venerdì 22 marzo 2013

Le 5 Giornate di Milano a cura del Liceo Classico Giovanni Berchet






 Le premesse
I fatti rivoluzionari delle cinque giornate furono preceduti da alcuni momenti di tensione con le autorità austriache che è bene ricordare. Il 10 dicembre del 1846 era morto il conte Federico Confalonieri, nobile patriota milanese che era stato imprigionato nel carcere dello Spielberg. Il conte Arese aveva raccolto tra i cittadini i fondi per il funerale che si sarebbe svolto nella chiesa di San Fedele; il 30 dello stesso mese, mentre Achille Mauri aveva curato l’epigrafe da porre sulla porta della chiesa, epigrafe che fu ridotta da un funzionario imperiale al solo: "A Federico Confalonieri", senza nemmeno il titolo di conte. Il giorno del funerale la straordinaria affluenza, singolare per quei tempi, destò preoccupazione nella polizia austriaca che tuttavia si trattenne dall’intervenire. La sera stessa, però, in segno di protesta i Milanesi si astennero dall’assistere allo spettacolo della Scala. In seguito l’episodio si sarebbe ripetuto ogni volta che la cantante fosse stata austriaca, e spesso si verificarono rimostranze antiaustriache nei teatri.
L’anno seguente alla morte dell’arcivescovo tedesco Gaisruck, il popolo e la municipalità chiesero con veemenza la nomina di un prelato italiano. La notizia dell’imminente nomina del vescovo Romilli, che rappresentava il ristabilimento della tradizione di italianità del seggio vescovile ambrosiano, e del suo arrivo a Milano fissato per il 5 settembre, diffuse grande entusiasmo nel popolo, che si preparò ad accoglierlo con un monumentale apparato scenografico. I progetti dei milanesi vennero, però, drasticamente ridotti dal governo austriaco, il quale temendo che l’accoglienza del neo-arcivescovo si trasformasse in una dimostrazione politica, addusse pretesti di tipo economico. La sera del 5 settembre si decise, comunque, per festeggiare, di illuminare piazza Fontana con luci a gas.





L'illuminazione a gas eseguita nelle notti del 5 e 8
settembre 1847 in piazza Fontana, per le celebrazioni
in onore dell'arcivescovo Romilli. (Civica raccolta delle
stampe Achille Bertarelli).


In quella atmosfera d’entusiasmo, il popolo esplose in grida inneggianti a Pio IX e all’arcivescovo. Non ci furono fortunatamente contrasti con la polizia, al contrario di quello che avvenne l’8 settembre quando per il primo pontificale del Romilli, si ripeté l’illuminazione. Infatti tra l’eccitazione della folla, un gruppo di giovani intonò un coro in onore dell’arcivescovo; la polizia, intollerante, sotto la guida del commissario Bolza, intervenne rapidamente contro i cittadini usando la forza. Questo fu il pretesto per dimostrare che qualsiasi tentativo di rivolta popolare sarebbe stato duramente represso dalla polizia imperiale.
Il peggio venne quando il primo gennaio del 1848 si mise in atto lo sciopero del tabacco. Infatti verso la fine di dicembre si era svolta un’opera di propaganda a favore dell’astensione dal fumo e dal gioco del lotto, monopoli imperiali, grazie soprattutto al professore Giovanni Cantoni. Nel volantino, che egli scrisse, si dimostrava che fumando ogni milanese avrebbe contribuito a un cospicuo aumento delle finanze austriache; con lo sciopero del tabacco l’Austria avrebbe subìto di fatto delle ingenti perdite. Lo sciopero proseguì senza complicazioni per due giorni, ma il 3 gennaio un decreto imperiale minacciò gravi punizioni per i cittadini che avessero proibito ad alcuno di fumare, ignorando quasi del tutto le proteste del podestà Gabrio Casati. Lo stesso giorno fu distribuito ai soldati tedeschi un falso volantino che riportava ingiurie contro le truppe dedite all’alcool ed al fumo. Nel pomeriggio i soldati lasciati volontariamente in libertà si abbandonarono ad atti di violenza ingiustificati contro i civili, provocando numerosi morti. Quest’episodio di violenza suscitò terrore e odio nei milanesi verso il governo austriaco e aumentò le forti tensioni represse a cui il popolo avrebbe dato sfogo di lì a poco.
Dopo la violenta strage del 3 gennaio, a Milano regnava una calma sepolcrale per paura di nuove repressioni. I milanesi si astennero dalla vita pubblica rifiutandosi di andare a teatro o a balli di gala, ogni rapporto con gli austriaci fu interrotto, poiché i tentativi di protesta da parte del podestà erano stati del tutto inutili. Tuttavia il viceré bandì un proclama nel quale auspicava che si sarebbe mantenuto uno stato di quiete, al fine di evitare ogni ulteriore inasprimento dei rapporti col governo imperiale. L'episodio avvenuto a Milano ebbe ripercussioni: infatti a Pavia nei giorni 8 e 9 gennaio gli studenti scatenarono una rissa con alcuni poliziotti che fumavano sotto i portici dell'università, col risultato di due morti. Nel frattempo a Vienna si optava per una politica intransigente decisa a rafforzare il potere locale. Gli effetti di tale politica non tardarono a venire: il 22 gennaio si decretò l'arresto di Francesco Arese, Cesare Cantù, Gaspare Ordono de Rosales, Cesare Stampa Soncino e molti altri. Il 30 dello stesso mese fu proibito il transito di armi e di munizioni da guerra, mentre l'1 febbraio venne istituita la censura. A Pavia, di conseguenza, avvennero nuovi disordini e a Milano venivano arrestati l'8 sera Ignazio Prinetti e Linz Manfredi Camperio. Tuttavia non si ebbero sollevazioni popolari come non erano avvenute in seguito alle precedenti rivolte di Napoli e della Sicilia. Le costituzioni concesse dagli altri stati italiani, però, e in particolare quella concessa da Carlo Alberto, destarono nei milanesi la speranza, in caso fossero insorti, di un aiuto contro l'Austria. Si andava organizzando infatti una rivolta. La notizia dell'insurrezione a Vienna, giunta la sera del 17 marzo insieme al proclama imperiale, che aboliva la censura e indiceva un'assemblea per il 3 luglio allo scopo di evitare eventuali subbugli anche a Milano, fu il pretesto per organizzare il giorno successivo una manifestazione tutt'altro che pacifica.
Via San Damiano e chiesa di San Damiano in un dipinto di Arturo Ferrari


La prima giornata: 18 marzo
I milanesi, seguendo il piano del Correnti, avevano deciso di riunirsi la mattina davanti al Palazzo del Municipio per costringere il podestà Gabrio Casati a richiedere il passaggio del governo alla municipalità. Il vice governatore O'Donnel, rimasto solo, poiché il governatore Spaur era fuggito la notte prima, preoccupato dalla gran folla nel Broletto e consultatosi col podestà sull'opportunità o meno di far intervenire le truppe, decise di ordinare a Radetzky di tenersi a disposizione.
La folla attendeva intanto l'arrivo di Casati per accompagnarlo, volente o no, fino al Palazzo del Governo in corso Monforte. Il podestà costretto andò quindi nuovamente dal vice governatore; tuttavia la folla lo precedette e invase il palazzo. Quando Casati arrivò, insieme a Bellati e agli assessori Bellotti, Beretta, Belgioioso e Greppi, andò direttamente da O'Donnel, il quale non si capacitava della situazione. Sotto le pressanti richieste della delegazione municipale, il vice governatore firmò tre decreti in cui autorizzava la formazione di una guardia civica, stabiliva il passaggio del governo al Municipio e imponeva la restituzione delle armi della polizia alla municipalità. O'Donnel venne poi fatto prigioniero per iniziativa di Cernuschi e mentre i decreti venivano letti alla massa dei cittadini in tumulto, fu trasportato nel palazzo Vidiserti, ove si recò l'intera legazione. Il feldmaresciallo Radetzky faceva intervenire nel frattempo le truppe e dichiarando l'invalidità dei decreti estorti proclamava lo stadio d'assedio. Nelle strade avevano luogo, invece, i primi combattimenti e nei pressi della chiesa di San Damiano si costruiva quella che fu la prima barricata. Le campane della chiesa presero a suonare a martello per richiamare al combattimento, e presto tutte le campane della città suonarono con tale veemenza che alcune si ruppero. Le truppe austriache mobilitatesi occuparono subito il Duomo, dall'alto del quale sparavano i cacciatori tirolesi, Palazzo Reale e l'Arcivescovado. In parte si apprestarono anche ad assaltare il palazzo del Municipio, pensando di trovarvi la legazione; Radetzky minacciò inoltre di usare i 200 cannoni che aveva a disposizione, nel tentativo di spaventare il popolo, anche se questo ormai era travolto da un impeto irrefrenabile. Le barricate sorgevano ovunque costruite con qualsiasi cosa fosse a disposizione: carri, carrozze, mobili, barili, tappeti e perfino banchi delle chiese.
Ma occorrevano anche le armi, per questo furono messe a disposizione le collezioni dei nobili, furono svaligiati i musei, si recuperò qualsiasi arnese contundente e se ne inventarono di nuovi; dalle finestre intanto pioveva di tutto, dall'olio bollente alle tegole. Verso sera il palazzo del Municipio fu espugnato nonostante l'eroica difesa degli assediati; ma, con gran disappunto del feld-maresciallo, non fu trovata la legazione, che era invece a palazzo Vidiserti. D’altro canto furono fatti prigionieri circa duecento uomini o forse più, tra i quali il figlio del Manzoni, Filippo. Più tardi gli austriaci furono costretti a rientrare al Castello Sforzesco, loro quartier generale, a causa dell'impeto dei rivoluzionari. Al termine della prima giornata infatti, Radetzky era profondamente sorpreso dal carattere forte e unitario della rivolta, cui partecipò indistintamente ogni ceto, tanto da dire in seguito: "Il carattere di questo popolo sembra cambiato come per il tocco di una bacchetta magica".

La seconda giornata: 19 marzo
L'indomani, la domenica di San Giuseppe, Milano si presentava come una città trincerata. Le barricate sorgevano ovunque; ve n'erano alcune singolari: quella di Porta Venezia, ad esempio era fatta con i lastroni di granito dei marciapiedi, mentre quella di piazza Cordusio, la più strana, era stata costruita con i libri presi dall'Ufficio del Bollo. Gli insorti si organizzavano sempre più. Era passata parola di fare incetta di viveri e di usarli con parsimonia; nelle case venivano praticate aperture per poter creare una rete di comunicazione; il passaggio dei dispacci da una barricata all'altra fu affidato ai martinitt, (i ragazzini dell'orfanotrofio), e le donne, se non combattevano vestite da uomo, rifocillavano gli insorti e cucivano tricolori. Intanto, poiché il podestà e la legazione nella notte si erano spostati dal palazzo Vidiserti in Casa di Carlo Taverna, facilmente difendibile, Radetzky non trovandoli nuovamente ebbe un'ulteriore delusione. La situazione per gli austriaci non era delle migliori: i loro approvvigionamenti si trovavano infatti al Castello, ma essi ritenevano troppo rischioso farseli inviare, temendo che cadessero nelle mani dei ribelli.
Inoltre le barricate ostruivano le già strette vie della città, impedendo il passaggio della cavalleria. Gli scontri più accesi quel giorno, si ebbero a Porta Tosa, Porta Orientale, Porta Comasina e Porta Ticinese. I Milanesi, se da una parte fallirono nel tentativo di riprendere il Broletto e di convincere alla diserzione alcune truppe ungheresi, riuscirono a conquistare piazza Mercanti e Porta Nuova. Qui risplendette l'eroismo di Augusto Anfossi, colonnello nizzardo che si trovava a Milano per caso, il quale riuscì a vincere un gruppo di artiglieri con pochi uomini. Il feldmaresciallo, dal canto suo, minacciò di nuovo di bombardare la città; avvenne, perciò, che i consoli stranieri residenti a Milano scrissero una nota a Radetzky perché si astenesse da un atto di tale disumanità. La petizione fu firmata dai consoli di Francia, d'Inghilterra, di Sardegna, dello Stato Pontificio e della Svizzera, ma non servì a molto. Al calar della notte si verificò inoltre un'eclissi di Luna che incuté brutti presagi.

Cortile di Palazzo Vidiserti, via Bigli 10 foto di Nicolò Panzeri
Scena dall 5 giornate di Milano, Litografia d'epoca da sogg. di F. Adams


La terza giornata: 20 marzo
Il lunedì seguente, invece, fu una giornata positiva per i ribelli: le truppe imperiali abbandonavano il centro di Milano: il Duomo, Palazzo Reale, il Broletto, la Direzione di Polizia. Finalmente anche le campane del Duomo poterono suonare e, grazie alla temerarietà di Luigi Torelli, sulla Madonnina sventolò il tricolore che infuse nuovo coraggio nei cittadini. L'occupazione della Direzione di Polizia permise la liberazione di molti prigionieri e l'arresto dell'odiato commissario Bolza a cui Cattaneo salvò la vita dicendo: "Se lo uccidete fate cosa giusta se lo risparmiate fate cosa santa". Mentre per le strade avvenivano questi fatti, in casa Taverna si presero importanti decisioni. La mattina si era costituito un Comitato di Guerra formato da Carlo Cattaneo, Enrico Cernuschi, Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici; ed erano stati nominati dei collaboratori municipali. Verso mezzogiorno fu catturato sulle barricate il maggior Ettinghausen in circostanze non chiare: alcuni ricordano che, preso prigioniero, finse di aver una proposta d'armistizio da sottoporre ai capi dell'insurrezione, altri affermano che egli fosse stato realmente mandato da Radetzky per offrire la possibilità di una tregua. Fatto sta che, dopo esser stato bendato, portato a casa Taverna, dapprima discusse l'armistizio solo col podestà. Casati si dichiarò favorevole a patto che venissero accettate delle condizioni, tuttavia preferì consultarsi con gli capi. Entrarono quindi Cattaneo, Torelli, Borromeo, Correnti, Bonfadini e altri, che non riuscivano a mettersi d'accordo sull'opportunità di accettare o meno, quando giunse la notizia dell'eccidio compiuto da soldati tedeschi nella chiesa di San Bartolomeo; allora risolsero di non accettare e il podestà se ne dolse. Al maresciallo che chiedeva una risposta il conte Borromeo disse: " I patrizi milanesi sono pronti a morire sotto le rovine dei loro palazzi". Si racconta poi che il maresciallo, aspettando di essere bendato per venir condotto fuori dalla città, poiché fu lasciato libero di vedere come combattessero i milanesi, rispose: "Addio brava e valorosa gente". Il popolo bisogna dire che fu felicissimo del rifiuto: ormai non sarebbe più stato possibile allontanarlo dalle barricate. Più tardi il Municipio assunse di fatto il governo della città. Quello stesso giorno Radetzky inviò una lettera ai consoli stranieri dicendo che se volevano fare qualcosa per i ribelli potevano assumersi il compito di mediatori in favore di una tregua di tre giorni; i consoli l'avrebbero proposta il 21 marzo. Era stata rifiutata così una prima tregua ma ne sarebbe stata rifiutata un'altra il giorno dopo?

Le 5 giornate di Milano, olio su tela del pittore garibaldino Angelo Trezzini (Milano 1827 - 1904)


La quarta giornata: 21 marzo
La situazione volgeva al peggio per gli austriaci che erano stati scacciati al di fuori della cerchia dei navigli tranne che per alcuni capisaldi, fra i quali il Palazzo del Genio. Contro di questi si diresse l'azione degli insorti. Intanto nel mattino, in casa Taverna, ci fu un tentativo prima privato da parte del barone Hubner in favore di un'interruzione dello scontro armato; in seguito i consoli in qualità di mediatori presentarono la proposta di tre giorni di tregua a condizioni, però, che parvero svantaggiose per i milanesi. Ebbene, entrambe le offerte furono rifiutate dopo aver sentito non solo il parere dei capi della rivolta ma anche dei combattenti, decisamente contrari. A mezzogiorno, a portare buone notizie fu invece il conte Martini che, inviato dal re Carlo Alberto per chiedere aiuto, riferì del sicuro intervento del re, a patto però che si fosse dichiarato il Governo Provvisorio. Dopo molte incertezze si accettò questa soluzione e insieme al Governo Provvisorio, di cui fu nominato presidente Casati e segretario Correnti, si istituirono: il Comitato di Vigilanza, il Comitato di Finanza, il Comitato di Sussistenza, il Comitato di Difesa e la Guardia Civica, il cui comando fu affidato a Pompeo Litta.
I membri del Governo erano: Luigi Anelli, Antonio Beretta, Vitalino Borromeo, Azzo Carbonera, Gabrio Casati, Cesare Correnti, Antonio Dossi, Giuseppe Durini, Giulini della Porta, Annibale Grasselli, Marco Greppi, Anselmo Guerrieri, Pompeo Litta, Pietro Moroni, Alessandro Porro, Francesco Rezzonico, Gaetano Strigelli e Girolamo Turroni.
Tornando a seguire i fatti che avvenivano nel resto della città, ritroviamo gli insorti vincitori. L'assalto al Palazzo del Genio infatti, se pur con gravi perdite, morì anche Augusto Anfossi, portò alla cattura di 160 soldati tedeschi. Parte del merito va però a Pasquale Sottocorno , che, senza curarsi delle fucilate, zoppicando (era storpio), uscì allo scoperto per andare a incendiare il palazzo. Si fece onore anche Luciano Manara che sostituì Anfossi. Più tardi la caserma di San Simpliciano, il collegio di San Luca e l'ufficio di polizia a San Simone passarono nelle mani dei cittadini; e mentre Radetzky, ormai a corto di viveri, meditava la ritirata, si intensificavano i lanci di palloni aerostatici per informare le campagne e spingerle alla rivolta. Il feldmaresciallo si vedeva infatti costretto a preparare un piano per la ritirata; aveva deciso di abbandonare la città uscendo da Porta Romana, ma per far ciò era necessario, in primo luogo, abbattere gli edifici intorno alla Porta perché non vi si annidassero i milanesi, pronti ad ostacolarlo; e in seguito, tenere le Porte sud-orientali, in particolare Porta Tosa, per coprirsi la ritirata. Tuttavia Porta Tosa fu scelta anche dai ribelli come punto da forzare per poter comunicare con le campagne, e sia il feldmaresciallo che gli insorti avevano stabilito di agire il giorno successivo.



La cacciata degli Austriaci a Porta Tosa (Tempera di C. Bossoli – Stampa dell’epoca)
 

L'ultima giornata: 22 marzo
L'assalto a Porta Tosa fu durissimo e si protrasse per tutta la giornata, poiché ribelli e austriaci avevano schierato tutte le forze disponibili. A un certo punto sembrò perfino che gli insorti stessero per cedere, ma l'impeto e il coraggio di Manara rianimarono il combattimento. Egli riuscì infatti a dare fuoco alla Porta, da cui poterono entrare i contadini, anche se, dopo poche ore, le truppe tedesche se ne impadronirono di nuovo, tenendola fino a che non fosse completata l'uscita dell'esercito dalla città, il che avvenne verso mezzanotte. Durante il giorno invece, mentre parte delle truppe difendeva Porta Tosa, l'artiglieria attaccava dal Castello con un bombardamento durato sei ore, così che i milanesi vennero effettivamente impegnati su due fronti. Con l'aiuto dei contadini che a poco a poco riuscivano a entrare, si impadronirono però dapprima di Porta Comasina, poi seguirono Porta Nuova, Porta Orientale, e infine, quando gli austriaci si furono ritirati, a mezzanotte circa, come si è già detto, presero Porta Tosa e Porta Romana. All'alba i cittadini poterono constatare che il nemico aveva abbandonato Milano e la città era finalmente libera.
Per ricordare la vittoria di Porta Tosa in seguito fu ribattezzata la porta stessa, Porta Vittoria per l'appunto, e si indisse un concorso per il progetto del monumento celebrativo ai caduti che sarebbe sorto in luogo della porta. Tale concorso fu vinto da Giuseppe Grandi, a cui si deve l'obelisco, tuttora esistente, che simboleggia lo sforzo di un popolo per la libertà. Per celebrare i combattenti però non si fece solo questo: se ci si sofferma sulla toponomastica delle vie intorno, si possono ritrovare tutti i nomi dei valorosi patrioti che presero parte alla cacciata dello straniero.

Stampa popolare che raffigura un episodio delle 5 giornate


giovedì 21 marzo 2013

L' “Esposizione Internazionale” del 1906 di Roberto Bagnera

Pubblicazione omaggio della Liebig con la pianta dell'Esposizione


La Mappa dell'EXPO 1906


Questa manifestazione puo’ essere considerata, a buon titolo, la vera progenitrice della Fiera Campionaria di Milano, una specie di sontuosa  “prova generale”, cui daremo in questa trattazione ampio spazio
 Essa si svolse in occasione dell’apertura del Traforo del Sempione, in un periodo ricco di entusiasmo e di novità.
         La spesa per questo evento fu sei volte più grande di quella per le precedenti esposizioni. Se, infatti, nel 1881 e nel 1894 non si raggiunsero i due milioni, nel 1906 si superarono i dodici milioni di lire.
         Parteciparono espositori da tutte le parti del mondo, a ribadire l’internazionalità della manifestazione, in numero di circa trentacinquemila; i visitatori furono calcolati essere circa cinque milioni e mezzo.
         La manifestazione rimase aperta per sei mesi, a partire dal 28 aprile fino ai primi di novembre di quell’anno, occupando un’area di circa un milione di metri quadrati, comprendente il Parco e l’area della ex Piazza d’Armi (futura area della Fiera di Milano), che erano collegati in maniera arditissima per l’epoca, come vedremo tra poco. All’incirca un terzo della superficie era coperto dalle costruzioni: si trattava di numerosi padiglioni, progettati da illustri architetti dell’epoca, alcuni dei quali sono arrivati fino ai nostri tempi.
         Vediamone la storia: nel 1901 la Lega Navale e l’associazione Lombarda dei Giornalisti proposero una grande mostra dedicata ai mezzi di trasporto acquatici. Qualche tempo dopo si fece strada l’idea di associare la manifestazione alla ormai prossima inaugurazione del Traforo del Sempione, onde darle maggiore visibilità. Questo portò a rivederne i contenuti, per cui si rese necessario ampliare il campo a tutti gli aspetti del lavoro e si rivelò utile, onde ottenerne la maggiore pubblicizzazione possibile, estenderla a tutte le nazioni del mondo.



         La partecipazione, come detto, superò le più rosee previsioni: non fu neppure possibile accogliere tutte le richieste di partecipazione alla esposizione, e in alcune sezioni si fu persino costretti a respingere addirittura  i quattro quinti delle richieste!          Le nazioni presenti all’evento, alla fine, furono quaranta; gli edifici costruiti appositamente per esso furono 225; tutto insomma contribuì al rilancio della economia milanese e lombarda.
         Le sezioni definitivamente scelte furono : Arte decorativa; Belle arti; Galleria del lavoro per le arti industriali; Trasporti terrestri, Aeronautica, Meteorologia; Trasporti Marittimi e Fluviali; Mostre retrospettive dei trasporti; Previdenza; Igiene Pubblica; Agraria; Piscicoltura.

         Va inoltre rilevato che, per l’occasione, fu realizzata una ferrovia elettrica sopraelevata di sette metri dal suolo, la prima a quell’epoca, che collegava l’area del Parco Sempione attuale con l’area dell’ex Piazza d’Armi (area della Fiera Campionaria cittadina dal 1923 fino ai giorni nostri) scavalcando lo Scalo Sempione che si trovava nel mezzo (e che comprendeva l’area tra le vie Ferruccio, Nievo, Panzini, Pallavicino dei nostri tempi). Purtroppo questa futuristica costruzione fu smontata al termine della Esposizione.
         Vale la pena, infine, spendere due parole per l’organizzazione dell’evento, che fu estremamente curata. Tra gli organizzatori furono l’architetto Luigi Broggi (1851-1926), uno dei maggiori professionisti dell’epoca, che, come abbiamo visto, aveva già attivamente partecipato alle precedenti esposizioni milanesi, unitamente all’ingegnere Evaristo Stefini (1868-1935), noto per aver proposto, nel 1909, il Quartiere Industriale Nord Milano, una “città lineare”, con edifici residenziali e industriali, sviluppata lungo un asse largo sessanta metri (gli attuali viali Zara e Testi). Presidente della Esposizione fu il senatore Cesare Mangili (1850-1917), consigliere della Banca Commerciale Italiana, di cui fu poi presidente dal 1907 al 1916.

I reali si recano all'inaugurazione dell'Esposizione; il corteo mentre passa innanzi alla Galleria VIttorio Emanuele

         Realizzazioni importanti  su tutta l’area espositiva furono l’impianto di acqua potabile e la fognatura, oltre naturalmente alle strade di accesso; Si allestirono  la rete telefonica e così pure quella elettrica, venne infine completamente piantumata l’area della Piazza d’Armi.
         I numerosi padiglioni vennero realizzati in materiali diversi: taluni in legno (tra cui la sezione di Architettura e delle Arti decorative italiane, distrutta da un incendio assieme ai cimeli della Fabbrica del Duomo in essa custoditi), altri in pietra (tra i quali l’Acquario, come detto l’unico padiglione a sopravvivere alla manifestazione e che venne poi donato alla municipalità « a ricordo dell’evento ») altri infine in ferro (quale, ad esempio, la Galleria del Lavoro).
         La sistemazione generale del Parco fu affidata all’architetto Sebastiano Giuseppe Locati, nato a Pavia nel 1861 (dove sarebbe morto nel 1939), che fu l’autore, unitamente a Orsino Bongi (che nel 1914 avrebbe progettato la Galleria Warowland delle Terme di Salsomaggiore), del progetto che vinse il concorso indetto nel 1903 e il progettista del citato Acquario. Questo edificio, progettato  in stile liberty viennese, venne costruito usando il cemento come elemento decorativo, tecnica estremamente innovativa per l’epoca. Le decorazioni vennero realizzate dall’impresa costruttrice Chini, dallo scultore Oreste Labò e dalla ditta Richard-Ginori, specificamente per quanto concerne le piastrelle ceramiche decorate e smaltate.
         La grande testa dell’ippopotamo, dalle cui fauci escono zampilli d’acqua, nella fontana sita all’ingresso, è opera di Giovanni Chini, celebre per la lavorazione delle pietre artificiali e autore, tra l’altro, anche della Stazione Ferroviaria Centrale di Milano; la statua sulla facciata opposta, quella del Nettuno, è opera di Oreste Labò.
         La realizzazione di piazza d’Armi invece fu curata dall’architetto Giuseppe Sommaruga, di cui abbiamo già detto in precedenza, coadiuvato dagli ingegneri Cesare Bianchi, Francesco Magnani e Mario Rondoni, anch’essi autori di un progetto premiato al concorso del 1903. 
Le dighe mobili automatiche dell'Ing. Francesco Camagni

         L’Esposizione internazionale del 1906 viene universalmente considerata come il momento di verifica ed affermazione in Milano dello stile Liberty che in questa occasione  trova i tempi ed i luoghi per la definitiva consacrazione, uniformando le architetture dei padiglioni in un trionfo del floreale, delle curve a colpo di frusta, dell’impiego ancora più sperimentale ed azzardato di quanto mai fatto prima di allora  di materiali e soluzioni architettoniche “futuristiche”.
I primi anni del secolo XX° vedevano a Milano anche la nascita di un nuovo fervore di interessi legati al mondo allora misterioso e magico dei trasporti; l’argomento che più faceva discutere e che più infiammava i discorsi nei salotti bene della città era senza dubbio quell’opera ciclopica che fu il Traforo del Sempione.
Non pareva possibile a quei tempi che un lavoro così ardito potesse essere portato a compimento e il solo fatto che questo venisse tentato dava adito ad una serie di dibattiti e scontri verbali sul progresso, sulle vie di comunicazione ed i mezzi di trasporto, ma ben presto non ci si volle più accontentare della pura disquisizione ma si volle impostare un discorso più tecnico e puntuale.
E’ in questo contesto che in seno alla Lega Navale Italiana, che nel 1901 aveva ancora la sua sede in città, si manifesta il progetto di tenere a Milano un’esposizione internazionale di mezzi di trasporto, l’Associazione Lombarda dei Giornalisti diede fin da subito all’idea il conforto del suo valido appoggio.
 L’Esposizione progettata avrebbe dovuto limitarsi come già detto, ad una mostra di mezzi di trasporto per via d’acqua ed aver luogo nel 1904.
Ma appunto allora lo stato dei lavori per il traforo del Sempione dava affidamento che il tunnel potesse essere completato per l’epoca indicata per l’esposizione, quindi l’idea si allargò a comprendere il mondo dei trasporti in generale e, per arricchire la mostra di nuove attrattive fu architettata la Mostra delle Belle Arti.
La Manifestazione si sarebbe articolata in dieci sezioni:
  1 Trasporti terrestri
  2 Aeronautica e Metrologia
  3 Trasporti marittimi e fluviali
  4 Previdenza
  5 Arte Decorativa
  6 Galleria del lavoro per le arti industriali
  7 Mostre prospettive dei trasporti
  8 Piscicultura
  9 Agraria
10 Belle Arti


Una volta stabilita una linea di base per il programma, restava da decidere il luogo dove si sarebbe tenuta l’Esposizione e la scelta, dopo diverse controversie di carattere politico e logistico, ricadde sul Parco e sulla Piazza d’Armi, quando si trattò di occupare quest’ultima con gli edifici della mostra si dovette pensare a risolvere il problema di conferire un aspetto ameno a quel vasto piazzale nudo e brullo.
Si stabilì di trasportarvi le piante del parco che si dovevano sradicare per fare spazio alle costruzioni del primo reparto espositivo.
Furono utilizzati grandi carri dalla forma particolare per trasportare le piante con tutte le radici e la massa di terra per reimpiantarle in modo che, l’anno seguente, una volta che gli alberi avessero rimesso le fronde, compiute le aiuole, formati i tappeti verdi, distribuiti i cespugli, diramati i rivoli d’acqua e le cascatelle ornamentali, i palazzi dell’effimera città sarebbero sorti fantastici in mezzo ad un prezioso giardino comparso quasi per incanto.


Nel contempo i ritardi nel lavoro di scavo al Sempione spostarono il momento dell’inaugurazione all’aprile dell’anno 1906, parteciparono all’esposizione ben 24 nazioni: Austria, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Principato di Monaco, Portogallo, Turchia, Giappone, Cina, Bulgaria, Canada, Cile, Guatemala, Marocco, Persia, Perù, Santo Domingo, Stati Uniti d’America, Cuba, Uruguay e Ungheria.
Per tener desta l’attenzione di un più folto pubblico, poiché si dubitava che una mostra dedicata a tecnici avrebbe raccolto molti consensi, fu deciso di creare alcuni momenti di evasione diciamo così, più turistiche, buon esempio ne è il concorso che fu bandito per costruire una nave a grandezza naturale, la realizzazione del piroscafo fu affidata alla ditta Piaggio di Sestri Ponente, avrebbe dovuto galleggiare nell’Arena a tal proposito allagata ma, inconvenienti tecnici sconsigliarono la pur suggestiva attuazione del progetto.
Nel largo piazzale del parco è situato il centro dei divertimenti. Di fronte alla facciata interna delle mostre retrospettive si erige un’altissima colonna sulla quale poggia un emisfero fatto con cerchi di ferro, alla base un canale d’acqua azzurra corre intorno al grande padiglione.
Elegantissime barchette trasportano i viaggiatori lungo il canale che si svolge per 500 metri in un labirinto di grotte di tufo e di scisti, illuminate a colori da lampadine disseminate qua e là e nascoste tra i crepacci e le spaccature delle rocce vive.

Lentamente ci si inoltra ed ecco affacciarsi l’incantevole panorama di Gibilterra, opera del Rovescalli, o quello di Londra dello scultore Rescaldoni,, resi in modo perfetto e quasi movimentati.
Quando la barca passa davanti ai fiordi norvegesi si sente venire incontro un’ala di vento, fresca prima, poi più fredda, fino a che l’acqua corrente trascina fino ad una svolta dove sulla roccia troviamo dipinto l’eterno crepuscolo polare.
Quando la barca termina il suo viaggio, circa 15 minuti di durata, ecco un’immensa distesa di ghiacciai, una capanna da esploratori ed un piroscafo incagliato tra i ghiacci: la precisa ricostruzione del punto in cui giunse il Duca d’Abbruzzi.
Un altro tipo di giostra che piacque molto fu quello definito “l’aeroplano2, si trattava di un gigantesco ombrello con la cupola a quasi 30 metri dal suolo, l’armatura era di ferro e dieci enormi braccia che tenevano sospese delle strutture a forma di battello con elica, si dipartivano, spingendosi nel vuoto, dall’asse centrale. Al fischio di una sirena l’ombrello gigantesco girava su se stesso, le navicelle si muovono, salendo lentamente sopra la piattaforma dell’edificio circolare, mano a mano cresce la velocità finchè un rintocco di campana annuncia la fine della corsa.
Ma le curiosità dell’esposizione non finiscono qui, a parte la struttura degli edifici, tutti di un vago gusto secessionista, orientaleggiante, spinto agli estremi più arditi dello sperimentalismo non solo architettonico e difficilmente ascrivibili perfino al vasto termine dell’accezione Liberty, oggi ne resta testimonianza ed esempio con l’edificio, dell’architetto Sebastiano Locati, unica vestigia rimasta dell’Esposizione, in via Gadio che attualmente ospita il Civico Acquario e che all’epoca accolse la mostra di piscicoltura.
Costruito in cemento armato, finemente decorato in ceramica e ravvivato, nelle sue linee essenzialmente semplici, da una statua del dio Nettuno e da decorazioni che molto opportunamente ne ricordano la destinazione.
Un altro edificio assai singolare fu il padiglione dell’Eternit, questo è il nome che spiccava sulla fronte dell’edificio il cui elegante, e un po’ bizzarro, profilo richiamava subito l’attenzione di chi scendeva dalla stazione di Piazza d’Armi, dalla ferrovia elevata che univa le due sezioni dell’esposizione.
La costruzione più che essere destinata ad una mostra era una mostra essa stessa poiché era tutta costruita con un nuovo materiale: l’Eternit appunto, si tratta di una pietra artificiale composta di amianto e cemento Portland che si adatta ad un’infinità di soluzioni. L’edificio modello era opera degli architetti milanesi Arcangelo Speranza e Mauri Carlo, autori fra l’altro anche del bellissimo padiglione degli orafi al Parco.


Automat: una parola che allora assumeva un connotato quasi magico, era il nome di un padiglione sito sul Monte Tordo al Parco, si trattava di un ristoratore automatico, di elegante e simpatico aspetto e…smontabile.
Interessante l’organismo di distributori automatici, i serbatoi di cristallo, racchiusi in camere refrigerate, i ricevitori delle monete che registrano automaticamente anche il numero dei servizi, il distributore-miscelatore alla cassa. Erano tutte macchine che naturalmente all’ammirevole semplicità univano una robustezza straordinaria.
Curiosissimo il servizio dei piatti caldi: un ingegnoso apparato elettrico avvisa il cuoco del piatto ordinato dall’ignoto e silenzioso cliente.
Il pubblico accorso dapprima all’Automat come un divertimento, vi trovò anche il risparmio e la comodità, in un solo giorno il reparto sandwich giunse a distribuire in meno di due ore 2500 pezzi.
Concludiamo questa breve e immaginaria passeggiata fra i viali dell’esposizione citando il padiglione che allora registrò la più vasta affluenza di pubblico: IL Cairo.
Ebbene l’Esposizione compì anche questo miracolo, di portare il Cairo a Milano, Non si trattava di un panorama pittorico ad illusione ottica, né di cinematografo, o di una qualsiasi rappresentazione bensì di una riproduzione autentica, sebbene di proporzioni ridotte.
La via del Cairo non è stata soltanto una delle più brillanti sezioni dell’esposizione, ne fu una delle meraviglie, tanto fedele ed elegante, e signorile, fu la riproduzione dell’architetto Galetti del caratteristico ambiente orientale, di quel paese dei sogni e degli incanti.
Era un indescrivibile brulichio multiforme di vita ciò che si andava svolgendo in quel recinto dalle mura e torri in stile arabo-moresco di ben 4800 metri quadri.
Passato, col permesso del gigantesco negro, così ci dicono le cronache dell’epoca, che controlla il biglietto, il cancello d’ingresso, eccoci al tempio –Egiziano, riproduzione in puro stile che rappresenta un tempio-tomba dei Faraoni, ed ha l’aria anche di racchiuderne i tesori: broccati e vasi antichi.
A due passi da lì una nenia monotona richiama la nostra attenzione: sono una dozzina di bambini arabi accovacciati in mezzo ad una strada che ripetono una monotona litania.
Più oltre ecco una stazione di cavalcature: per chi vuole godersi una corsa sono a disposizione cammelli ed asini coi relativi cammellieri o asinai in fez o in turbante e camicione scuro o bianco.
Di qua e di là le viuzze anguste e tortuose a zig zag sono fiancheggiate da casette con piccole porte, minuscole finestre a fitte inferriate: là è l’impenetrabile e silenziosa dimora dell’ Arabo.Ad ogni tratto graziosi portali moreschi, dappertutto negozi-bazaar, da ognuno di questi negozi si affacciano fez e turbanti, graziosi profili birichini dalle trecce brune, vi si chiama, vi si invita, vi si mostrano campioni e specialità, vi si offre l’oggetto ricordo.
Ci fermiamo al Caffè Turco per sorbire una tazza di vero Moka, avendo cura di lasciare a uno dei sonnolenti camerieri turchi tutto il tempo necessario per alzarsi dallo sgabello e trascinarsi con molta flemma a noi.
Alcuni Turchi, per le strade, armati di Scimitarra e scudo, per qualche soldo danno lo spettacolo di un combattimento al suono di tamburi e pifferi.
Più in là ecco un recesso silenzioso, che nasconde il più attraente e geloso dei misteri orientali: l’Harem.
Qui con pochi soldi la “porta del sacro penetrale” ci si apre dinnanzi  e possiamo vedere nel lussuoso salotto, mollemente abbandonata sui cuscini, la moglie del Pascià che, con le compagne odalische, è vigilata da un colossale eunuco.


Un’altra casa seducente con l’onda di suoni dolci e smorzati di cui giunge un’eco, un’altra porta che si apre, ecco la sala selle dame egiziane, qui l’orchestra è di mandolini e chitarre dallo stridulo timbro: a quel suono elegiaco e carezzevole una bella fanciulla dagli occhi neri, dalle molli movenze, avanza al proscenio ed esegue la famosissima danza del ventre.
Non resta ora che fare la conoscenza con il villaggio Nubiano: ecco le capanne di creta, foggiate a cono, disposte in ordine sparso, c’è tutta una tribù. Qui le scuderie per i quadrupedi, là il forno della comunità, piantato solidamente su tronchi di palmizio vivo, nel centro del villaggio ecco una specie di palcoscenico ove ogni tanto un tam tam di tamburi chiama a raccolta uomini donne e ragazzini, tutti adorni di arabeschi, ciondoli e conchiglie, che nel movimento ritmico di una danza antica danno un bizzarro suono di nacchere.
Chiudiamo la visita al Cairo, ed all’esposizioni fermandoci a sorseggiare qualcosa al “Grand Café Restaurant du Caire”.
Statua prospicente il Padiglione dell'Arte Decorativa Francese

Al di là del risultato economico della manifestazione e del gradimento espresso dai milanesi va detto che l’evento fu curato in ogni dettaglio: per esempio, per deciderne il manifesto pubblicitario, la Casa Ricordi indisse, nel 1905, un concorso tra i propri illustratori: Marcello Dudovich, Adolf Hohenstein, Leopoldo Metlicovitz e Giovanni Mataloni. I lavori furono tutti premiati, ma vennero usati in modo differente (il cartellone ufficiale di Metlicovitz, la cartolina postale di Mataloni, il logo di Hohenstein, sconosciuto è invece il disegno di Dudovich) e in tempi diversi, perché, « allo scopo di evitare una réclame uniforme, antipatica e troppo commerciale, l’ufficio di pubblicità ebbe cura che il medesimo articolo non uscisse contemporaneamente sui giornali della stessa città, e, possibilmente, della stessa regione ».
         Furono stampati il catalogo e numerosissime cartoline illustrative dell’area e pubblicitarie dell’evento, delle manifestazioni collaterali e dei singoli padiglioni; vennero coniate medaglie e gettoni commemorativi, furono disegnati loghi, francobolli e adesivi e altro ancora.
         Ci è piaciuto dilungarci, a costo anche di ripetizioni, in altri ambiti oziose, su questo brillante  frammento di storia cittadina, ad un secolo intero ormai compiuto dal suo accadimento, per l’importanza che esso rappresentò  nel futuro svolgersi delle conquiste tecniche, artistiche ed architettoniche; lo stile Liberty che cominciava a farla da padrone nelle architetture cittadine vi trovò una insperata e prolifica vetrina che ne decretò la definitiva consacrazione, la cartellonistica d’arte e la grafica iniziarono qui il lungo viaggio che avrebbe portato da una parte alla nascita della scienza pubblicitaria e dall’altra a porgere gli stili e le forme d’arte ad un pubblico eterogeneo che certamente non avrebbe mai frequentato le gallerie specializzate.
         Il mondo del commercio sperimentava le proprie capacità di uscire dallo stretto ambito locale e nazionale, verificando le proprie forze e la propulsione delle proprie idee, l’industria scopriva una forma proficua di  lancio delle proprie attività con la possibilità di testare in tempo reale il gradimento dei nuovi prodotti.

         Nasce in questa occasione la Milano moderna intraprendente e vincente che per tutto il XX° Secolo impronterà di sé il mondo produttivo nazionale, ma è altrettanto vero che in quello scorcio di secolo la vita era ancora semplicemente ancorata ad un passato più a misura d’uomo, la città, già proteiforme comunque, era ancora un paesone allargato e forse per questo l’Esposizione del 1906 colse nel segno tutti i suoi obbiettivi, né vale citare quanti criticamente ricordano il “gigantismo da varietà” o la disunità stilistica dell’allestimento perché il ragionamento critico appare veramente fuori luogo riferito ad una manifestazione che della molteplicità di intenti aveva fatto ragion di scelta.

Non vale la disanima dell’evento il rigore scientifico che si applica alle moderne esposizioni, il taglio stilistico era ancora da nascere, l’uniformità era un termine decisamente pericoloso e poi ogni visitatore, fosse un privato o un addetto settoriale, come oggi piace definire , ebbe il proprio personale percorso, ebbe la luce di veder stimolato il proprio sense of Wonder, componente fondamentale per una riuscita manifestazione, ebbe l’invidiabile opportunità di vedere la nascita di un mondo e di scoprirne molteplici altri in fieri, ebbe l’incoercibile certezza che di lì in poi le barriere della cultura della conoscenza, dell’arte, dell’informazione, del progresso si sarebbero infrante, che le camere stagne create da un’ignoranza storica e forse atavica  sarebbero definitivamente state chiuse.
Il Milanese che si recava in Piazza d’Armi, tutto lustrato e in ghingheri, come alla sagra di paese, che altro non era per molti versi l’Esposizione, trovava risposta concreta al suo desiderio di conoscenza e divertimento e innumerevoli proposte per dare una svolta al proprio destino, tutto il nuovo e l’ignoto si disvelavano come in un incanto allargandone la visuale e nel contempo rinforzandolo nelle decisioni e nelle impostazioni di vita.

Questo e non altro il vero centro del bersaglio guadagnato dall’esposizione di Milano, piuttosto che quella di Torino o di altre città che in quegli anni proliferavano, questo il leit motif che avrebbe poi congiunto le varie edizioni della Campionaria propriamente detta, il consenso popolare riconosciuto alla manifestazione portava con sé la realizzazione degli obbiettivi, la riuscita commerciale delle proprie imprese e l’affermazione economica che di riflesso si accompagnava era premio accessorio e gratificante al di là di quanto non avvenga oggi.
         La definitiva chiusura della Campionaria, o Grande Fiera d’Aprile, mise fine ad una proprietà comune del singolo Milanese che le settoriali tanto di moda oggi non hanno mai saputo sostituire, lasciando il campo ad un vuoto bruciante (...)
(Le immagini di questo articolo sono tratte dall'archivio di Claudio Romeo e Ampelio Vimercati)