domenica 15 dicembre 2024

Il giorno dell' Immacolata del 1942 di Sergio Gobbi e Renato Marelli

 

Il padiglione Trento ricostruito nel 1946, Venne intitolato ad Angelo Rizzoli grazie al contributo offerto


Storia di un bombardamento su Milano vissuto e raccontato da Sergio Gobbi un Martinin classe 1931.

Sergio Gobbi ha scritto una sua memoria intitolata "8 anni da Martinin 1940-1948". Avrebbe voluto pubblicarla, ma non aveva i mezzi per farlo. Qualche anno fa Sergio ci ha lasciati. Rimangono comunque di lui queste testimonianze preziose non solo per noi, ma anche per la storia di quel periodo.

Le foto che corredano questo scritto sono riferite però all'anno 1943 e ci vengono concesse dall'Archivio del Museo Martinitt e Stelline nella persona di Renato Marelli

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08 DICEMBRE. L’IMMACOLATA DEL 42’

Con l’autunno qua a Milano è arrivato in Istituto, reduce da Barlassina, anche mio fratello Carluccio, è il più piccolo del collegio e perciò lo chiamano Zemirio. Lui fa la prima elementare e io la prima media, Scuola del libro in Umanitaria.

Una scuola che a noi Martinitt piace molto, si studia più o meno come nelle altre scuole, però ogni settimana si cambia mestiere: composizione, impressione piana, litografia e legatoria.

Non salto un’ora di laboratorio, in compenso ne perdo qualcuna in altre materie, appena ho l’occasione di bigiare la lezione, scappo a casa dalla mamma, oppure nella fabbrica dove lei lavora. Infatti morto il papà si è vista costretta a mettere i quattro figli in collegio (oltre a noi due nei Martinitt, Guido è a Pietra Ligure e Pippo a Barlassina) e impiegarsi alla Lesa, fabbrica di materiale bellico. Dirimpetto ai laboratori è allestita una scuola di aviazione, nella quale volonterosi giovanotti imparano in tempo accelerato quel che è un aeroplano, poi partono immediatamente per il fronte. Sul loro campo di esercitazione qualcuno ha trovato la strada per evadere dall’Umanitaria e la voce si sparge subito. Segui il percorso di guerra, sbuchi in via Pace. e sei libero!”

Questa scoperta è una pacchia, coniugando pace e guerra abbiamo trovato la libertà. Però ne approfittiamo a turno, non possiamo certo essere ammalati tutti lo stesso giorno.

E’ un fatto che la guerra, con i suoi continui contrattempi e gli allarmi aerei, ci dà una bella mano a sfuggire alla sorveglianza dei nostri sorveglianti. A volte però gli aerei nemici esagerano.

Il mese scorso a Bergamo, è morta la mia nonna paterna Elvira e la mamma ha ottenuto il permesso di portarmi con sé al funerale. Partiamo alle venti dalla stazione Centrale su un treno che va, dice lui, a Bergamo. In realtà verso la mezzanotte arriva a Lecco, dopo oltre un’ora di attesa torna indietro e, non so per quale strada giunge a Bergamo a notte inoltrata. C’è il coprifuoco, ma per fortuna un ufficiale delle Milizia Ferroviaria, impietositosi e pratico della città, ci accompagna lui stesso all’indirizzo di mia zia. Il funerale si era già celebrato, il giorno prima, perciò dopo qualche ora di riposo, al mattino ci rechiamo svelti al cimitero, in modo di poter ripartire subito per Milano. Questa volta servendoci della tramvia Bergamo-Monza, in partenza a mezzogiorno.

Dopo un’ora di corsa (si fa per dire) il tram si arresta in aperta campagna e i viaggiatori sono invitati a scendere per disperdersi nei campi.

Panoramica dall'alto dell'Istituto di via Pitteri con evidenziato il Padiglione Trento

Saggio suggerimento, poiché all’improvviso sbucano dalle nuvole due aerei nemici, che si gettano in picchiata sulle vetture, fortunatamente vuote, mitragliandole, ripetutamente. Dieci minuti di panico, quindi gli assalitori esaurite le munizioni, si allontanano e, scampato il pericolo, i passeggeri, ancora spaventatissimi, risalgono in carrozza.

Altra fermata fuori programma al ponte di Trezzo d’Adda, tutti di nuovo giù a piedi per scavalcare il viadotto, il tram completamente vuoto, lo transita per ultimo. Nel tardo pomeriggio, dopo un altro allarme, siamo a Monza. Ancora una buona ora di attesa davanti alla stazione a aspettare una scalcinata corriera e, finalmente col buio della notte, rientro a Milano.

Così, allarme dopo allarme, l’autunno se ne va! Il freddo dell’inverno quest’anno sembra arrivare in anticipo e ci fa parecchio soffrire. Ma oggi, malgrado il lunedì è festa, è il giorno dell’Immacolata e si va in libera uscita, poi in un attimo è sera e bisogna ritornare in collegio!

Con la mamma e il Carluccio prendiamo il 23 in via Lamarmora, saranno appena le sette, ma i tram sono scarsi e bisogna affrettarsi a scanso di contrattempi sempre in agguato. Sul tram vi è già un Martinitt con la madre e altri due vi salgono lungo il percorso, si spera non vi siano allarmi. Invece l’allarme suona allorquando il 23 sta girando intorno alle aiuole di piazzale Susa. Come da ordini prestabiliti la tranviera arresta la vettura, poi a richiesta dei pochi passeggeri, sempre come da ordini prestabiliti, acconsente a raggiungere il vicino capolinea all’Ortica. Il cielo è sereno senza nebbia e la temperatura è rigida, il buio avvolge la zona, malgrado le lunghe file di lampioni allineati su viale Argonne, ritti come lugubri fantasmi e per via dell’oscuramento, rigorosamente spenti.



Quattro fermate al capolinea, inizia il fuoco della contraerea e il deserto si illumina, dietro la Chiesa Rossa e sopra i tetti di via Illirico, grandi fasci di luce si incrociano nelle tenebre come lame splendenti, talora inquadrando, simili a corvacci neri, le sagome dei Bristol Blenheimen, i bombardieri inglesi. Bianche nuvolette indicano gli scoppi dei proiettili antiaerei, a tentoni in cerca di bersaglio.

Ed ecco il rondò, un prato addossato alla ferrovia, attorno a cui il tram gira verso la città. Tutti scendono infreddoliti, occhi al cielo, indecisi sul da farsi, madri in preghiera, bambini in gioiosa contemplazione dello spettacolo pirotecnico. Sferragliando, da Giambellino arriva un 28, sul prato adesso ci stanno, assordati dagli spari, una ventina fra grandi e piccini.

Per l’Istituto, via Pitteri, c’era una volta l’autobus M, ora non c’è più, soppresso per penuria di carburante. Dunque mezz’ora a piedi! Per intanto su consiglio delle due manovratrici e delle due bigliettaie, rimaniamo al riparo sul tram, luoghi abbastanza sicuri salvo la malaugurata ipotesi di una bomba sganciata proprio su di essi. In una pausa, tra gli scoppi, una presente propone: “Io sono la più giovane di voi tutte, quindi mi offro di accompagnare io da sola i ragazzi in Istituto. E’ perfettamente inutile che ognuna si sobbarchi due volte mezz’ora di strada, a quel che pare gli apparecchi inglesi non riescono a superare lo sbarramento antiaereo, dunque pericoli immediati non ce ne sono. Salutate qui i vostri figlioli e affidateli a me, sarò per loro una buona guida”. Nel tragico frangente sembra la soluzione migliore e tra abbracci, raccomandazioni e lacrime il capannello di madri e figli si scioglie. All’avviarsi della minuscola comitiva, la nuova mammina in mezzo, una decina di Martinitt ai lati, la tregua di relativa calma finisce. Le batterie contraeree riprendono a sparare con furia ancora maggiore, certo è in arrivo una seconda ondata di incursori.

Appena al di là del ponte di via Amadeo la strada a mò di scorciatoia, prima di inoltrarsi nei campi sottopassa un fascio di binari sui quali il treno armato spara all’impazzata, il cielo è solcato dai razzi illuminanti e dalle traccianti delle mitragliere, in più è rischiarato dai bengala sganciati dagli aerei. E in quella fantasmagoria di colori si vedono sfrecciare gli apparecchi nemici. A questo punto l’ordine nel drappello in marcia va a farsi benedire, per noi bambini la baraonda di spari e di luci è eccitante, chi corre avanti, chi resta indietro e sparisce nel buio. La fila si spezza e nel caos totale la frastornata guida non riesce più a ricostruirla. Nessuno ha paura e ognuno si diverte senza badare ai disperati richiami della povera accompagnatrice poi, come Dio vuole, la pirotecnica traversata si conclude nella portineria dell’Istituto, dove la sbandata compagnia giunge, in ritardo ma giustificata, dopo le otto e mezza, termine improrogabile della libera uscita. Per i dieci piccoli Martinitt è la fine di una festa e per l’improvvisata mammina la fine di un incubo. Ma non di un Calvario!

Le tragiche conseguenze del bombardamento

Non potevo certo allora conoscere il dramma della nostra temporanea mammina.

Sposa da pochi anni, senza notizie del marito soldato in Grecia e purtroppo ferito a una gamba, la figlioletta di un anno affidata alla nonna, il bagliore degli incendi laggiù dalle parti della Bovisa, di Campo dei Fiori e Quarto Oggiaro, ossia verso casa sua, il fratellino da ricondurre in collegio. In più una decina di scalmanati che le sfuggivano di mano, di tutto divertiti e del tutto ignari di cosa fosse la paura. E infine la prospettiva del ritorno senza tram con l’incubo di spiacevoli incontri, giovane e piacente ragazza, sola di notte alla mercé di qualsiasi malintenzionato in divisa o meno.

Comunque tornando alla sera dell’Immacolata, appena giunti in Istituto, noi ragazzi veniamo spediti immediatamente in rifugio, la cantina sotto il padiglione centrale. Lì sotto regna la massima confusione, tutti urlano, ma non per paura, semplicemente solo per raccontarsi le vicende della giornata passata a casa. Difatti il baccano della contraerea è infernale, raffiche ininterrotte di colpi spararti a strappi confinale lacerante ta-tam su due toni ravvicinati di insopportabile acutezza. Gli scoppi delle bombe e gli spezzoni incendiari che cadono a migliaia neppure si odono, si sente solo il fracassa della contraerea!

La sarabanda infernale dura poco più di un’ora, quando finalmente tacciono gli spari e suona il cessato allarme viene dato l’ordine di risalire a rivedere le stelle. Però le stelle non si vedono più, sono sparite dietro un nuvolone di fumo nero, mentre il cielo si è tinto di rosso. Il fuoco divampa sulla legna accatastata per l’inverno nel campo confinante cogli stabilimenti della Innocenti, inoltre stanno bruciando il teatro e il magazzino degli strumenti musicali.

Addio sogni di gloria, quale primo trombettiere nella banda dei Martinitt! Che gli anglosassoni abbiano avuto notizia di tanti giovani promettenti suonatori e per metterli definitivamente a tacere abbiano organizzato questo bombardamento? Comunque non c’è tempo da perdere né da pensarci, occorre rimboccarci le maniche per rimediare al guaio. Sotto la guida degli istitutori si corre ai ripari, i pompieri hanno altro a cui pensare, mezza Milano è in fiamme e a limitare i danni ci si deve arrangiare da soli. Perciò il resto della notte è impegnato nell’impresa di spegnere il rogo, i piccoli a riempire d’acqua i più inverosimili contenitori, i grandi a versarli sul gigantesco falò. Dopo quella notte di fuoco il Consiglio di Amministrazione del Pio Albergo Trivulzio i tre Istituti, Martinitt, Stelline e Vegiòni, è costretto a prendere drastiche decisioni onde salvaguardare i suoi ospiti. Le Stelline vengono sfollate a Meda, il loro posto in corso Magenta 59 è preso dai Martinitt più grandi, circa duecento, di seconda e terza sezione, ossia medie e lavoratori. I Martinitt delle elementari vengono invece trasferiti a Fano, sull’Adriatico, nella a me già nota colonia Tonini.


Le devastazioni della guerra

Quanto ai Vegiòni delle Baggina ci si accontenta di difenderli con il segnale di Ospedale, una grande Croce Rossa (che in verità è un grosso quadrato di colore rosso) pitturata sul tetto di ogni padiglione, con la speranza e fiducia che gli aerei incursori nemici rispettino questo contrassegno di protezione, a suo tempo concordato fra tutte le Nazioni belligeranti.

Quindi a Natale, con uno sfollamento fatto al contrario, sono già traslocato nell’ex Istituto delle Stelline, mentre Carluccio è al mare. Penso a mia mamma, due figli, da appena due mesi ricoverati insieme nello stesso collegio, e adesso uno va lontano e l’altro resta qui.

Ad ogni modo in corso Magenta, se non fosse per la fame, si sta pur anche bene! Al mattino pulizie in dormitorio completate da un ulteriore incarico di ramazza al P2 (portico secondo) con il diritto a un supplemento di viveri di dieci castagne, quindi ripasso scolastico aggregati al corso interno di avviamento in aule sottozero. Nel pomeriggio ancora studio e ricreazione fino all’ora del sostituto di una cena. A scuola in Umanitaria non ci andiamo perché le vacanze natalizie, una volta trascorse le festività di Capodanno e dell’Epifania, per problemi di riscaldamento, vengono continuamente prolungate, dapprima a fine gennaio e poi in seguito alla metà di febbraio. Cioè dopodomani! ... ... 


I Documenti seguenti testimoniano la situazione dei Martinitt e dell'Istituto di via Pitteri in quei tristi anni durante i quali la follia umana raggiunse livelli inimmaginabili.







sabato 14 dicembre 2024

Il Carosello Tranviario di Piazza del Duomo di Gabriele Dell'Oglio

Il Carosello tranviario in Piazza Duomo dopo il cambio di mano
Foto tratta da Tram e Tranvie a Milano di Cornolò - Severi

Una breve disquisizione sul leggendario Carosello tranviario in piazza del Duomo, come era e come avrebbe potuto diventare.

Il XIX secolo fu un periodo di grande sviluppo per i trasporti pubblici milanesi.

Il 17 agosto 1840 veniva inaugurata la prima linea ferroviaria Milanese (Milano-Monza), con la stazione che era ubicata appena fuori dalle mura alla confluenza della Martesana.

Necessitando comunicazioni tra la stazione ed il centro cittadino, già un anno dopo (13 settembre 1841) il primo omnibus collegava la stazione a piazza del Duomo.

Negli anni a seguire le linee e i gestori aumentarono rapidamente

La Rete degli Omnibus al 1871


Tra di essi spiccava la SAO – Società anonima degli Omnibus che, costituita il 28 giugno 1861, in meno di 20 anni arrivo ad avere quasi il monopolio con 14 linee su 22 e con 105 omnibus su 129.

Omnibus in piazza del Duomo


I tempi erano ormai maturi per passare a sistemi più evoluti, per cui la stessa SAO che già aveva attivato due anni prima la tranvia a cavalli da Milano a Monza, ottenne il 24 aprile 1878 la concessione per la realizzazione della prima tratta della linea di circonvallazione tra Porta Venezia e Porta Tenaglia (attuale piazza Lega Lombarda).

L’occasione per il passo successivo, fu dato dalla necessità di modernizzare i trasporti pubblici in previsione della Esposizione Nazionale Italiana del 1881, decisa alla fine del 1879 e che si sarebbe tenuta dal 6 maggio al 1° novembre 1881.

Il comune pertanto bandì il 5 agosto 1880 una gara per la concessione del servizio di tram a cavalli, con l’obbligo di terminare i principali itinerari in tempo per la data prevista di apertura della manifestazione (15 aprile).

La gara cui parteciparono quattro soggetti, tra i quali la SAO, che pur presentando una offerta economica (quota sui ricavi) più bassa, ottenne la concessione, facendo leva sulla propria esperienza ed affidabilità.

I lavori procedettero speditamente e in tempo per l’Esposizione furono aperte le prime quattro linee, cui seguì, nei quattro anni successivi l’apertura di altre 8 linee ed il completamento della linea di circonvallazione.

Tram a cavalli in piazza del Duomo

Le dodici linee radiali facevano tutte capo a piazza Duomo, nella quale, su tre dei quattro lati era stato realizzato un complesso schema di binari (basti pensare che erano necessari ben 55 deviatoi), lungo i quali i tram stazionavano in attesa di ripartire.

Non occorre molto a capire che tale sistema poneva anche seri problemi di natura igienica per via delle deiezioni dei numerosi cavalli in sosta (le vetture tranviarie era trainate da tiri a due).

Nel 1884 il direttore tecnico delle Ferrovie Nord, ing. Ambrogio Campiglio propose una modifica dello schema dei binari che prevedeva di rendere passanti le linee (unendole a due a due) e semplificando il tracciato (tanto che i deviatoi si sarebbero ridotti a 28).


Lo schema dei binari in piazza del Duomo nel 1884


La SAO, che non era tenuta ad accogliere eventuali proposte di modifica si guardò bene dall’effettuare modifiche allo schema della rete. 

Qualche anno dopo si affacciò sul mercato dei trasporti un potente concorrente: la Edison, approfittando anche degli attriti tra Comune e SAO, ottenne la concessione per la realizzazione di una linea tranviaria sperimentale a trazione elettrica tra piazza del Duomo (lato portici settentrionali) e corso Sempione (all’altezza di via Canova), linea che fu inaugurata il 1° novembre 1893 e aperta al pubblico il giorno seguente.

Schema dei binari in piazza del Duomo nel 1894

L’esperimento ebbe un gran successo di pubblico, segnando di fatto la sorte della SAO; il 25 giugno 1895 il Comune sottoscriveva con al Edison una nuova convenzione per il servizio tranviario a trazione elettrica, che venne attivato nel biennio 1897/98 (l’ultima linea ad essere trasformata fu quella per Porta Ticinese, attivata il 19 dicembre 1898).

Tram elettrici in piazza del Duomo


Per effetto del passaggio integrale alla trazione elettrica il carosello tranviario in piazza del  Duomo assunse l’aspetto definitivo, ovvero un quadrilatero che cingeva tutti i lati della piazza. 

tale assetto rimase sostanzialmente invariato fino all’agosto 1926, quando nella notte tra il 2e d il 3 agosto, la rete tranviaria (nel frattempo passata sotto la gestione comunale dal 1° gennaio 1917) si adeguò al cambio di mano (da sinistra a destra). 

Tale nuovo assetto durò tuttavia pochi mesi, dato che solo pochi mesi dopo, il 29 novembre 1926, il carosello tranviario fu abolito, trasformando gran parte delle linee da radiali, con capolinea in Duomo a linee con percorsi a “V”, con capolinea periferici.

Con tale riforma i tram sostanzialmente scomparvero da piazza del Duomo. 

Schema dei binari in piazza del Duomo dopo il 1926


Avendo eliminato il collegamento tra via Carlo Alberto (ora via Mazzini) e via Orefici, di fatto la rete fu spezzata in due, scelta tutt’altro che felice, cui si è posto rimedio solo negli anni ’80.

Si noti poi che mancasse un itinerario diretto verso est, con il collegamento verso piazza Fontana solo di servizio (del resto l’itinerario di piazza Fontana avrebbe mantenuto l’angusto e tortuoso tracciato verso via Alciato - Cavallotti ancora per qualche anno.

Panoramica di piazza del Duomo anni 30


A parer mio, una scelta meno radicale avrebbe permesso una maggiore flessibilità della rete tranviaria: 

mantenendo attivi i binari sui lati sud e ovest della piazza, nonché mantenendo attivo l’anello di via Armorari si sarebbero potuti avere, in aggiunta a quanto realizzato:

un itinerario V. Emanuele - Orefici

un itinerario V. Emanuele – Torino 

un itinerario Mengoni – Mazzini 

un itinerario Mengoni-Torino

un itinerario Orefici - Mazzini

un anello …Mazzini – Spadari – Hugo – Orefici – Mazzini…

un anello …Orefici – Cantù- Armorari – via Cordusio… 

In prospettiva, una volta completate le demolizioni al Verziere, 

un itinerario V. Emanuele – Fontana – Verziere

un itinerario Orefici – Fontana – Verziere

un itinerario Torino – Fontana - Verziere

Una tale varietà di percorsi e capolinea possibili, avrebbe lasciato ai tecnici Comunali (ATM sarebbe nata parecchi anni dopo), moltissima libertà in più con ampie possibilità di deviazioni in caso di necessità (ad esempio in caso di manifestazioni in piazza Duomo).

Un ipotetico schema dei binari in piazza del Duomo post 1926  

Bibliografia

Dall’Omnibus alla Metropolitana XXIII Edizione – F. Ogliari – Cavallotti Editore 1986

Primi Tram a Milano – P. Zanin – ETR Editore 2007


Immagini:

[1] Wikipedia – pagina sulla Società Anonima degli Omnibus

[2] [3][6] [8] dal web

[4] Ogliari Op.cit 

[5] [7] Zanin Op cit

[9] elaborazione dell’autore su base foto [7]


domenica 18 agosto 2024

La Scomparsa Cascina Boffalora di via Tertulliano di Gabriele Dell'Oglio

Scorcio della Cascina Boffalora lungo la via Tertulliano prospiciente un tratto scoperto della roggia Gerenzana, anni 60, Archivio ACAdeMI


Nel Borgo di Calvairate, era presente, almeno dalla seconda metà del 1600, un gruppo di Cascine alla confluenza tra la Roggia Gerenzana (che tuttora presenta un tratto scoperto) ed il Cavo Ticinello.

La Cascina Boffalora di via Tertulliano in 2 immagini del 1983 Archivio ACAdeMI



Tale gruppo di cascine costituiva un vero villaggio agricolo nel territorio dell'antico borgo di Calvairate.
Stralcio mappa Clarici 1682


Il toponimo “Boffalora” è contrazione dall'antico volgare buffa l'aura, cioè soffia il vento che veniva dato a cascine in posizione aerata e particolarmente salubre.
Le cascine, la cui antica presenza è testimoniata dalla mappa Clarici del 1682, erano ancora integre almeno sino agli anni ’30 del secolo scorso.

Stralcio mappa Catasto Corpi Santi di Porta Venezia, fine '800


Stralcio mappa Vallardi con previsioni di PRG 1910


La progressiva espansione urbana ha fatto sì che nel dopoguerra, come i pezzi di un domino, le varie cascine siano cadute una dopo l’altra.
La prima ad essere demolita (prima del 1964) è stata la Cascina Boffaloretta, seguita, qualche anno dopo, dalla cascina Boffalora, che si trovava sul lato sud di Via Tertulliano.
Era “sopravvissuta” la Cascina Boffalora, che ancora nel 2008 appariva, se non in perfette condizioni, almeno in grado di essere recuperata.
La Cascina Boffalora da Google Street View nel 2008


Si noti che nelle foto è ben visibile la presenza di Pioppi Neri più che centenari, piantati dai contadini nel corso dell'800.

Aerofoto del 1964

Aerofoto del 1972

Purtroppo l’incuria ha fatto sì che lo stato di degrado progredisse irreversibilmente, per cui nella giornata del 15 Luglio 2021 anche l’ultima delle tre cascine è stata demolita, cancellando definitivamente un pezzo di storia secolare.

Via Tertulliano, la Cascina Boffalora a demolizione ultimata. Foto di Maurizio Petronio


giovedì 18 luglio 2024

La Gioconda a Milano di Roberto R.

 


Cartolina emessa in occasione della esposizione della Gioconda a Roma nel dicembre del 1813

Théophile Homolle, direttore del Louvre, temeva più i vandali dei ladri, e per questo motivo decise di ingaggiare il vetraio Gobier allo scopo di proteggere tramite lastre di vetro le opere esposte.
Fra le maestranze che lavoravano al progetto, per altro già concluso al tempo dei fatti in narrazione, vi era un certo Vincenzo Peruggia, originario di Prezzino, frazione di Dumenza in provincia di Varese, emigrato a Parigi nel 1907.
Ottimo suonatore di mandolino, la mattina di lunedì 21 agosto 1911, Peruggia si recò al Louvre; il lunedì è giorno di chiusura per il museo, quindi il momento migliore per accedere alle opere senza il disturbo dei visitatori.
Peruggia, passando per l’accesso riservato ai dipendenti ed operai, percorse un tragitto a lui ben conosciuto, avendolo percorso diverse volte mesi prima durante l’attività di posa dei vetri.
Percorse indisturbato i corridoi del Louvre fino a giungere al Salon Carrè , ed una volta entrato rimosse un quadro dalla parete, non uno a caso ma bensì la Monna Lisa di tale Leonardo di ser Piero da Vinci, meglio conosciuta come la Gioconda di Leonardo da Vinci.
Uscito dal salone, raggiunse una scala secondaria dove, in tutta calma, smontò il vetro protettivo, tolse dalla cornice la tavola di pioppo dipinta ad olio, e dopo averla avvolta nella sua giacca, con l’involto sotto braccio uscì serenamente dal museo; lungo il percorso di ritorno al suo appartamento, dove terrà nascosta la Gioconda per ben due anni, evidentemente sovraeccitato per il furto commesso, salì sul tram errato, e per ovviare decise di concedersi quello che per lui era un lusso: prese un taxi!
Arrivato finalmente a casa, nascose la Gioconda, dopodiché si recò al lavoro giustificando il suo ritardo con una presunta sbronza domenicale.


Stampa d'epoca, © Roger-Viollet, che raffigura Vincenzo Peruggia e il "Ratto della Gioconda"


Si trattò senza dubbio di un furto esageratamente semplice, pulito, lineare nel suo svolgimento, ed anche fortunato se consideriamo che venne scoperto solo 24 ore dopo, e non dal personale del museo, ma da tale Louis Béroud, un’artista che il mattino del 22 agosto di buon ora entrò nel museo raggiungendo il Salon Carrè dove era sua intenzione dipingere una copia del capolavoro di Leonardo.
Béroud, accortosi del vuoto tra il Matrimonio mistico di Santa Caterina del Correggio e l’Allegoria coniugale del Tiziano, chiese ad un guardiano dove fosse stato spostato il dipinto.
Il guardiano, che non sapeva cosa rispondere, a sua volta chiese ad altri guardiani, i quali ne sapevano meno di lui; le ricerche si allargarono anche al laboratorio fotografico, ai visto mai che … ma anche qui nulla!
Dopo una mattinata spesa in inutili ricerche, il direttore si decise a chiamare la polizia.
Le cronache narrano che sessanta gendarmi fecero immediata comparsa nel museo e per prima cosa fermarono e perquisirono tutti i visitatori, operazione che ovviamente non portò ad alcun risultato, come pure la successiva perquisizione palmo a palmo del museo, che resterà chiuso per una settimana.
I giornali pubblicarono la notizia solo il terzo giorno, mercoledì 23 agosto, scatenando il putiferio.
Sulla graticola finì per primo il direttore reo di non aver saputo organizzare un adeguato sistema di sicurezza per la protezione dei tesori custoditi al Louvre.
Anche la polizia venne messa sotto pressione, e nel tentativo di alleggerire la tensione effettuò i primi fermi fra cui ve ne furono due degni di essere ricordati.
Venne fermato un poeta francese, certo Guglielmo Alberto Wladimiro Alessandro Apollinare de Kostrowitzky, che solo un anno prima aveva inaugurato quella che sarà la sua attività di poeta, scrittore, critico d'arte e drammaturgo, pubblicando una raccolta di sedici racconti fantastici intitolati L'eresiarca & C, firmando l’opera con lo pseudomino di Guillaume Apollinaire (?!?!).
Incarcerato fu liberato dopo pochi giorni una volta appurata la sua completa estraneità.
Stessa sorte toccò anche ad un giovane pittore che iniziava a far parlare di se proprio in quegli anni; un artista umorale, che catalogava i suoi stati d’animo assegnando loro un colore, tanto che i critici catalogheranno i suoi dipinti come appartenenti al periodo blu piuttosto che al periodo rosa.
Cosa aspettarsi di diverso da un pittore così particolare, che non fosse l’aderire ad un movimento artistico d’avanguardia chiamato Cubismo, caratterizzato dalla scomposizione delle figure solide in forme geometriche.
Questo artista si chiamava Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno Maria de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Ruiz Picasso, per gli amici semplicemente Pablo Picasso.
La polizia certo non lo fermò per la sua originalità artistica, ma bensì perché aveva acquistato alcune teste scolpite nella pietra che risultarono trafugate proprio dal Louvre.
Anche per lui qualche giorno in cella e poi libero.
Per le sue indagini la Sûreté era in possesso di un indizio basilare per l’individuazione dei colpevoli, avendo a disposizione un’impronta digitale rilevata sulla cornice che Peruggia aveva abbandonato nel museo prima di uscire.
Per sua fortuna però i mezzi scientifici non erano ancora tali da consentire alla polizia di identificarlo, nonostante avessero prelevato ed analizzato le impronte dei 257 impiegati del Louvre, ma lui era un lavoratore esterno, e neppure la comparazione con il vasto archivio criminale a disposizione degli investigatori diede i suoi frutti, lui era incensurato.
Con il passare del tempo la polizia allargò il campo delle indagini a tutti coloro che avevano avuto a che fare con il museo, fino ad arrivare a bussare alla porta del Peruggia.
L’ispettore lo interrogò mentre gli altri poliziotti frugavano qua e là nella piccola stanzetta, senza però trovare nulla; alla fine il commissario, seduto al tavolino sotto il quale era nascosto il capolavoro di Leonardo, compilò il verbale e se ne andò.
Di Monna Lisa non si seppe più nulla per un paio di anni durante i quali Peruggia probabilmente tentò di contattare qualche mercante o collezionista d’arte francese, senza arrivare a concludere nulla.

Un Leonardo frastornato accompagna una Monna Lisa civettuola con tanto di borsetta, guidando la carrozza verso Brera, fra ali di folla acclamante.


Il 9 dicembre del 1913, troviamo Peruggia in viaggio, direzione Milano, con la Gioconda avvolta in un panno di velluto rosso e nascosta in un doppio fondo del suo baule sotto strati di biancheria, che poté così passare indenne la frontiera.
A Milano si fermò pochi giorni per proseguire poi alla volta di Firenze, dove aveva fissato un appuntamento con un mercante e collezionista d’arte, Alfredo Geri, contattato pochi giorni prima scrivendogli che “Il quadro è nelle mie mani, appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano”, ed avanzando la richiesta di un compenso pari a 500.000 lire quale rimborso spese.
Luogo dell’appuntamento la stanza della pensione Tripoli dove il Peruggia alloggiava.
All’ora stabilita, Geri si presentò accompagnato da Giovanni Poggi, allora direttore degli Uffizi.
Peruggia mostrò la tavola ed accondiscese alla richiesta di lasciar soli i due esperti affinché potessero in tranquillità attestarne l’autenticità; al suo rientro trovò la polizia ad attenderlo.
Venne processato dal tribunale di Firenze il 4 e il 5 giugno dell’anno successivo.
Il Peruggia sostenne di aver operato per il recupero di un’opera d’arte che egli, a torto, riteneva appartenesse all’Italia.
Grazie alla simpatia da parte della opinione pubblica, simpatia dovuta alla finalità patriottica dichiarata dal Peruggia, ed in considerazione della sua conclamata ingenuità, ottenne una pena lieve, un anno e 15 giorni , poi ridotta a sette mesi e otto giorni di prigione ma subito scarcerato dopo la sentenza.
Come era ovvio aspettarsi la Francia reclamò immediatamente la restituzione del dipinto.
I rapporti tra i due paesi erano molto amichevoli, per cui quasi in segno di riconoscenza per averlo ritrovato, la Francia concesse che prima del rientro, Monna Lisa effettuasse un tour turistico nelle città di Firenze, Roma e Milano.
Facendo un piccolo passo indietro nel tempo e tornando al periodo immediatamente successivo al ritrovamento, mi taccio e lascio che sia Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca di Brera dal 1908 al 1934, a narrare i fatti attraverso alcuni brani tratti dal libro edito da Skira nel 2019 “Ettore Modigliani Memorie”.
“… ora il capolavoro trovasi al sicuro in deposito agli Uffizi.
Ma sarà la vera Monna Lisa? Non sarà una copia? Una copia fatta per stornare le indagini sulla vera “Gioconda” nascosta? Corrado Ricci, Direttore Generale per le Antichità e Belle Arti corre a Firenze
e conduce seco Luigi Cavenaghi, il principe dei nostri restauratori di antiche pitture,con qualche altro esperto. E viene la parola rassicurante:
nessun trucco, nessun dubbio: “L’è lee, l’è lee”
aveva detto Cavenaghi”
Come detto la Gioconda viene esposta a Firenze ed a Roma, per poi proseguire verso Milano.
E’ Modigliani a scortare il dipinto durante il viaggio ed è a lui ed a Paul Leprieur, Direttore del Dipartimento delle Pitture al Louvre, che Corrado Ricci si rivolge raccomandando :
“ Domattina a Rogoredo, prima di scendere, aprite la cassa e vedete se c’è. La “Gioconda” è capace di tutto, capace di tutto...Quello non è un quadro, è una donna ...”
Un cielo cupo accoglie a Milano Monna Lisa, che la mattina del 29 dicembre 1913 varca la soglia di Brera :
“ Verso le otto, dissipatesi le tenebre, si apre la cassa: ecco Monna Lisa. Tutti si avvicinano, guardano, ammirano, qualche conoscitore sfodera una lente, ma non c’è tempo da perdere: prendo la tavola famosa e mi avvio col codazzo dei convenuti nella sala IV, colloco il quadro sul cavalletto apprestato dinanzi al Tintoretto coperto, ma solo in parte, da un drappo di velluto, per evitare confronti immediati e non far imbruttire la “Gioconda”. Ci allontaniamo tutti di qualche passo. Il mio sguardo cade sul volto di Silvestri per cercarvi un’impressione (“sem tuc matt ...”). È esangue, quasi terreo; io stesso mi sento impallidire. Oh magia! il quadro, che avrebbe dovuto essere ucciso dalla vicinanza dei massimi coloristi veneziani, li uccide tutti.”
L’orario di visita prevedeva che le visite a pagamento fossero consentite fra le 10,00 e le 17,00, al costo di una lira a biglietto.
100 biglietti furono venduti nel primo minuto di apertura, per arrivare a 18.000 biglietti venduti al rintocco delle 17,00.
Dietro precisa direttiva governativa alle 5 del pomeriggio l’entrata doveva esse libera per consentire anche ad operai ed impiegati di rendere omaggio all’opera del grande artista; e qui cominciano i guai: “...le cose, da comiche, minacciano di diventare tragiche. Il pubblico, al chiudersi delle officine e degli uffici, comincia ad affollarsi dinanzi all’ingresso del palazzo; poco dopo è già necessario sospendere il servizio tranviario in via Brera, la Piazzetta è tutta nera di folla, e altra e altra ne sopraggiunge dal Duomo, da via Solferino, da Pontaccio, da Fatebenefratelli.
…verso le 22 incominciano i primi lamenti, le prime grida sulla Piazzetta.
… La Piazzetta di Brera è un mare in tempesta, in specie di donne – curiosità, il tuo nome è donna! – e altre fiumane di gente irrompono minacciando di schiacciare le prime migliaia sulla parete di fondo della piazza, priva di altra uscita.”
E’ necessario l’intervento dei Bersaglieri e di un’autopompa dei vigili del fuoco per diradare la folla e riportare un po’ d’ordine.
L’afflusso riprende con maggior ordine fino alle tre del mattino : “Bilancio della notte: sessantacinquemila persone contate nel passare dinanzi al quadro; le due portinerie e qualche ufficio a pianterreno ridotti a infermeria; la Piazzetta e la corte del Palazzo simili a un campo di battaglia, cosparso di centinaia di indumenti maschili e femminili. Monna lisa, nella sua maschera impassibile, che dopo quanto era successo appariva fino cinica, era condotta alle quattro antimeridiane nel mio studio, e io, affranto dalla stanchezza e anche un po’ emozionato ... passai il resto della notte con lei. “Ora, mia cara – le dissi mentalmente – ci sei. Tu ieri e stanotte sei stata di tutti. Adesso, per due ore, devi essere mia, solo mia. Quando mai una simile opportunità? Oggi o mai più, quando starai sotto gli occhi di quegli Arghi, che abitualmente ti vigilano e più ti vigileranno, dopo il ratto, in avvenire. È il meno che puoi fare dopo tante pene che mi hai dato ... Nella quiete silente della notte invernale, poggiai il ritratto sopra un cavalletto basso, con due riflettori ai lati, di quelli a luce opalina che servono appunto per l’esame dei quadri, e mi sedei su uno sgabellino, a tu per tu col capolavoro.
Lo girai, lo rigirai: dritto, rovescio, legno, impronte, screpolature, tecnica, stato di conservazione, le ultime rifiniture, restauri: tutto indagai, di tutto cercai di rendermi conto, tentando di penetrare nelle più intime fibre della pittura. Con che risultato? Nulla di peregrino, salvo due ore di piacere artistico, quale credo di non aver mai provato nella mia vita.”
E’ tempo di rendere il dipinto ai suoi proprietari (purtroppo !).
Modigliani ne organizza il rientro in treno, ma preoccupato per la vasta eco provocata dall’evento, nonché dai problemi di ordine pubblico della notte precedente, allo scopo di fuorviare stampa e curiosi decide di :
“… diffondere la voce che si va via a sera tarda, ed intanto risolviamo di andarcene verso le diciotto quatti, quatti, col dipinto a casa mia eludendo la vigilanza di reporters e di curiosi e senza molesti codazzi di gente; là prendere un po’ di cena in tranquillità e poi avviarsi nascostamente alla stazione.
… Ho le traveggole? Vedendo io innumerevoli volte la “Gioconda” ammirata ed adorata al Louvre
da un pubblico internazionale, da tante Misses e Fraülein in rapimento, che, per estasi, suggestione o snobismo coprivano i piedi del cavalletto di petali di rose e di viole, avrei mai pensato di poter dire a me stesso: “Ebbene, un giorno questo quadrò uscirà da qua dentro, tornerà in Italia, verrà a Milano, salirà le scale di casa tua e passerà due ore sul sofà del tuo salotto?”


L'illustratore titola questa cartolina "Arrivo della Gioconda a Milano", ma a parer mio era più corretto intitolarla "Partenza della Gioconda da Milano" visto l'intervento di una nota azienda specializzata in trasporti internazionali. Leonardo dall'alto del basamento del monumento a lui dedicato, ed i suoi discepoli a lui intorno, paiono salutarla.
Il volto che sostituisce il muso del cavallo è quello del Peruggia, che mesto riporta l'opera là, dove l'aveva "prelevata"

La Gioconda lascia la stazione di Milano alle 22,00, sempre accompagnata da Modigliani : “Alla stazione di Modane, da poche ore entrato il 1914 – l’anno della tragedia – firmiamo l’atto ufficiale di riconsegna del capolavoro, poiché da questo momento esso viaggerà a rischio e sotto la responsabilità del Governo Francese. Ci serviamo per tavolo della cassa col quadro, e sono testimoni due doganieri nel compartimento illuminato dalla fioca luce di un candelotto, essendo l’elettricità venuta a mancare improvvisamente nel treno per l’alta neve: Monna Lisa è di nuovo in possesso della Francia, dei tardi eredi di Francesco I che l’aveva comprata a Firenze.”


Testo e immagini per gentile concessione di Roberto R. tratti dalla sua pagina FB "Le Cartoline di Roberto" https://www.facebook.com/profile.php?id=61550923509788