previste per i criminali erano severissime e venivano eseguite pubblicamente, in piazza della Vetra: arrotamento, squartamento, roghi, impiccagioni erano ghiotti spettacoli per un popolo abituato a convivere con la violenza, corazzato contro la sofferenza ed educato al gusto del macabro e della morte.

Di pari passo con la delinquenza dilagava il “pauperismo", causato dalla endemica mancanza di posti di lavoro: fini col formarsi in tutta la Lombardia una vera e propria classe di disoccupati vagabondi i più intraprendenti dei quali si davano al piccolo brigantaggio e allo “sfroso" ("sfrosatore" era chi commerciava senza autorizzazione in merci vincolate da monopolio, come sale, farina, pane e formaggio, e chi introduceva merci in città eludendo il dazio, chi esportava o importava generi proibiti e introduceva nello stato monete false); gli altri la maggioranza, si dedicavano alla mendicità.

Di tanto in tanto i vagabondi venivano radunati dalle autorità comunali in grandi locali ("recontrados”) e le congregazioni religiose di carità si davano un gran daffare con elemosine e beneficenza per acquistare meriti e riuscendo in pratica ad accontentare solo una parte minima di bisognosi, ma incoraggiando pericolosamente il fatalismo e la rassegnazione.
Di partecipazione politica, ad ogni livello, non è neppure il caso di parlare; ilpopolo si disinteressava di avvenimenti dai quali non era personalmente toccato, e dal momento che Milano viveva solo di riflesso le vicende militari e politiche della Spagna, l'indifferenza, il qualunquismo, il disimpegno erano gli atteggiamenti mentali più diffusi. Tutta la politica cittadina si riduceva a plateali, ridicole ma sanguinose, scaramucce tra fautori della Spagna e fautori della Francia (i cosiddetti "navarrini”).
La Spagna aveva conquistato uno stato ancor florido economicamente per le sue attività industriali e mercantili e per l'agricoltura all'avanguardia grazie aipreziosi lavori di canalizzazione compiuti dall'età comunale a quella sforzesca; in meno di duecento anni lo trasformò in una larva pietosa, retta da una classe egemone di redditieri privilegiati che gravava sulla popolazione delle campagne con impossibili pesi fiscali. Al termine della dominazione spagnola Milano rimaneva una città discretamente popolata (130.000 abitanti, nonostante fosse stata due volte decimata dalla pestilenza), la cui popolazione non aveva però più alcun senso dell'indipendenza; si concedeva l'unico lusso del disprezzo nei confronti dei soldati stranieri e della diffidenza nei confronti della polizia e degli esattori delle tasse, gli unici reali nemici contro i quali ingaggiare la quotidiana lotta per salvare il salvabile.
(2001 Annuario della Fondazione Milano Policroma)

Nessun commento:

Posta un commento