MILANO
Stabilimento
tipografico dell'Editore Francesco Pagnoni
1873
Rievocazione storica delle 5 Giornate in piazzetta Reale 2011, foto Comune di Milano |
CENNO STORICO FINO AL 1848
Grave compito è quello di stendere spassionata storia,
giacchè più spesso o per malignità della natura umana, o per simpatie che uno
scrittore nutra per dati uomini o per date forme di governo o di indirizzi
morali, o perchè il tempo non abbia permesso che i fatti venissero dal freddo
soffio della storia presentati nella loro nudità e nella concatenazione che
hanno nel movimento cosmico, ne avviene che le storie sieno o svisate o
esagerate o mentite; ragione che suggerì a Montesquieu quelle dure parole che: Les
histoires sont des faits faux composés sur des faits vrais, ou bien à
l'occasion des vrais.
Noi ci siam preposti di attenerci scrupolosamente al
vero, nè di scostarvici nemmeno per amor di patria o di libertà.
Noi riteniamo che importante sia la storia che
presentiamo, perchè è storia di eroiche gesta di un popolo che, perchè volle, -
e fortemente volle, - seppe riacquistarsi la propria libertà; seppe rivendicare
diritti che la prepotenza del più forte gli aveva rapiti; di un popolo che
dalla disperazione di un grave servaggio seppe inspirarsi a forti sensi, e
vincere, - perché Una salus victis nullam sperare salutem.
Imparino da essa i nepoti le forti virtù del
cittadino che ha la coscienza della propria dignità, dei proprii dritti!
Conosca come il perseverar ne' forti propositi conduca a raccogliere larga
messe anche da arido terreno! Comprenda che non è vivere il trascinare i giorni
nel servaggio, e come nonsi possa sperare miglioramento nella tirannide fuorchè
da' disperati propositi di un animo ardito, di volontà perseverante e di un
braccio vigoroso; giacchè il tiranno non muta sensi per ragion qualsiasi: - può
simular pentimento nella sventura, ravvedersi non mai! Il sangue de'
tiranni, cantò Byron,
non è sangue umano: essi, come demonii incarnati,
si abbeverano del nostro sino a che non
si abbeverano del nostro sino a che non
venga il tempo di renderlo alle tombe:
- a quelle ch'essi hanno tanto popolate.
- a quelle ch'essi hanno tanto popolate.
Veda infine il popolo che santo è il morir pella
patria; giacchè in tal caso si muor nel mondo, ma si rivive ne' cuori, e
s'acquista onor di pianti
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il sole
Risplenderà su le sciagure umane (Foscolo, I Sepolcri).
La storia delle cinque giornate vivrà eterna in
Italia finchè il sentimento dell'onor nazionale, dell'amor patrio e della
gratitudine a' caduti non sian soffocati colla libertà e colla morte politica
della patria.
Prima però d'intraprendere la storia di quelle
giornate riteniamo utile dare uno sguardo fuggevole agli anni che precedettero
quell'epoca: e lo facciamo.
Sin dal 1815 noi vediamo l'esistenza della setta dei
Carbonari e dei Calderari. Nel luglio 1820 i Carbonari del regno di Napoli
principiaron la rivoluzione che si estese anche alla Sicilia, e che,
trionfante, obbligò quel re a giurare una costituzione che spergiurava ben
tosto e soffocava nel
sangue. In Lombardia pure cospirarono i Carbonari,
ma furon repressi con eccessivo rigore; fra questi s'annoverò Silvio Pellico da
Saluzzo, che venne condannato al carcere duro nella fortezza dello Spielperg in
Moravia.
Nel 1821 regnava in Piemonte Vittorio Emanuele I, principe
buono, di mediocre ingegno, di carattere irresoluto: da Napoli penetrata in
Piemonte la rivoluzione per mezzo delle società segrete, essa trovò appoggio in
Carlo Alberto, e vi scoppiò nel marzo di quell'anno. Vittorio Emanuele, legato
colle potenze estere nella promessa di non concedere costituzione, anzichè
darla spergiurando, abdicò nulla concedendo. Ma la concesse Carlo Alberto,
nominato reggente; annullandola poi tosto Carlo Felice, successo nel regno a
Vittorio Emanuele. Carlo Alberto fu allontanato allora e spedito in Spagna a
combattervi la trionfante insurrezione. Pel Lombardo-Veneto nel 1821 siedette
una commissione terribile in Venezia, incaricata di redigere i processi de'
Carbonari che avevano agitate le provincie lombarde e venete. La commissione
era presieduta dal conte Guglielmo Gardani, ed aveva per membri Salvotti e
Tosetti; segretario n'era De Rosmini. A Milano arrestavasi, a Venezia si
procedeva. Fra i primi arrestati vi furono Castilia, Palavicini e Confalonieri:
a Venezia fra i prigionieri vi furon da principio condotti anche Silvio
Pellico, Pietro Maroncelli, Canova, il professor Rossi. Con sentenza 29 agosto
1821 di quella Commissione si condannava a morte Antonio Solera, D. Felice
Foresti, Costantino Munari, Antonio Villa, Giovanni Bachiega, Marco Fortini
(sacerdote), conte Antonio Oroboni della Fratta, marchese G. B. Canonici,
Giuseppe Delfini, Pietro Rinaldi, Francesco Cechetti, Giovanni Monti e Vincenzo
Caravieri, quali rei di delitto d'alto tradimento.
Nel 27 aprile 1831 salì al trono di Piemonte re
Carlo Alberto, ridestando le speranze di coloro che aspiravano al riscatto
delle italiane provincie dal servaggio. Ma la memoria de' passati disinganni,
l'esagerato sentimento religioso e un carattere irresoluto lo trattennero
dall'aderire a' fini de' rivoluzionarii.
Mazzini, ch'era già stato arrestato a Genova e
imprigionato a Savona, ove concepì il disegno di una nuova forma di società
segreta col nome di Giovine Italia, ritornato in libertà, esulò;
continuando a cospirare da terra francese, dove nel 1833 pubblicò gli statuti e
i programmi della Giovine Italia, tentò guadagnare Carlo Alberto alla
rivoluzione, e, non riuscendovi, continuò a cospirare: e per cospirazione fu
condannato a(5) morte, lui assente.
Rifugiatosi allora a Ginevra, organizzò la spedizione di Savoja, che fallì per
colpa di Ramorino suo condottiero.
Molte furon le condanne capitali, ma nella maggior
parte in contumacia; moltissime e gravissime le altre condanne dal 1833 al 1846
in Italia.
Ma nel giugno del 1846 veniva eletto a pontefice
Giovani Maria Mastai Feretti, il quale assunse il nome di Pio IX; e questi,
venti giorni dopo la sua assunzione al trono, accordò larga amnistia ai
condannati per titolo politico; quindi nuove riforme accordò. Ciò rivelò sentimenti
liberali, e il popolo simpatizzò per lui. Lo stesso Mazzini fu pure lusingato a
sperare nel pontefice, e scrisse a tal uopo per lui apposita lettera, nella
quale leggevansi le seguenti espressioni:
Unificate l'Italia e la patria vostra... Non mendicate
alleanza di principi. Seguitate a conquistare l'alleanza dei popoli.
Chi era questo Giovanni Maria Mastai elevato al
seggio ponteficale col nome di Pio IX? Questi nacque in Sinigaglia nel 13
maggio del 1792 da nobile e agiata famiglia: educato da
padri Scolopi nel collegio di Volterra, vi si
distinse. Cercò nel 1815 d'entrare nelle guardie nobili del pontefice, ma non
l'ottenne perchè infermiccio e affetto da epilessia. Studiò allora teologia e
si fece prete: la sua salute migliorò e l'epilessia andò svanendo: andò in
missione al Chili nel 3 luglio 1823: arrestato a Palma dalle autorità
rivoluzionarie di Spagna per sospetto di missione politica, rimase prigioniero
alcuni giorni: liberato e rimessosi in mare, fu la nave assalita dai
filibustieri, ma potette salvar la vita: colto da burrasca, pericolò naufragio:
finalmente giunse nel 1824 a Rio della Plata e l'anno dopo arrivò a Santiago
del Chili. Nel 1825 ritornato a Roma, Leone XII lo nominò arcivescovo di
Spoleto: Gregorio XVI lo elesse vescovo d'Imola nel 1832, e cardinale nel 1840.
Salito al pontificato, diede riforme liberali e spiegò ostilità contro
l'Austria che gli aveva occupata Ferrara: ciò destò indicibile entusiasmo in
Italia, e il suo esempio fu seguito dalla Toscana che ebbe pur essa riforme, e
il nome di Pio IX divenne parola d'ordine di risorgimento nazionale. Era giunto
così l'anno 1847, e le dimostrazioni contro i governi dispotici si
moltiplicavano nella penisola.
l'imperator
d'Austria lo aveva rimpiazzato con Bartolameo Carlo Romilli da Bergamo, già
professore di religione nel patrio liceo, indi parroco di Trescorre, poscia
vescovo di Cremona. Il popolo volle cogliere occasione del suo ingresso per
fare qualche dimostrazione contro il governo.
E
l'ingresso del nuovo arcivescovo avveniva nella domenica del 5 di settembre
1847; il popolo e il municipio avean fatti grandi preparativi per celebrare
l'ingresso con inaudita pompa: alla sera fuvvi generale illuminazione per le
vie. Nel dì 8 seguente, in cui ricorreva la Natività di Maria Vergine, alla
quale è dedicato il Duomo, si rinnovarono manifesti segni di convulsione popolare;
questa volta collo scriver con carbone sui muri: Wia Pio IX e W. l'Italia,
e col cantare l'inno appositamente fatto da altri in onor del pontefice, e
dalla polizia vietato: una grande luminaria venne fatta in piazza del Duomo e
in piazza Fontana, ove s'innalza il palazzo arcivescovile.
La
polizia non volle starsene cheta spettatrice di quella festa popolare: molte
guardie, in apparenza inermi, mandate per quei luoghi dal conte Bolza, tutto a
un tratto sguainarono le sciabole che sotto i cappotti ascondevano, si
avventarono in mezzo alla moltitudine festosa e, rotando i ferri, si misero a
ferire a dritta e a manca. La folla spaventata fece per fuggire, l'un l'altro
premeva, urtava, spingeva: molti agli urti cadevano, e la folla fuggente li
calpestava. Le guardie di polizia potettero così comodamente soddisfare alla
sete di sangue, ferendo a lor bell'agio gl'inermi: i popolani che più lungi
stavano dai poliziotti, inviperiti di lor prepotenze, si posero a gridar morte
ai Tedeschi: ciò inviperiva di più i poliziotti: ma d'un tratto essendo
comparso sulla porta del suo palazzo l'arcivescovo, riuscì a far cessare le
prepotenze tedesche e a far isciogliere la folla.
Pattuglie
però di dragoni imperiali continuarono a correr la città in quella sera e nel
dimani; pur essi divertendosi nel maltrattare e ferir le persone. Più di
sessanta vennero in quell'occasione ferite più o meno gravemente: diversi
furono anche i morti.
Questi
fatti diedero argomento all'autorità militare ed alla polizia per domandare a
Vienna lo stato d'assedio, il giudizio statario e tutti gli altri rigori: -
volevasi soffocar la voce della giustizia, far tacere la legge, limitare
l'autorità dello stesso governo, onde suprema vi regnasse l'autorità militare e
della polizia.
Ma
nel sangue non si spense il principio di libertà: il sangue ne lo rafforzò anzi
in ogni cuore; e il sangue anzichè gettar spavento nelle popolazioni, le
inasprì invece nell'odio contro la tedesca dominazione, e le rese tenaci nei
propositi di combatterla.
Nel
settembre, essendosi aperto in Venezia il congresso degli scienziati italiani,
le discussioni scientifiche snaturaronsi in politiche, e il Bonaparte che
entusiasmò il congresso con calde
parole, fu fatto partire pei confini dalla locale polizia: il fatto diede
argomento alla stampa periodica nostrale e straniera di elevar la voce contro
l'arbitrario procedere della polizia austriaca.
Giunte
e diffusesi per Milano le nuove delle riforme piemontesi del 30 di ottobre,
esse produssero un po' d'agitazione non troppo ben celata. Nazari, deputato
presso la Congregazione centrale, espose allora al governo con
particolareggiato rapporto il malcontento che le gravose tasse e la licenza
militare e gli arbitrii polizieschi avevano sparso nel popolo. Il governatore
gli rispose che si rimanesse la Congregazione centrale nei limiti di sue
attribuzioni, e non le trascendesse in cose riferentesi alla
politica. Il fatto del Nazari bastò per cattivare a lui la popolare simpatia, e
si aperse una sottoscrizione onde erigergli un busto. E per rispondere al
governator di Milano, che voleva persino niegare il diritto alla Centrale
Congregazione di provocare riforme dal governo, il popolo usò il linguaggio e i
mezzi del cospiratore: la stampa clandestina eccitò le passioni politiche: si
inventò un linguaggio misterioso di segni, che venne rapidamente appreso ed
usato dal popolo, e servì per comunicare le disposizioni dei segreti dirigenti
del moto liberale. Non essendo possibile
rifiutare il pagamento delle tasse dirette, giacchè colla forza si sarebbero
con maggiori danni dei contribuenti percette, si ideò di ricusarsi alle tasse
indirette, astenendosi dal fumare e dal giuocare al lotto: con ciò si sarebbe
danneggiato l'erario imperiale, e sarebbe stato questo un mezzo per mantener
vivo il sentimento d'opposizione liberale e per abituare il popolo all'unione
de' propositi.
Sopravvenne
intanto il 1848, e al 2 di gennajo di quell'anno più nessuno si incontrava
fumando per le vie, eccettuati gli agenti di polizia e il militare. Ciò diede
luogo a parziali collisioni, poichè intorno ai fumatori si aggruppavano i
popolani gridando: Abbasso il sigaro, e li fischiavano.
Durante
quel giorno la polizia lasciò fare, comprendendo che le opposizioni alle
dimostrazioni non facevano che dar loro maggior importanza e rendere più tenaci
gli oppositori. Sul far della notte però le cose non si soffermarono a pacifica
opposizione, giacchè i soldati cominciarono a reagire ed a maltrattare la
folla. Vuolsi anzi che dall'autorità militare si dessero zigari alla bassa forza
onde fumasse in pubblico e provocasse in tal modo disordini, nello scopo di
prender partito da quei fatti per levare i poteri all'autorità civile e
concentrarla tutti in quella militare.
Il
podestà Casati, che si trovava in strada cercò di intromettersi in quella
reazione militare, riprovando gli atti violenti dei soldati e dei poliziotti da
una parte, e consigliando il popolo dall'altra ad usar prudenza. Ma vicino alla
piazza dei Mercanti Casati fu fermato dai soldati e tradotto alla Direzione di
polizia. Ciò valse a cattivargli le popolari simpatie, ed una folla compatta di
gente l'accompagnò da lontano sino a S. Margherita, ove siedeva quella
Direzione politica. Fu invero questo un atto che fece onore a Casati, sebbene,
di carattere debole e incerto, più amante di nuovo principe che
di vera libertà, dovesse poi in seguito smentire il giudizio che di lui si era
formato il popolo.
Casati
simpatizzava pel sovrano di Piemonte. Allorquando nel 1842 il principe Vittorio
Emanuele di Carignano andò sposo coll'arciduchessa Maria Adelaide, figlia
dell'arciduca Ranieri vicerè del regno lombardo-veneto, Casati progettò di
presentare alla real coppia un'anfora con bacile d'argento. Lavoro artistico di
cui fu l'opera a cesello allogata a Bellezza, nome celebrato in cesellatura; il
disegno nella parte ornamentale affidato a Ferdinando Albertoli; il disegno
della parte igurativa al consigliere Sabatelli; la modellatura infine a
Benedetto Cacciatori. Essendosi il
Casati portato a Torino a presentare il dono, n'era ritornato decorato ed
entusiasta ammiratore di Carlo Alberto e della Casa di Savoja.
L'arresto
di Casati in piazza di Mercanti aveva da parte degli assessori municipali
provocata una protesta a Torresani, capo della polizia, contro la licenza
militare.
Casati
venne allora ridonato a libertà, e sembrava essersi racquetati alquanto gli
spiriti, allorchè il conte Neuperg, ufficiale austriaco, ridestò negli animi
popolari il rancore, che, non
spento,
era soltanto assopito. Neuperg aveva distribuito tabacco a sue spese ai soldati
onde girassero per le strade fumando e provocando il popolo: egli stesso
attraversò la folla collo zigaro in bocca, colla spavalderia negli atti e nello
sguardo, urtando l'uno, insultando l'altro: ciò fu causa di pubblica
indegnazione: ciò fu sfida al popolo: ciò ridestò nella città un fremito d'ira,
ed aumentò l'odio per l'Austria.
Vicino
alla galleria De Cristoforis lo stesso consigliere don Carlo Manganini, amico
di Torresani, antico inquisitore in una commissione contro i Carbonari, vecchio
di 74 anni, avendo riprovato il contegno della truppa, un soldato l'afferrò e
lo uccise con quattro sciabolate alla testa e due al braccio destro. Il delirio
di sangue era giunto al colmo che non si risparmiavan più nemmeno i partitanti
dell'Austria. Più di 60 furono tra feriti e morti trasportati all'ospedale, non
contati quelli che furono portati e curati alle case loro.
Apparvero
allora epigrammi sui muri delle case, tra i quali leggevasi la seguente strofa:
Hanno
il zigaro fra' denti
Solo
i birri e i confidenti;
Cittadini,
state attenti
Se
vi preme il vostro onor
Ad
inasprire maggiormente la concitazione pubblica, Torresani ordinò numerosi
arresti. Nel giorno dopo, 3 gennajo, il Comando militare, fatti ubbriacare i
soldati, distribuito a loro trentamila zigari e diviso fra loro qualche
migliaja di lire, verso sera li sguinzagliò per la città; molti condannati
furon tolti dalle prigioni e gettati per le vie con zigari e furono associati
alla truppa che in comitive di venti, trenta, quaranta, ubbriachi di acquavite,
scorrevano la città provocando con laide parole i cittadini, maltrattandoli ove
sorgeva in loro il mal talento. La popolazione erasi limitata a
rispondere a que' modi insultanti coll'emettere fischi e qualche evviva
all'Italia. Ma gli ebbri soldati desiderando emozioni di sangue, snudarono le
sciabole e si abbandonarono a disperdere quanto incontravano, menando colpi
alla cieca, non avendo riguardo a donne, a' ragazzi, a' vecchi; talchè molti
cadevano feriti o morti. Sembrava la città esser convertita in una landa
selvaggia ove l'odor del sangue attira gli antropofagi! lo spavento fu
generale, generale l'indegnazione pubblica, e sulla violenza di que'
giannizzeri del dispotismo maggiormente germogliò l'odio contro la dominazione
straniera; e il sangue di tanti sventurati inaffiò l'albero della libertà.
Gravi
eran le condizioni d'Italia nel 1848: - le aspirazioni nazionali si eran
diffuse per tutta Italia, soccorse dagli scritti di coraggiosi patriotti: - fra
questi non possiam sottacere Mazzini che dall'esiglio, con mille sacrifizii,
col senno, col consiglio, cogli scritti che diffondeva dovunque, coll'esempio
di virtù private e cittadine mantenne vivo per molti lustri il fuoco di libertà
negli animi italiani.
Riepilogando
i fatti di quell'anno, noi vediamo le sette politiche, dissenzienti nei mezzi,
armonizzare tutte nello scopo; - quello di rovesciare il tarlato trono di re
Ferdinando; - di cui eran accusa le fallite promesse, le condanne capitali e
gli esigli, l'insolenza del militare, la burbanza de' ministri, la corruzione
generalizzata. Cominciò disegno di attuazione di sommossa nel 12 gennajo di
quell'anno, ma venne scoperta perchè Giuda, che si era appiccato, aveva
lasciati nepoti, ed uno si rivelò in un congiurato che ogni cosa scoprì all'autorità,
la quale popolò le galere di coloro ch'eran sfuggiti al carnefice. Ma nel
sangue e nei bagni non si soffocano i principii, e l'idea nazionale ripullulò
più prosperosa dovunque: da ciò nuovi arresti, nuovi procedimenti, nuove
condanne, nuove fatiche al boja: quarantatre furono i condannati nella congiura
di Monteforte!
La
scintilla rivoluzionaria si diffuse allora per tutta Italia, e noi imprendiamo
a narrare la storia della rivoluzione milanese.
IL
18 MARZO
Gli
estremi si toccano, dice un antico adagio; talchè come dalla licenza è generata
la tirannide, così il despotismo estremo conduce a libertà.
Così
fu di Milano nel 1848: - oppressa da un governo che voleva ritenerla schiava: -
stretta a ferreo giogo: - bavagliata onde non parlasse: - soffocata onde non
facesse udir neppure i suoi gemiti, - Milano sofferse, ma non cadde; - ebbe
soffocata nella strozza la voce della libertà, ma ella seppe mantener vivo il
sentimento liberale ne' più reconditi recessi del cuore....
Sorvegliato
ogni suo atto, non poteva spezzar le catene che la cingevano; - ma essa non
diffidò di quella superiore Provvidenza che veglia sui diritti dell'uomo ed a
suo tempo ne rivendica l'oltraggiata esistenza: - sofferse molto, - ma
perseverò, - e perseverando maturò i tempi e le occasioni ad una rivoluzione
grandiosa, eroica, nella quale un pugno di uomini del popolo, inermi, disuniti,
seppe annodarsi e, nuovi Spartani alle Termopili, seppe combattere un'armata
numerosa, ben armata, bene organizzata de' suoi oppressori.
Il
marzo 1848 doveva incarnare le aspirazioni de' Milanesi: - doveva dare alla
storia un soggetto eroico da registrare... La rivoluzione di Sicilia, quella di
Francia, quella pure di Vienna ingagliardiva gli sforzi de' Milanesi ad una
riscossa: - Milano era stata abbandonata dalle principali autorità, e sol vi
rimanevano Radetzky e Torresani; capo l'uno del militare, direttore l'altro
della polizia; entrambi fermamente determinati a soffocare nel sangue cittadino
ogni tentativo di rivolta.
I
tempi che faceansi grossi, grossi; gli avvenimenti che si incalzavano con
prodigiosa(11) rapidità, forzarono la mano
al tedesco imperatore a promettere concessioni, e nel mattino del 18 marzo
pubblicavasi il seguente:
AVVISO
«La
Presidenza dell'I. R. Governo si fa un dovere di portare a pubblica notizia il
contenuto di un dispaccio telegrafico in data di Vienna 15 corrente, giunto a
Zilli lo stesso giorno ed arrivato a Milano jeri sera».
Sua
Maestà I. R. l'imperatore ha determinato di abolire la Censura e di far
pubblicare sollecitamente una legge sulla stampa, non che di convocare gli
Stati dei Regni Tedeschi e Slavi, e le Congregazioni centrali del Regno
Lombardo Veneto. L'adunanza avrà luogo il più tardi il 3 del prossimo venturo
mese di luglio.
M.
HARTL
I.
R. Ispettore al telegrafo.
Milano,
il 18 marzo 1848.
Il
Vicepresidente
CONTE
O'DONELL.
I
Milanesi non prestaron fede però alle puniche promesse di un governo che aveva
sempre mancato alla fede data al popolo; e d'altra parte la concessione non
corrispondeva alle aspirazioni del paese all'indipendenza dallo straniero.
Contrapposto
all'avviso governativo vedevansi affisse sui muri della città e diffuse pei
negozii le seguenti:
DOMANDE DEGLI ITALIANI DELLA LOMBARDIA.
«Proclamiamo
unanimi e pacifici, ma con irresistibile volere, che il nostro paese intende di
essere italiano, e che si sente maturo a libere instituzioni.
«Chiediamo
offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la guerra:
«1°
Abolizione della vecchia Polizia, e nomina di una nuova, soggetta alla
Municipalità;
«2°
Abolizione della legge di sangue ed instantanea liberazione dei detenuti
politici;
«3°
Reggenza provvisoria del regno;
«4°
Libertà della stampa;
«5°
Riunione dei Consigli comunali e dei Convocati, perchè eleggano deputati
all'assemblea Nazionale, da convocarsi in breve termine.
«6.
Guardia civica sotto gli ordini della municipalità;
«7.
Neutralità e sussistenza guarentita alle truppe austriache.»
«Alle
ore 3 trovarsi alla Corsia de' Servi.»
ORDINE
E FERMEZZA.
«Milano
18 marzo 1848».
Gli
animi eransi esaltati allo scoppio di avvenimenti risoluti e decisivi: -
l'agitazione era in ogni petto: - grande la concitazione: - l'ardimento era
spartano. Trepidando nell'aspettazione delle ore 3, e l'impazienza dell'animo
riversandosi dall'occhi, dalle labbra dal tremito delle membra e dallo stesso
respiro, ognuno era sceso per le vie in attesa di quell'ora; talchè verso
mezzodì le strade eran tutte gremite di masse popolari, desiose d'azione più
che di aspettativa, e, cominciando una voce a parlar di armamenti, divenne voce
di tutte quelle masse, le quali risolsero di muoversi verso il palazzo
municipale al grido di: Armateci! Dateci la Guardia Civica!
Il
podestà conte Gabrio Casati cercò di calmar l'effervescenza popolare, e
persuaderla che nulla egli poteva fare, ed esser d'uopo che il popolo si
rivolgesse al Governo: - ma il popolo non s'acquetava alle esortazioni, e
finalmente gridava che gli si desse un capo per guidarlo. Il Casati allora si
offrì di capitanare personalmente il popolo, e vi si pose in testa insieme ai Corpi
municipale e provinciale.
Imponente
fu il procedere per le vie di quella immensa moltitudine acclamante, festante,
sventolante in alto moccichini e berretti!... Non erano uomini che camminavano;
- era un'onda che si riversava per le strade, l'un l'altro premendo, spingendo,
più portati che camminando, tant'era stipata la folla. Il petto loro portava
una coccarda; era quella bianca, rossa e verde.
Giunto
il popolo sul ponte di S. Damiano, la guardia del palazzo di Governo,
schieratasi nella via, scaricò i fucili contro il popolo: - questi, inasprito
all'atto ostile, precipitò furioso verso il palazzo di governo; in un attimo i
due granatieri ungheresi di sentinella furon massacrati, gli altri soldati
disarmati, il palazzo preso, invaso, rispettandosi scrupolosamente la
proprietà. I consiglieri di governo eran fuggiti: alcuni fraternizzarono col
popolo: il solo O'Donell, che reggeva il governo in assenza del conte Spaur,
erasi barrato nel suo gabinetto e sdegnava scendere a patteggiar col popolo.
In
questo frattempo era sopraggiunto l'arcivescovo e l'arciprete Opizzoni,
fregiati essi pure di coccarda tricolore, i quali, acclamati dal popolo, si
posero intermediarii fra questo e O'Donell; recatisi da quest'ultimo,
assicuraronlo che rispondevano di sua vita e l'indussero a presentarsi sul
balcone del palazzo, dal quale, pallido e tremante, spiegando una bianca
pezzuola, sclamò al popolo: Farò quello che volete! Tutto quello che volete!
E il popolo rispondeva: Abbasso la Polizia! Vogliam Guardia Civica! O'Donell
replicava allora: Sì, abbasso la Polizia! Accordata la Guardia Civica! Ma
il popolo diffidando delle parole gridò: Lo vogliamo in iscritto. A ciò
annuì O'Donell, e, accompagnato in contrada del Monte in casa Vidiserti, egli
sottoscrisse i seguenti edittiche vennero immediatamente stampati, e pubblicati
poche ore dopo dalla Congregazione municipale:
«Milano,
18 marzo 1848
«Il
Vice Presidente, vista la necessità assoluta per mantenere l'ordine, concede al
Municipiodi armare la Guardia Civica.
«Firmato
CONTE O'DONELL.»
«La
Guardia della Polizia consegnerà le armi al Municipio immediatamente.
«Firmato
CONTE O'DONELL.»
«La
direzione di Polizia è destituita; e la sicurezza della città è affidata al
Municipio.
«Firmato
CONTE O'DONELL.»
LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA CITTÀ DI MILANO.
«In
conseguenza di ciò sono invitati tutti i cittadini dai 20 ai 60 anni che non
vivono di lucro giornaliero a presentarsi al palazzo Civico dove sarà attivato
il Ruolo della Guardia Civica.
«Interinalmente
è affidata la Direzione di Polizia al signor Dottor Bellati, Delegato
Provinciale.
«I
Cittadini che hanno le armi
dovranno portarle con sè.»
CASATI, podestà
BERETTA, assessore
GREPPI, assessore
SILVA, segretario
Chi
aveva suggerito al podestà di condurre altrove O'Donell, era stato Cernuschi,
il quale costituiva, direm così, la testa di quella prima dimostrazione insieme
a Clerici, a Bellati, a Mazzuchelli,
a Correnti, a Guerrieri, a Greppi, a Berretta, ad Oldofredi, a Borromeo ed a
Busi.
Cernuschi
aveva suggerita quella determinazione onde procurarsi nella persona di O'Donell
un ostaggio alla rivoluzione popolare.
Il
corso di porta Orientale era pavesato a festa: le bandiere tricolori, preparate
nel segreto delle famiglie, vi apparvero e sventolarono pubblicamente: gremite
eran le finestre di vecchi, ragazzi, donne sventolanti le lor pezzuole in atto
di gioja. La concitazione era grande, indescrivibile l'entusiasmo: qua e là
vedevansi capannelli di uomini e donne che chiedevansi ansiosamente notizie, e
le più strane ed esagerate novelle si diffondevano intorno agli avvenimenti
della giornata; l'immaginazione ardente creava fatti insussistenti, svisava gli
esistenti, tutti tratteggiati di quelle tinte che l'entusiasmo e le aspirazioni
somministravano.
Il
popolo erasi tutto riversato al Governo ed al Broletto: tutti chiedevano
inscriversi nella Guardia Civica, tutti erano animati da eguale ardore. Qualche
sbocco di contrada cominciava già a venir abbarrata con tavole e con travi; ma
deboli erano ancora le difese. Una ventina di ardimentosi giovani, volendo che
il loro ardire fosse più proficuo se armati, portossi all'Oficina Colombo,
dove, atterrata la porta, s'impadronì delle armi che vi si tenevano in vendita;
cioè sciabole, pistole e pochi fucili.
Il
palazzo reale era ancora presidiato dalla truppa austriaca, la quale
mantenevasi in relazione colla direzione di polizia, senza poter però trovarsi
in communicazione col castello, perchè
avendo spedito un ussero onde recar la nuova di quanto avveniva, questo era
stato fermato dal popolo e fatto prigioniero.
Non
esisteva quindi unità di azione, non conoscendosi da Radetzky quanto avveniva
nell'interno della città, e ritenendo d'altronde le autorità e le truppe
dell'interno che tutto si conoscesse
in Castello.
Fatt'è
che Radetzky, uscendo verso un'ora pomeridiana dalla casa Cagnola (ch'era
situata in via Cusani e nella quale vi esisteva la Cancelleria militare) in
compagnia del generale Wallmoden, di altri tre generali e di diversi ufficiali,
vide chiudersi le porte delle case, le imposte delle botteghe, le persiane, ed
osservò un confuso correr di gente, attrupparsi alcuni, altri fuggire come
sovrastasse gran pericolo; talchè, avendo chiesta la ragione di quanto
stranamente gli si presentava allo sguardo, gli fu risposto che era scoppiato serio
tumulto popolare, e che forti masse eransi recate minacciose al governo, senza
conoscerne i particolari e l'esito.
Riparatosi
allor ben tosto in castello, vi s'incontrò col professor Menini e col
commissario De Betta che, al primo sfavillar della sommossa, eransi colà
rifugiati.
Alle
confuse, ma appassionate notizie recate da quei due, Radetzky presumette troppo
di vincere col terrore l'entusiasmo popolare, ed ideò allora di soffocare nel
sangue ogni tentativo di rivoluzione, facendo marciare contro il popolo otto
mila uomini, divisi in centosessanta compagnie di cinquant'uomini ciascuna,
coll'ordine di spazzar colle armi le vie della città, portarsi a saccheggiare
duecento case di signori, indicati dal De Betta come animati da sentimenti
ostili al governo, mentre altri seimila uomini avrebbero avuto l'incarico di
continuare l'opera dell'ordine col mezzo del sangue e del terrore,
assicurando le comunicazioni delle varie strade interne ed esterne col
castello.
Ma
mentre si spedivano staffette militari da un punto all'altro per procurarsi
notizie sul vero stato delle cose, impartire istruzioni, mantenere le
communicazioni fra i diversi punti occupati dal militare, questi corrieri
militari non giungevano poi mai alla loro destinazione, perchè venivano fermati
ed arrestati dal popolo. In quell'occasione vennero intercettate due lettere
che due figli del Vicerè si scambiavano, e nelle quali esternavasi il desiderio
e la convinzione che Radetzky avrebbe bombardata Milano e domata la rivoluzione
colle armi e coi patiboli.
Fortunatamente
non solo le pietose intenzioni degli arciduchi non potettero aver
realizzazione, ma nemmeno i disegni di Radetzky, ritenendosi da molti ch'egli
venisse osteggiato da
forti proteste de' suoi generali Walmoden e Woyna. Si limitò quindi il
feld-maresciallo a spiegare innanzi al castello tutte le forze che aveva presso
di sè, spingendone una parte lungo i bastioni e tenendo in pronto le
artiglierie sugli spalti dei torrioni del castello. Spinse anche forti
pattuglie nella città, le quali però trovarono precluso in varie parti il
proseguimento di lor marcia.
Ciò
avveniva per parte delle truppe del castello: prima di proseguire nel racconto
di quanto avveniva nell'interno della città, riteniamo necessità storica di
presentare un prospetto delle forze militari che in quel giorno si ritrovavano
in Milano, a quali corpi appartenessero ed in quali caserme distribuite.
In
Castello
6
comp. di granat. ungh. a 180 uomini 1,080
4
" croati 210 " 840
6
" regg. Alberto 190 " 1,140
2
squadroni di cavalleria a 150 " 300
2
batterie leggere 180 " 360
3
" a piedi 80 " 240
13
1
" racchette 60 " 60
Nella
Caserma S. Francesco.
12
comp. regg. Paumgartten a 190 uomini 2,080
2
" cacciat. tirolesi 200 " 400
1
" regg. Reisinger 190 " 190
Nella
caserma S. Gerolamo.
2
comp. croati 210 uomini 420
2
" regg. Reisinger 190 " 380
Nella
caserma S. Vittore.
4
comp. regg. Reisinger a 190 uomini 760
1
squadrone di cavalleria 150 " 150
Nella
caserma delle Grazie.
1
squadrone di cavalleria a 150 uomini 150
Nella
caserma di S. Eustorgio.
6
comp. regg. Reisinger a 190 uomini 1,140
Nella
caserma di S. Angelo.
6
comp. regg. Kaiser a 190 uomini 1,140
Nella
caserma dell'Incoronata.
4
com. del regg. Kaiser a 190 uomini 760
Nella
caserma di S. Simpliciano.
2
comp. regg. Kaiser a 190 uomini 380
2
squadroni di cavalleria 150 " 300
La
riserva del treno 120
Collegio
di S. Luca.
Compagnia
dei cadetti 150
Gendarmeria
(alle Grazie) 250
Guardia
di polizia (a S. Bernardino) 800
Totale
uomini 13,790
In
questo stato di forze non si trovano comprese le armi morte, cioè quelle non
combattenti (chiamate dei Tedeschi planisti), le quali sommavano a un migliaio.
Nei giorni successivi però al 18 marzo, avendo Radetzky chiamato a Milano altri
corpi, l'ammontare della forza militare tedesca aumentò sino a ventimila.
Tutte
queste truppe però trovavansi nel 18 e 19 marzo disseminati in 52 posti, i
quali erano: la gran Guardia in angolo alla piazza Mercanti, ove erano 2
cannoni; - le undici porte della città; - il Castello; - le altre undici caserme;
- l'Arena; - il General Comando; - il Genio; - la Cancelleria militare in casa
Cagnola; - la casa Arconati in via di Brisa (alloggio di Radetzky); - i forni
militari; - l'Ospitale militare a S. Ambrogio; i granai militari a Porta Tosa;
- le case sul vicino baluardo presso la Polveriera; - il baluardo del monte
Tabor a Porta Romana; - il magazzino a S. Apollinare; - la Polizia generale e
gli altri suoi uffici di Piazza Mercanti, Andegari, S. Simone e S. Antonio; -
la Casa di correzione; - il Tribunal criminale; - il Tribunal civile; - il
Duomo; - l'Arcivescovado; - la Corte, provveduta anche di artiglieria; - il
Broletto in cui eranvi pure cannoni; - il Demanio; il Palazzo del Tesoro
(Marino); - la regia Villa al giardino pubblico; - il palazzo di governo; - la
Zecca.
La
giornata del 18 marzo era piovosa: - sembrava che la natura, prevedendo le
crudeltà che avrebbe commesse una soldatesca straniera, avversa agli Italiani
per la ragion stessa ch'era straniera, indispettita e resa feroce per l'odio
che conosceva esser nutrito contro di essa non per le nazioni a cui
appartenevano i diversi militari, ma per l'uso a cui eran diretti, cioè a
servir di strumento alla tirannide ultramontana, - sembrava che la natura
s'attristisse nella previsione delle crudeli lotte che si preparavano pei
Milanesi, e pel sangue che si sarebbe versato. - Era giornata piovosa,
melanconica, triste come il cielo sotto cui eran nati que' soldati: - ma in
mezzo alla tristezza della giornata splendeva il raggio dell'entusiasmo
popolare, e i cittadini ricordando i crudeli destini a cui avea anticamente
ridotta la città un tedesco imperatore, dal color della barba chiamato Barbarossa,
rammentaronsi ben anco Legnano e la vittoria ottenuta sull'alemanno oppressore,
- e giurarono vincere o morire, rammemorando l'ingiunzione delle madri spartane
ai lor figli
in partenza per la guerra, allorchè, additando lo scudo di cui eran muniti: Ritornerai,
dicevano, o con questo o su questo: ossia o vittorioso o morto.
«POPOLO DI MILANO!
Nell'interno
intanto della città gli avvenimenti prendevano una piega di una gravità
straordinaria. Ad un'ora circa pomeridiana, narra una storia contemporanea
(Racconti di 200 e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque
giornate in Milano. - Milano, presso Luigi Ronchi, 1848), comparvero dieci gendarmi
di cavalleria, comandati dal Commesso di polizia Zamara. Entrarono dalla Piazza
Mercanti e si presentarono di fianco alla piazza del Duomo. Il cavallo del
commesso cadde, ed allora un uomo del popolo arditamente s'interpose fra la squadra
ed il suo comandante, togliendo di mano ad un gendarme la carabina; indi,
rifugiandosi dietro una bara caricata di vino, con cui si fece barriera,
scaricò il fucile, spargendo il terrore e la confusione nei militari, i quali
chiesero soccorso ad un corpo di ussari alla Piazza Mercanti. Quel momento fu
il segnale della lotta, poichè lasciò campo
al distaccamento dei granatieri di guardia alla corte di fare una sortita.
A
questo cenno storico però della storia suaccennata, noi dobbiamo per omaggio
alla verità aggiungere che il signor Antonio Zamara in un suo opuscolo
intitolato: Giustificazione del cittadino Antonio Zamara sul di lui operato
nelle cinque giornate, ecc. (pubblicato dalla Tipografia Valentini e C.)
volle negare il fatto d'esser stato lui quello che capeggiava quella pattuglia,
cercò giustificare il proprio servizio nella polizia, asserendo ch'egli era
stato soltanto incaricato per la direzione del corso delle carrozze ed al
teatro della Scala sul palco scenico, e finalmente ritenne giustificare il suo
passato col far professione di fede liberale. Sebbene possa essere avvenuto
benissimo un errore di persona in quello che dirigeva la pattuglia di
cavalleria, dobbiamo però notare sulle altre giustificazioni che un impiegato
di polizia che immediatamente dopo il trionfo di una rivoluzione soglia
proclamare di esser sempre stato di sentimenti liberali, egli è lo stesso che
rendere molto sospetto quell'uomo, a meno che fosse un praticante soltanto;
giacchè l'Austria allorchè poneva a soldo un impiegato politico, voleva esser
ben garantita che avrebbe potuto far calcolo del suo zelo e della sua fedeltà.
Ma di questi casi di bugiarde professioni ne abbiam vedute molte; avendo
persino veduti commissarii superiori di polizia far da liberale appena partito
il governo austriaco. A questi impostori diremo di gettar la maschera con cui
hanno illuso il popolo e colla quale se ne sono approfittati per sedere a posti
elevati negli ufficii costituitisi subito dopo la rivoluzione nel 1848, come
dopo la partenza dei Tedeschi nel 1859: gettino la maschera giacchè l'Austria
non promoveva al grado di commissario superiore uomini de' quali non avesse
avute guarentigie sulla loro sincera adesione
al dispotismo. In nuovo governo potevano servire gli antichi impiegati: sta bene!
Sarebbesi con ciò compiuta un'opera di conciliazione, avrebbe il nuovo governo
usufruttato delle cognizioni che dà una lunga pratica d'ufficio acquistatasi,
avrebbe mostrato doversi ammettere la riabilitazione dell'uomo: ma io sprezzo
coloro che dopo aver servito fedelmente l'Austria, fecero il cerretano col
proclamare di averla tradita: questi son quelli capaci di disertare bandiere ad
ogni volger di casi. La giustificazione quindi anche del Zamara non può essere
rifiutata in tutto, ma accolta soltanto col beneficio dell'inventario.
Procedendo
quindi nella narrazione dei fatti avvenuti nel 18 di marzo, diremo che, dopo il
fatto da noi narrato, circa ad un'ora e tre quarti nella contrada di Pescheria
Vecchia (ora più non esistente, e la quale era situata nell'area attuale di
Piazza del Duomo che da Piazza Mercanti procede verso la galleria Vittorio
Emanuele, comparvero nove ussari a cavallo, i quali uscivano dalla porta di
Piazza Mercanti, che ora più non esiste, e roteando le sciabole intorno quasi a
sfida ai cittadini, procedevano baldanzosi.
Quel
guanto insultante di sfida fu raccolto dal popolo; imperocchè alcune persone
civili e pochi facchini, che videro l'atto provocante, corsero furibondi contro
il picchetto, gridando, imprecando e lanciando pietre. Il caporale, a briglia
sciolta, cominciò a scorazzare per la via e, roteando la spada, ferì in una
spalla un cittadino. Gli altri soldati, come se non avessero inteso il comando,
a lento trotto seguirono il caporale sino a Campo Santo, che allor chiamavasi
la strada esistente dietro al Duomo, oggidì chiamata pur essa Piazza del Duomo;
colà giunti, nè colla lor baldanza scoraggiando punto i cittadini, due dei
soldati furon rovesciati di sella ed uccisi da due colpi di fucile, usciti
dalle circostanti finestre, e cinque altri ussari rimasero feriti, e i loro
cavalli pure; ma malconci e coi cavalli zoppicanti potettero ritirarsi.
La
lotta era quindi impegnata seriamente, ed era quistion di vita al governo il
tentativo d'ogni sforzo delle armi per reprimere quei moti; com'era quistion di
vita pel popolo il sostenere arditamente la lotta, poichè ben conosceva dover
cercarsi salute nella vittoria, chè nella sconfitta avrebbe trovato morte sul
patibolo chi non l'aveva trovata nel combattimento.
Gli
ussari avevano rapportato l'avvenuto, e nuovi drappelli di soldati furon
spediti per le strade. Mezz'ora circa dopo la ritirata degli ussari,
sopravvennero nella stessa via, uscenti pure dalla Piazza Mercanti, dodici
gendarmi a cavallo, i quali furon da prima accolti dai cittadini con un nembo
di pietre lanciate contro di loro; ma poscia un prete da un balcone cominciò a
gridare ai cittadini mentre batteva le mani: No! No! essi sono Italiani.
Evviva la gendarmeria italiana! A quel grido cessò immediatamente la
pioggia di sassi, ed un gendarme in atto di riconoscenza fece colla spada un
segno di gratitudine al sacerdote. E il popolo rispettandoli perchè italiani,
li lasciò passare incolumi; ed essi senza provocazione alcuna procedettero
oltre e ritiraronsi nella corte reale. Ciò prova quanta generosità s'annidasse
ne' petti milanesi in momenti che l'odio per lo straniero e la concitazione
della pugna lo avevano esaltato nelle sue idee, ne' suoi affetti, ne' suoi
eroici propositi.
In
Cordusio si usò un particolare stratagemma. I cittadini deliberarono di
rimanersene più ch'era possibile celati, di lasciar entrare nella piazza le
pattuglie, ma, appena giuntevi, il popolo unanime li asserragliava con una ben
nutrita scarica di sassi da ogni finestra, ed una compagnia di dieci cittadini
armati di pistole dirigeva incessantemente fuoco sulla truppa.
Circa
le due ore e mezza, un drappello di truppa, guidato da un capitano dei
granatieri, portatosi verso Campo Santo, trovò impossibile procedere oltre,
giacchè dai tetti lanciavansi tegole e dalle finestre sassi in quantità sulla
sottoposta strada; dimodochè il drappello dovette indietreggiare sino agli
scalini del Duomo, ove giunto si pose a far scariche verso il corso e verso i
tetti presidiati dai cittadini armati di tegole. In quel punto il signor
Francesco Maglia, dalla propria casa in contrada dei Borsinari (or più non
esistente, e che era propriamente un piccolo tratto di via tra la Pescheria
Vecchia e la porta di entrata nella piazza Mercanti; porta or pure demolita), e propriamente
dalla casa che allora portava il N. 1029, munito di un fucile a due colpi,
caricato di quadrettoni, fece una scarica sul capitano, il quale, colto nel
petto, premette colla mano la ferita e ordinò immediatamente la ritirata.
Dalle
parte dell'arcivescovado si erano presentati poi i cacciatori tirolesi, e col
mezzo dei loro zappatori sfondarono a colpi di scure il portello del palazzo
arcivescovile nel cortile dei Monsignori. Quindi a colpi di scure atterrata la
porta che dal cortile mette alla via sotterranea conducente in Duomo, e di
porta in porta tutte sforzandole, potettero penetrare nel Duomo stesso, e di là
con facilità salire sullo spianato superiore, da cui apersero un fuoco ben
nutrito sopra i tetti onde scacciarne i cittadini che vi si erano posti per
offendere colle tegole le truppe pattuglianti nelle sottoposte strade; da
quelle alture mantennero anche vivo il fuoco in direzione della Piazza del
Duomo, del Corso e della via che dal palazzo di corte conduce a Piazza Fontana.
Dopo
il ritorno dall'irruzione al governo di quell'immensa moltitudine, come abbiam
già narrato, parte di essa erasi portata di nuovo al palazzo municipale, ed
altra parte, guidata dai lampionai della città in uniforme, andava dagli
armajuoli a sequestrar le armi onde armarsi.
Infatti
verso le tre ore buon numero di cittadini portossi alla rinfusa dall'armajuolo
Sassi in contrada di S. Maria Segreta, chiedendo invanamente armi, allorchè un
caso fortuito li obbligò a desistere. Ciò avvenne in causa dell'uscita dal
Castello a quella stessa ora di tutti i granatieri che vi si trovavano, aventi
un generale alla testa; questa truppa, diretta nell'interno della città, si
incamminò per la contrada di san Vicenzino, avente lo sbocco in piazza
Castello; colà, trovandosi ad un balcone molti signori e parecchie signore,
sbigottiti alla vista di quella truppa e temendo che essa vi si portasse per
intraprendere atti di violenza in causa della lotta che si era impegnata
altrove nella
città, quella comitiva signorile fece atto di rientrare spaventata: ma il
generale a cavallo ne li dissuase coi gesti, quindi colle parole, facendo lor
coraggio ed assicurando che non aveva alcuna cattiva missione da compiere a lor
riguardo. Ciò attestiamo in omaggio della verità, onde dimostrare che non ci suggeriamo
alla passione nello stendere queste pagine, ben riconoscendo che
nell'ufficialità austriaca eranvi pure ottimi elementi, e che quando trascesero
ad atti brutali, in maggior parte devesi far risalire ogni responsabilità al
governo di Vienna che aveva aperto un abisso di odii fra esso e gl'Italiani;
odii che si esplicavano poi contro l'esercito ch'era ritenuto strumento del
despotismo, senza considerare che l'esercito in mano de' tiranni viene esso
pure retto da tale tirannica disciplina da renderlo macchina e nulla più, e non
corpo morale intelligente e volente. La truppa però che da S. Vicenzino erasi
condotta pella contrada de' Maravigli, e quindi per quella di S. Maria Segreta,
sconcertò i disegni de' popolani ch'eransi colà concentrati onde forzare
l'armajuolo Sassi ad armarli. Alla vista della truppa la folla che ritrovavasi
aggruppata e minacciosa avanti la bottega d'armi, sorpresa dalla subitanea
apparizione si abbandonò alla fuga, non potendo del resto concepir proposito di
opposizione dal momento che ritrovatasi completamente inerme.
Rimase
così libero il passo alla truppa; ma ben altri avean divisato di disputarle il
passaggio, e il conduttore dell'albergo di S. Carlino ne doveva esserne capo.
Era
questi un tal Beretta Costantino il quale accortosi dell'agitazione ch'erasi
diffusa per tutta la città, aveva sin dal mattino tenuta la casa semichiusa;
aveva fatta forte provvisione di mattoni, di sassi e di quant'altro valesse a
recar offesa, ponendosi co' suoi all'erta di quanto potesse succedere. Allorchè
poi la truppa era entrata in quella contrada ed aveva veduta la fuga
dell'assembrato popolo avanti la bottega del Sassi, essa si era convinta di
potere invadere la città senza il menomo ostacolo e potersi recare ad occupar
le posizioni interne più opportune. Ma allorchè l'albergatore vide spuntar la
truppa in contrada, mandò tre suoi inservienti sul tetto, e altri otto collocò
alle finestre; la moglie stessa del Beretta non volle esser di meno del marito
in coraggio e s'adoperò attivamente al successo della lotta. Giunta la truppa
in prossimità dell'albergo, il Beretta diede l'ordine a' suoi d'incominciar
l'offesa. Spaventoso fu lo spettacolo di quella contrada! una grandine continua
di tegole, di mattoni, di sassi cadeva addosso ai soldati; e tale fu il fiero
ed accanito tempestar di dure materie dall'alto, che il generale fece ritrarre
alquanto i suoi soldati ed ordinò che aprissero il fuoco contro i rivoltosi.
Terribile
fu la lotta: - le scariche dei fucili s'alternavano rapidamente al grandinar delle
tegole: - la polvere prodotta dalle materie gettate dall'alto, il fumo che
s'elevava dalla strada per l'esplosione dell'armi da fuoco; il rombo delle
materie cadenti, e il fischio delle palle che s'incrociavano nel fulminar la
casa, le grida furiose dell'una e dell'altra parte, produceva un concento
diabolico, e presentava un quadro spaventoso, cui è sol capace di ridurre in
atto l'odio feroce degli uomini che si scannano o si schiacciano
vicendevolmente e senza pietà: - e che si scannano spesso perchè, ragionevoli
come pretendon essere, più irragionevoli si dimostran de' bruti col trucidarsi
a vicenda con furore insano e per causa il più spesso che non li riguarda
davvicino; qual era in fatta la lotta impegnatasi tra Milanesi e soldati, nella
quale le parti più non si capivano, non comprendendo alcuno che, pugnandosi per
la libertà e la indipendenza da forastiero governo, i soldati inferocivano per
causa non propria nella lotta, anzi in causa di chi li teneva aggiogati sotto
ferrea disciplina; - e i cittadini da lor parte non comprendevano nel furor
della lotta che que' soldati ch'erano contro a loro non eran altro che giovani
strappati colla violenza dal seno di lor famiglie per tramutarli col più fiero
dispotismo d'inumana disciplina in altrettanti strumenti de' capricci di un
uomo.
E
la lotta fu accanita da entrambi le parti, e durò molto. Il generale stesso fu
colpito da un vaso di terra sulla testa, e fu così malconcio dalla ferita da
dover esser trasportato da quattro soldati in Piazza Mercanti.
De'
militari non si conobbero i dettagli sulle perdite e sui danni, poichè si ebbe
cura di trasportare i feriti in Castello.
Il
vicinato, atterrito da quella lotta, molto si lagnò coll'albergatore
pell'imprudente attacco che poneva in pericolo tutti gl'inquilini delle
circostanti case; ma la lotta terminata poco prima delle quattro ore colla
vittoria cittadina rianimò anche i pusillanimi, rinfrancò i dubbiosi, assicurò
i protestanti contro il Beretta. La folla che aveva tentato di impossessarsi
delle armi dell'armajuolo Sassi, e che si era ritratta all'apparir della
truppa, essa fuggente riacquistò animo e ritornò all'impresa contro la bottega
del Sassi; questa volta con miglior fortuna; poichè, riuscita ad atterrarne la
porta, essa vi penetrò, requisì tutte le armi e le distribuì secondo il
bisogno.
Dalla
parte del Genio militare, ch'era situato nella via del Monte di Pietà, e
propriamente ove ora sorge il palazzo della Cassa di risparmio, due compagnie
di linea avevano fatta una sortita ed eransi dirette pella contrada del Monte
Napoleone. La via era deserta, cupa, chiuse le botteghe e le griglie; allorchè,
giunta quasi alla casa Melzi, un colpo di fucile partito da una finestra stese
cadavere un soldato e un altro lo ferì. Il mistero che circondava le fucilate
del popolo, non vedendosi da dove partissero, intimorì la truppa, paventando di
cadere in qualche agguato se procedeva; talchè risolvette di retrocedere, come
retrocedette infatti, seco trasportando il soldato ferito.
Alla
ritirata della truppa temendo i cittadini non ritornasse essa alla riscossa con
rinforzi, barricarono la via con quanto fu a lor dato. Dalla chiesa di S.
Francesco da Paola levarono tutti gli attrezzi e le canne dell'organo che era
in costruzione, adoperandoli per barricare il corso di Porta Nuova, appoggiando
la barricata alla casa Merini. Lo sbocco del Monte Napoleone venne chiuso con
un carro da botti e col carretto del vicino lattivendolo. Per assicurare que'
paraggi, barricaron pure gli sbocchi della Croce Rossa e della corsia del Giardino.
Dalla parte poi della contrada dell'Annunciata costrussero barriera colle
tavole e colle travi che servivano alla fabbrica della casa D'Adda.
Finalmente asserragliarono i portoni di Porta Nuova con una carrozza capovolta.
Verso
le quattro ore uscì dalla Direzione di Polizia una pattuglia di 20 ussari a
cavallo; ma un drappello di operai-tipografi, diretto da Luigi Camnasio, che
sino dalla mattina era stato incaricato di sorvegliare la Direzione di polizia,
salito sul tetto della casa esistente di contro a quella, perseguitò la
pattuglia di cavalleria con sassi e con tegole che dall'alto lanciava nella
sottoposta via. Due ussari essendo stati feriti, gli altri soldati scaricarono
le armi da fuoco contro le finestre, e quindi spronarono i cavalli verso il
teatro della Scala. In capo però alla contrada di S. Margherita, dal lato della
piazza del teatro, trovarono chiusa la via dalla catena che a' quei tempi
usavasi porre attraverso di sera onde impedire il passaggio delle carrozze per
quel punto, e che in quel giorno era stata stesa dai cittadini onde servir di
barriera contro la cavalleria. Tentò la pattuglia di superar l'ostacolo, ma
altri cittadini, appostati nell'atrio del teatro, la bersagliarono coi fucili
da caccia; talchè la pattuglia dovette retrocedere in disordine onde ripararsi
nel locale della Direzione di polizia. Ma giunta ivi, trovovvi chiusa la porta;
e, mentre dal tetto della casa prospiciente lanciavansi tegole, gli ussari
inferociti dal pericolo si posero a percuoter la porta colle sciabole e ad
urtarla con forza coi cavalli che vi spingevano indietreggiando. Gli sforzi,
commisti alle bestemmie, non valsero a sfondare nè a farsi aprir la porta; anzi
una scarica di fucili fatta dal locale di polizia rovesciò di sella un ussaro.
Era una scarica fatta dai poliziotti che, temendo per sè nello aprire, vollero
allontanare i proprii fratelli d'armi col ferirli. Ma gli ussari, circondati
dai projettili lanciati d'ogni parte, raddoppiarono gli sforzi, sinchè
riuscirono a sfondar finalmente la porta della polizia e ricovrarvisi.
Dal
locale di polizia si aperse fuoco allora in ogni direzione: i soldati accortisi
che una mano di cittadini stava dai tetti gettando sassi e tegole, salirono pur
essi sui tetti del locale di polizia e diressero il fuoco a quei punti
culminanti. Bersagliati dalle fucilate, dovettero i popolani ritirarsi da' quei
tetti e scendere a combatter per le strade.
Nello
stesso giorno e alla medesima ora veniva affisso ai muri della città e diffuso
anche a mano il seguente bando:
«L'Europa
ha gli occhi su di noi per decidere se il lungo nostro silenzio venisse da
magnanima prudenza o da paura. Le provincie aspettano da noi la parola
d'ordine. Il destino d'Italia è nelle nostre mani; un giorno può decidere la
sorte di un secolo.
«ORDINE! CONCORDIA! CORAGGIO!»
Al
dopo pranzo alcuni giovani avevano tentato di costruire barricate a Porta
Ticinese; ma il loro eccitamento non era stato secondato, perchè, rotte
com'erano le communicazioni coll'interno della città, nessuno voleva credere
alla notizia dello scoppio della rivoluzione nelle altre parti di Milano. Le
svariate, esagerate, contradditorie notizie che i novellieri cialtroni usano
nei momenti di lotte cittadine inventare od esagerare per farsi credere
conoscitori degli avvenimenti, avevano infiltrata quella diffidenza che
scoraggia e paralizza i forti propositi.
La
Congregazione municipale continuava intanto le sue sedute in Broletto, ove
accorrevano in folla i cittadini ad inscriversi nella Guardia civica. Presiedeva
a quest'operazione il generale Teodoro Lecchi e l'impiegato municipale Luigi
Manzoni. Le inscrizioni procedevano più regolarmente ch'era possibile, ma al
momento della distribuzione delle armi si diffuse la notizia che esse mancavano
perchè Torresani non aveva voluto ottemperare agli ordini di O'Donell,
ritenendo invalida ogni determinazione da lui emessa sotto la coazione della
prigionia. E invero Torresani rifiutò recisamente la consegna dei fucili delle
guardie di polizia. Non restavan quindi per armare il popolo che le poche armi
prese nelle officine di Sassi e di Calabresi, state poi pagate dal Municipio, ma
che non bastavan del certo alle esigenze del bisogno. Essendo stato nominato
Bellati a reggere la
nuova polizia, in seguito al decreto di O'Donell, col quale scioglieva la
polizia antica, ogni trattativa non approdò a qualsiasi favorevole risultato.
Radetzky
pure aveva dichiarato di ritenere come nullo ogni ordine di O'Donell,
valutandolo come estorto dalla pressione esercitata nella sua cattività per parte
dei rivoluzionarii. Anzi il maresciallo, convenendo pienamente nell'operato di
Torresani, invece di armi spedì armati. Un forte drappello di granatieri fu da
lui mandato al Broletto, ove giuntovi, entrò dalla parte di S. Nazaro
Pietrasanta (ora via Giulini), irruppe per le scale che conducevano agli
ufficii della Delegazione, arrestò quanti incontrò e fece per tradurli seco in
Castello. Se non che i granatieri trovarono opposizione in una mano di giovani
armati di fucili e di qualche vecchia alabarda. Scesi in corte i soldati, si
trovarono da un drappello di altri popolani minacciati alle spalle; talchè,
senza poter condurre gente arrestata con sè, studiaron modo di ordinatamente
ritirarsi.
Appena
partiti, il popolo conobbe il pericolo di venir di nuovo invaso quel luogo e ne
chiuse le porte, lasciando aperto il solo sportello dalla parte di S. Nazaro.
Infatti
Radetzky, indignato dalla forzata ritirata de' granatieri, pensò al modo di
riprender più tardi quel luogo stesso.
Passando
ad altro punto della città, abbiam veduto che O'Donell era stato condotto in ostaggio
in casa Vidiserti al Monte Napoleone, dove pose sede il quartier generale
dell'insurrezione.
Si potrà censurare la disposizione delle due sedi, municipale e quartier
generale rivoluzionario, così distanti l'una dall'altra: ciò non può essere
obbietto di censura quando si conosca la ragione che obbligò a trovarsi così
distanti quei due ufficii dirigenti della rivoluzione.
Abbiamo
noi ommesso di dire che allorquando il conte O'Donell veniva scortato come
ostaggio in potere del popolo insorto, egli veniva diretto al palazzo
municipale; ma, giunta la comitiva nella via del Monte, si scontrò con un
centinajo di soldati che fece una scarica contro di essa. Il podestà col prigioniero
rifugiossi allora nella casa Vidiserti, e fu per questo fortuito caso che
l'autorità municipale, ricapito dei cittadini e quartier generale dei
combattenti, si trovò in luogo così remoto dalla sua sede. Ed è per questo che
Radetzky, ignorando tal fatto, e ritenendo O'Donell prigioniero in Broletto,
diede tanta importanza all'occupazione militare del Broletto.
Terribile
era intanto l'aspetto di Milano!... Barrate le strade, scoverti i tetti, un
grandinar continuo di tegole dall'alto, uno scagliarsi violento di sassi dalle
finestre, il sibilo delle palle della moschetteria, il rombo del cannone, le
grida di gioja furente del popolo insorgente, gli urli e le bestemmie di una
soldatesca inferocita nella lotta, un cupo cielo coperto di nubi, e che di
quando in quando mandava acqua, - tutto ciò rendeva terribile l'aspetto della città...
Ma ciò che infondeva un cupo sentimento di malinconia era il monotono squillo
delle trombe del popolo che cupamente echeggiava per l'aere già cupo: - erano
desse le campane suonate a stormo! Era il suono terribile a' despoti, e che
fece lor sempre rintronare all'orecchio che anche il popolo ha la sua forza;
anch'esso i suoi colpi di Stato: talchè quando Carlo VIII, re di Francia,
usufruttando delle italiane debolezze scese
per l'Alpi e passò a Firenze, dove accolto come amico nel 1494 volle di poi
dettar patti da conquistatore, Pier Capponi mentre il segretario del re leggeva
il tenor degli oltraggiosi patti dell'assemblea dei cittadini stupiti ed
angosciati, Pier Capponi sorse, strappò di mano al segretario la carta, la fece
in pezzi, sclamando al re con fiero accento: Ebbene! voi suonate le vostre
trombe e noi suoneremo le nostre campane; - e bastò la tremenda minaccia per
fiaccare l'orgoglio del re e fargli mutare i patti.
E a
Milano la voce di un popolo irato si fece udire negli squilli a stormo di sue
campane: un popolano era salito sul campanile di S. Pietro Celestino, aveva
afferrato il battaglio della maggior campana, e cominciò a martellare.
Risposero tosto allo stormo la chiesa di S. Carlo e quella di S. Babila; e
quindi, a brevi intervalli, quelle degli sgombri quartieri. E questo suono che
sempre più si propagò e non cessò che col cessare delle offese nemiche,
mentr'esso infondeva terrore nel nemico, nello stesso tempo incorava gl'insorgenti,
dando certezza ai lontani che quella chiesa, quel rione erano sgombri.
Sull'Angelo
di S. Paolo quindici giovani armati di fucili da caccia guardavano quel punto e
fecero retrocedere le truppe accorrenti per impadronirsi della corsia, e
ricacciarono la guardia che si trovava al tribunale criminale, la quale aveva
pur tentato di farsi strada pella corsia. Vittima in quell'eroica difesa fu
Tomaso Barzanò, giovane di 23 anni, ricco, patentato ragioniere da poco tempo,
da una palla tedesca fatto cadavere al posto ove il bisogno della patria lo
aveva collocato.
Un
amico di Barzanò gli tenne compagnia in altra vita. Fu questi Ferranti
Cadolini, ventenne appena, studente universitario, orfano di padre e conforto
alla vedova madre, che armata la mano di carabina, ove fuvvi pericolo accorse,
timor non conoscendo si battette da forte, finchè, collocato a difesa dello
sbocco della contrada di S. Raffaele, fu da uno de' Tirolesi, appiattato fra le
aguglie del Duomo, ucciso con una fucilata in una gamba.
Intanto
scorrevano le ore pomeridiane fra eroici fatti di gente quasi inerme che si
scontrava contro agguerrite schiere: e mentre
Lo
giorno se n'andava e l'aer bruno
Toglieva
gli animai che sono in terra
Dalle
fatiche loro(Dante, Inferno Canto
III)....
non
ristavano i prodi dalle incominciate imprese e non si curavan di riposo; ma
d'altra parte le truppe inferocite dalla resistenza e dai disagi, e dall'odio
che lo straniero idioma sollevava, non ozieggiavano in brutali atti. Anzi
narran le storie contemporanee che sul far della sera una pattuglia di croati
scortando prigioniero in castello un giovane milanese, perchè questi protestava
di innocenza e s'opponeva conseguentemente alla traduzione e resisteva co'
pugni, i soldati lo strangolarono e l'appiccarono ad una lampada. Nè i superiori,
conosciuto il fatto, lo riprovarono, ma risero sanguinosamente all'inumano
dramma ed eccitaron le truppe a riprodurlo in altri. Aggiungon poi quelle
storie che otto detenuti politici che si trovavano degenti nella Rocchetta del
castello vennero fucilati per ordine del supremo comandante, e che alcuni
cadaveri di quegl'infelici vennero barbaramente
gittati nella fossa che trovasi nella terza corte del castello.
Parziali
scaramuccie eransi verificate nel vespero di quel giorno; le più sostenute da
parte del popolo colle sole armi dei sassi o con qualche fucile da caccia.
Nei
Martiri della rivoluzione lombarda(Venosta, I martiri della rivoluzione lombarda. - Milano 1862) rileviamo che una forte
compagnia del reggimento fanti Baumgartten, venendo dal ponte di Porta Romana,
fu di contro alla chiesa di S. Nazzaro accolta con una tempesta di sassi. I
soldati vi risposero colle schioppettate; ed il popolo centuplicò
la sua mitraglia. L'ira traboccava da ogni animo, ed ogni soldato che cadeva
era accompagnato dal grido di: Viva l'Italia, e da un batter di mani.
Gioia invero feroce quella di gioire sulla morte di un uomo, a qualunque
nazione appartenga od a qualunque opinione, ma è un necessario effetto di
quella terribile concitazione che vien generata in una lotta di sangue. La
lotta non fu allora tanto breve: perduti un ufficiale e quattro soldati, il capitano
riordinò la compagnia e le comandò di avanzare verso la contrada Larga. Giunta
la compagnia nella contrada Velasca, dopo aver lasciati due altri soldati morti
all'angolo del teatro Lentasio, essa dovette soggiacere a nuove perdite;
imperocchè dalla casa Borgazzi all'angolo di Poslaghetto i fratelli Longhi, con
tutti gli amici che si trovavano in casa, apersero un vivo fuoco co' loro
fucili da caccia contro la truppa, la quale tenne fermo per quasi mezz'ora,
rispondendo alle
fucilate con
ben nutrite scariche di fila; finchè, decimata, sgominata, si aperse un varco
per la contrada di Pantano, ad ogni rumore sostando incerta e paurosa,
giungendo finalmente senza molestia sulla piazza di S. Ulderico. Quivi una barricata
interruppe il suo cammino: barricata assai estesa, che dall'angolo della via
degli Osti si appoggiava all'altro lato della piazza. Un colpo di fucile
scaricato dalla casa Biumi da un certo Cesana, praticante in legge, e un vaso
di fiori lanciato in pari tempo dalla casa di contro, ferirono due soldati, uno
de' quali mortalmente, e furono il segnale di un nuovo attacco. Ma non rispose troppo
energicamente la truppa, la quale consacrò ogni studio ad aprirsi un varco
attraverso la barriera, e con soverchia pena potette ripararsi sotto il Cascinotto,
or più non esistente, formato allora da un'ampia tettoja, d'onde poi si
partirono. E molestati ad ogni passo, decimati, di numero, stremati di forze,
scoraggiati da quella lotta misteriosa e di nuovo genere, raggiunsero il
palazzo di Corte
e vi si ripararono.
Partiti
appena i soldati dal cascinotto, irruppero dalle case molti ardimentosi
cittadini, corsero a quel punto, e con attività prodigiosa si posero ad
abbattere quella tettoja onde non avesse più a servir di riparo a nuove truppe
sopravvenienti.
In
contrada del Bocchetto pur si combattette: fu lotta di un'ora, ma lotta di
leoni: de' soldati molti furon feriti e quattro morti: de' Milanesi si lamentò
la perdita di Giovanni Tazzini, giovane di 23 anni circa, bene educato,
impiegato nella cavallerizza vicereale. Spazzata la via per un istante, il popolo
l'asserragliò di poi, adoperando in gran parte i libri bolletarii presi
nell'ufficio del Bollo, ove trovavansi in grande quantità.
Pachta
che durante la lotta interna erasi rintanato in un nascondiglio del proprio appartamento,
verso le sei ore pomeridiane erasi affacciato alla finestra del secondo piano
al rumore
di truppa pattugliante, chiamò il comandante di essa, e, tenendo per mano la
contessa di Spaur, si fece da' soldati scortare al bastione e quindi in
castello, approfittando dell'oscurità, inquantochè le dense nubi che
ingombravano il cielo avevano anticipata la sera.
Trenta
furono le vittime cittadine - furon trenta martiri pella patria, - perchè tutti
caddero per essa e col nome d'Italia sulle labbra.
Le
figure più salienti in quel giorno furon Cattaneo, Cernuschi e Casati.
Di
Casati e di Cattaneo ecco come ne parla uno storico: «Due personaggi d'indole
diversa si distinsero nei cinque giorni della memorabile lotta che i Milanesi sostennero.
Il conte Casati, uom timido, misurato, spinto a mescolarsi nei pubblici affari
dalla sua qualità di primo magistrato del Municipio, piuttosto nemico della
dominazione austriaca che partigiano di libertà, e non curante meno di sè che
della patria, aveva, in tempi varii e secondo i casi, ricevuto onori dall'imperatore
d'Austria e dal re sardo; perocchè, prevedendo la nimistà che doveva bentosto
dividerli, non sapeva da quale parte tenersi, ed attendeva con ansia gli eventi
per gettarsi dal lato del padrone che vedesse dalla fortuna favorito. Era
altr'uomo Cattaneo. Profondo filosofo, abituato a vita meditativa, capo del
partito nazionale, metteva il dispregio forse troppo assoluto di ogni interesse
di casta o di corte fra
i doveri del suo amor per la patria. La sua energia era grande, immensa
l'influenza del suo nome sul popolo, ma non agguagliava Manin, mancandogli il
talento pratico di costui, la temerità, il genio vero delle rivoluzioni. Egli
dava alle idee un'importanza che non hanno, credendo che dispongano del mondo;
però, là dove Manin agiva e trascinava dietro di sè le masse ignare, Cattaneo
dava consigli e temeva esser solo a volere (Ugo Sirao, Storia delle rivoluzioni italiane dal 1846 al1866.
Milano 1867)».
Cernuschi
era giovane ardito, intelligente, energico, amante di Cattaneo: vestiva sempre abito
nero, talchè gli si diede sopranome di abate milanese, con cui, e non
altrimenti, fu dal popolo chiamato nei primi giorni. Quando egli appariva in
pubblico, ognuno salutava festosamente l'abate, ritenendolo foriero di
vittoria: facile oratore, pronto ad espedienti, premuroso ne' consigli, freddo nei
pericoli, audace nella pugna, egli inspirava fiducia a tutti: - il suo sguardo
di fuoco poi elettrizzava, magnetizzava.
Epigrammi
e versi non pur mancavano all'occasione: alla piazza Mercanti furon trovati affissi
i seguenti versi:
Se
tu senti alcun che è spia
Di':
È un raggir di polizia
Per
distrugger l'influenza
Di
fraterna confidenza.
Questi
versi alludevano ai raggiri della polizia austriaca di far credere come suoi
confidenti gli eccellenti patrioti onde screditarli presso le masse popolari.
Per dare un esempio di ciò, citeremo le notizie diffamatorie diffuse su molti
profughi, tra i quali il dottor Belcredi, onesto padre e marito e medico assai
studioso; nonchè sul conto del conte Vittaliano Crivelli, decoro e tutela operosissima
di Milano. A queste cabale della polizia alludevano poi anche i seguenti versi
che giravano manoscritti in quei giorni:
Era
bella testè la confidenza
Che
i figli avean tra lor di Lombardia;
Formava
quell'universal credenza
Il
massimo terror di polizia.
Che
fece? ella gittò la diffidenza,
I
più caldi spacciando oggi per spia;
Ma
noi, squarciando i tradimenti suoi,
Tornar
sapremo in union fra noi.
All'invasione
avvenuta del Broletto, la Congregazione municipale ne aveva fatto chiedere a Radetzky
per lettera la ragione, inquantochè ritenevasi il municipio nelle vie legali
dopo i decreti di O'Donell.
Ma
il maresciallo non dava valore alcuno a decreti firmati in uno stato di
prigionia; anzi ritenendo per certo che nel Broletto vi si trovasse il podestà,
il quartier generale dell'insurrezione ed O'Donell prigioniero, voleva ad ogni
costo impossessarsi di quel luogo. Egli rispose quindi alla Congregazione
municipale colla seguente nota, che spedì accompagnata da una mezza divisione (una
compagnia) di granatieri:
«Il
Maresciallo Radetzky alla Congregazione Municipale della regia città di Milano.
«Dal
Castello di Milano, 18 marzo 1848.
«Dopo
gli avvenimenti della giornata non posso riconoscere i provvedimenti dati per
cambiare
le forme del Governo e per riunire e per armare una Guardia civica in Milano.
Intimo a codesta
Congregazione Municipale di dare immediatamente gli ordini pel disarmamento dei cittadini,
altrimenti domani mi troverò nella necessità di far bombardare la città. Mi
riservo poi di far
uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere per
ridurre all'obbedienza una
città ribelle. Ciò che mi riuscirà facile, avendo a mia disposizione un
esercito agguerrito di 100,000
uomini e 200 pezzi di cannone. Aspetto al momento un riscontro alla presente
intimazione.
«RADETZKY, Maresciallo.»
Quella
lettera spedita alle ore 8 di sera, fu poco dopo ricevuta dall'assessore
Greppi, che vi rispose
come doveva un rappresentante di un popolo risorto che aveva tutta la dignità
della personalità
conculcata ed oltraggiata.
Ma,
portata al maresciallo la risposta, un colpo di cannone partito dal Castello
rese avvertiti i
difensori del Broletto che altra determinazione non vi era a prendersi che
cedere o combattere disperatamente.
Tutti
conchiusero per la pugna: - tutti gridarono esser pronti a morire per la
patria!... Pochi erano
i difensori ch'entro vi si trovavano, ma tutti risoluti a vender cara la vita
ed a non capitolare col
nemico. Eranvi fra i difensori molti ragazzi, i quali mostrarono come per la
libertà anche l'adolescenza
sappia morire.
Nel
cortile del palazzo civico sopraggiungeva in quel mentre, portato a braccia, un
ferito: era
un prode popolano il quale, assalito al ponte Vetero da più Croati, si era
difeso con una pistola, e,
ferito da colpo mortale alla testa, era caduto. Ma il popolo era accorso a
risollevarlo da terra e lo aveva
trasportato nel Broletto, ove rendette lo spirito al Creatore, confortato da'
suoi fratelli.
Molta
truppa s'incamminava alla volta del Broletto. Un battaglione di Boemi,
capitanato dal maggior
Lillia, e altre truppe procedevano dal ponte Vetero per la contrada del
Broletto; ma giunti i soldati
alla chiesa di S. Tomaso, una grandine di tegole, di sassi e di schioppettate
li obbligò a ritirarsi,
lasciando sul terreno parecchi de' loro.
Altra
vittima di quel fatto fu Antonio Boselli, ch'era accorso alla difesa del
palazzo civico.
In
mezzo al trambusto di quegli istanti che precedettero l'assalto dei croati, fu
udito gridare: Alle finestre!
Alle finestre! Fu quindi osservato affacciarsi egli ad una finestra, mettervi fuori la
canna di un
fucile, aggiustarne la direzione sul nemico ed esploderlo; ed, esploso,
ricaricarlo e per più volte esploderlo sui soldati. Ansioso di combatterli più
da vicino, abbandonò la finestra e scese in strada:
vi
uscì coraggioso coll'arme in pugno, nè lasciò raffreddarsi la canna del fucile;
ma non per molto, che un croato gli fu sopra e lo ferì d'un colpo di bajonetta
presso all'inguine. Ferito, cercò riparo dietro una barricata; ma poco dopo due
colpi di moschetto lo colpirono e lo ferirono nuovamente.
Ferito
com'era, tentò trascinarsi sino alla sua abitazione, situata nella contrada de'
Clerici, e riuscì a condurvisi. Addolorò sino alla mattina di lunedì e spirò
confortato dalla moglie e da due sue bambine.
Al
Broletto si conobbe allora esser venuto il momento di una resistenza disperata:
- e tutti furon pronti a sostenerla.
Riteniamo
molto proficuo di dare la descrizione della difesa e dell'assalto del Broletto
colle parole stesse di uno che vi si trovava dentro; il bravo medico Luca
Cozzi.
«Deliberata
la resistenza, senza che il municipio più se ne ingerisse, si attese
prestamente a preparare la pugna. Chiuse le porte, ammucchiati davanti ad esse
i sacchi delle granaglie che, come in luogo di mercato, ivi si trovavano;
barricate le porte stesse, per maggior sicurezza, e chiuso
anche
lo sportello. Un colpo di cannone del Castello rispondeva a tali procedimenti;
ed a quel colpo tutti intrepidamente si fecero innanzi, pronti a sostenere
l'assalto.
«Non
più che 50 erano i fucili; e molti, che pure avrebbero bene adoperate l'armi,
ne erano privi. Più scarse ancora erano le munizioni; avevamo poca polvere, e
le poche cartucce trovate nel corpo di guardia dei pompieri. Questi, in piccol
numero rimasti in Broletto, ajutarono alla difesa; e principalmente guidarono
sui tetti quelli che avevano a gettar le tegole. Le finestre del Broletto, che guardavano
verso strada, furono accomodate a feritoje, tranne quelle della famiglia del
delegato. Di questa guisa e con tali provvedimenti, si potè combattere per ben
due ore. L'inimico non tardò a venire all'assalto.
«Irrompevano
gli Austriaci da ogni lato. Il Broletto era investito dalle contrade,
bersagliato dai soldati che s'erano impadroniti dei tetti delle case vicine. I colpi
di cannone spesseggiavano dalla contrada di S. Marcellino e dall'angolo del
Rovello. Alcuni pontonieri mandati innanzi ad atterrare le porte, cadevano
percossi dalle tegole. Poco frutto invero faceva anche il cannone; i colpi arrivavano
obbliqui. Ma indi a poco, occupate tutte le contrade vicine, il nemico piantava
di contro alla porta i due cannoni. Ma l'angustia della via non gli consentiva
di adoperarli così da presso.
Continuava
colla moschetteria, e intanto sfondava due botteghe che erano dirimpetto alla
porta, e vi faceva entrare a coperto i due cannoni. Procacciato a questo modo
anche maggiore spazio ai cannonieri, dava opera a colpire la porta. Pareva che
l'edificio ruinasse dalle fondamenta. La porta cedette a quella furia; una
breccia fu aperta; l'inimico poteva agevolmente entrare.
«Il
Broletto sonava intanto la sua campana a stormo; inutilmente! era impossibile
al popolo, per quelle vie anguste, affollate di nemici, avvicinarsi al luogo del
combattimento. Rispondeva il nostro fuoco dalle finestre, ma scarsi erano i
tiri, le munizioni mancavano. Ci ajutavamo colle tegole, con ogni oggetto atto
a percuotere. Con cinquanta fucili combattemmo, dalle ore 7 alle 9, contro a
due o tre mila Austriaci. Nessun disordine avvenne durante la difesa. Tutti
obbedivano quasi per istinto e senza bisogno d'indirizzo. A caso ivi si trovava
il general Teodoro Lecchi, il quale rimase quasi inoperoso. A dir il vero,
qualche consiglio per la difesa aveva dato in principio, ma visto il
soverchiante numero degli assalitori, proponeva una capitolazione. Nessuno
accettò.
Come
abbiamo detto, a nulla più servivano le armi, perchè finita la polvere. La
resistenza tornava inutile; ma la capitolazione pareva troppa vergogna. Certi
di veder entrare il nemico, pensammo a nascondere i fucili per non lasciarci
cogliere coll'arma in mano. Alcuni non vollero aspettare gli Austriaci, e,
mentre questi irrompevano dall'una banda, si calavano con corde dalle finestre
nelle vicine case. Altri volevano con l'armi in mano farsi strada. Ercole Durini
era fra questi. Tuttavia prevalse l'opinione dei più, quella cioè di restare
immobili, poichè la difesa era impossibile, ma senza scendere a pratica
d'accordo.
«Più
tardi così avveniva a Roma; e fatta ragione della varia grandezza del caso,
osserveremo che il popolo sente allo stesso modo la propria dignità. I pochi
Milanesi chiusi in Broletto, come il fiore d'Italia in Roma, si rassegnarono a
un fatto; ma non lo suggellarono con ignominiosi accordi.
«Entrava
furiosamente la truppa ad occupare i cortili. Erano all'incirca 2000 fra boemi
e croati; avevano modi feroci, scaricavano i fucili contro le finestre;
menavano colpi all'aria; nelle sale guastavano gli arredi. Gli usci che
trovavano chiusi, sfondavano colle scuri dei guastatori.
Alcuni
percotevano gli inermi; altri strappavano loro di dosso persino le vestimenta.
Altri più feroci, andati sui tetti, e trovati quivi alcuni ragazzi, li
precipitarono nella via. Il sangue cittadino si versava da una soldatesca ebra
di furore, mentre nessuna resistenza più si opponeva. Noi, che assistemmo a
quella scena spaventosa, non vi possiamo ripensare senza un fremito di dolore e
d'ira; cacciati da stanza a stanza, i più de' nostri s'erano rifugiati nell'appartamento
del regio delegato (Bellati); appartamento che venne pure invaso, e
sfrenatamente saccheggiato. A raffrenare quelle turbe indisciplinate non valeva
la presenza di un maggiore di croati Ottocani, uomo d'indole men bestiale degli
altri, e che pure s'ingegnava d'acchetare i più furiosi. Nè meglio valeva la
presenza dello stesso delegato, nè quello di sua moglie circondata dai figliuoletti,
uno dei quali, ancora infante, le pendeva dal collo. Il maggiore da noi
mentovato dichiarava tutti i raccolti nelle sale del delegato esser prigioni di
guerra; dimandava l'immediata consegna delle armi; al qual uopo aveva
condotti
seco due carri per trasportarle. E non è a dirsi la sua meraviglia, allorchè
vide co' suoi occhi tutte le armi raccolte non oltrepassare il numero di
quaranta fucili.
«Alcuni
dei nostri ripararono nella sala di consiglio, tramutata in infermeria. Io mi
trovava in quel luogo, e come medico, con altro compagno, attendeva alla cura
dei feriti. Questi erano in tutto otto o dieci tra i quali un caporale boemo.
Ivi fummo pure raggiunti da altri che fuggivano il primo impeto dei soldati
furiosi; udivamo farsi vicine sempre più le loro grida; c'intronavano l'orecchio
i colpi furiosi che davano agli usci, i quali cedevano sfondati sotto le scuri.
Irruivano finalmente i soldati nella sala, ma in luogo di trovare uomini armati,
vedevano alcuni materassi accomodati alla meglio, sui quali agonizzavano i
feriti. Il coadjutore di S. Tomaso, con la stola e l'olio santo, andava
confortando qualche moribondo. Alle sue preghiere, mormorate tra il terrore d'una
morte imminente anche per lui, si mescevano le bestemmie croate e boeme.
Tuttavia quella vista valse per qualche istante e frenare l'impeto di que'
truci, e a inspirar loro men fieri sensi: ma passato quel primo stupore, gli
officiali salirono in nuovo furore, esclamando: «Come? anche ambulanza?
dunque tutto qua preparato!» E stavano per inveire con noi, che medicavamo i
feriti.
Per buona ventura, il caporale ferito potè mitigare la stolta ira di quegli officiali, dicendo come fosse stato umanamente accolto. Dichiarati prigionieri di guerra, ci udimmo annunciar prossima la nostra partenza dal Broletto al Castello. Otto guardie rimasero alla porta della sala per custodirci.
«Intanto s'avanzava la notte; durante la quale, avemmo la visita d'un officiale d'artiglieria.
Notava i nostri nomi, la nostra condizione e il nostro domicilio. Quell'ufficiale usò verso di noi modi scortesi e minaccevoli. Indi a poco, altra visita ci veniva d'un commissario di polizia, il quale ripeteva le stesse interrogazioni. Ma ciò che maggiormente ci dava fastidio erano le crudeli villanie dei soldati di guardia, i quali non rispettavano i sani nè i moribondi. Uno dei nostri stava spirando, e nella stretta della morte mandava qualche gemito. Incredibile a dirsi! il rantolo d'un morente era colpa avanti a quei soldati ubbriachi che lo ferirono di bajonetta.
«Intanto s'avanzava la notte; durante la quale, avemmo la visita d'un officiale d'artiglieria.
Notava i nostri nomi, la nostra condizione e il nostro domicilio. Quell'ufficiale usò verso di noi modi scortesi e minaccevoli. Indi a poco, altra visita ci veniva d'un commissario di polizia, il quale ripeteva le stesse interrogazioni. Ma ciò che maggiormente ci dava fastidio erano le crudeli villanie dei soldati di guardia, i quali non rispettavano i sani nè i moribondi. Uno dei nostri stava spirando, e nella stretta della morte mandava qualche gemito. Incredibile a dirsi! il rantolo d'un morente era colpa avanti a quei soldati ubbriachi che lo ferirono di bajonetta.
«Come
medico, fui richiesto quali fossero i feriti in condizione di essere
trasportati all'ospitale. Accennai i meno gravi, cercando di porre in mezzo ad
essi anche alcuni di quelli che, giunti in Castello, avrebbero corso pericolo
di essere immediatamente moschettati. Intorno a un moribondo rimasi io col
prete, non più liberi degli altri, ma solo per compiere il supremo dei doveri.
Nè potrò obliar mai la scena dolorosa di cui dovetti essere attore. Coloro che
venivano trasportati in Castello, fra i quali erano amici miei o conoscenti,
credendomi lasciato libero, mi caricavano di messaggi per le famiglie loro.
Erano figli, padri, fratelli, che, ignari del destino che li aspettava in
Castello, pregavano andassi a confortare i parenti, a ragguagliarli del loro
caso. Era un testamento quasi che affidavano alla mia memoria; nè sapevano che
io pure aveva a correre più tardi lo stesso periglio. «I prigionieri furono
condotti in Castello in due stuoli. Primi ad avviarsi furono quelli che eransi
côlti nelle sale del delegato e nei cortili: erano da centoventi; furono fatti
discendere verso mezzanotte, ed ordinati in fila, a due a due, uscirono,
preceduti e seguiti da cannoni e da unatriplice siepe di soldati. Dipoi si
facevano uscire allo stesso modo quelli côlti nell'infermeria: quaranta circa.
Tennero nell'andare in Castello le vie S. Nazaro Pietrasanta, Rovello e Cusani.
Durante il tragitto ebbero a patire offese d'ogni maniera; si mandavano innanzi
a furia di percosse; si manacciava loro la fucilazione, la forca. I croati,
storpiando la nostra favella, andavano gridando:«Subito piecara.» I feriti che
mal potevano camminare, quelli che pel selciato smosso o per l'ingombro delle
tegole inciampavano, erano mandati innanzi a calciate di fucili, o a pugni sulvolto.
Ed era tanto quel pazzo furore, che quei soldati i quali, per la lontananza,
non giungevano a percuotere i prigionieri, lanciavano loro addosso frammenti di
tegole e manate di fango. I più
lontani
urtavano i compagni, perchè l'urto andasse a cadere sui prigionieri. Insomma la
via dal Broletto al Castello fu un cumulo di strazii e vituperii; una nuova via
di passione.
«Uscita
la maggior parte dei prigionieri, il Broletto venne occupato militarmente. Si appostarono
soldati alle porte, alle finestre, nei corridoi, perfino sui tetti. Nei
cortili, nelle sale
municipali,
i soldati si posero a bivacco. Non è a dirsi qual mostra facessero di sè quei
ceffi bruni, lordi di sangue, ebri di vino e di furore: guastavano, rompevano
armadii e suppellettili, e ciò che non poteva portarsi via si gettava nel
fuoco. Bestemmie e vituperii accompagnavano quella scena.
L'infermeria
era assiduamente vigilata. Il prete era quello che più aveva a patire per i
mali trattamenti dei soldati. Per essi egli rappresentava Pio IX; nè valeva che
egli si gettasse ai piedi di quei soldati bestiali, onde ammansarli. Nè i
feriti erano trattati meglio; le sentinelle li frugavano per ogni canto: li
derubavano di quanto ancora veniva loro alle mani. Ma la maggior briga era per
le armi nascoste. Alcuni dei nostri, prima d'andare al Castello, avevano celato
tra i materassi qualche pistola; e allorchè i soldati le trovavano, vomitavano
minaccie di morte contro il prete o il medico.
Gli
stessi ferri della mia professione non poterono andar salvi dalla rapina. Senza
dar retta alle loro minaccie, ancorchè privo de' miei ferri, badava al mio
dovere. Vennero poi alcuni officiali a visitare i prigionieri rimasti, e quasi
per derisione vantavano umanità. Ma di qual sorte la si fosse, io lo vidi cogli
occhi miei nelle camere del delegato.
«Erano
tramutate in caserma. Senza badare a sua moglie, ad un vecchio fratello, ai
figli, tutti ancora bambini, gli officiali se ne stavano sdrajati sui letti
nelle guise più sconcie, senza darsi pensiero alcuno della presenza d'una
famiglia. In mezzo allo spavento delle donne, ai sospiri dei moribondi, al
rumore delle moschettate, qualche officiale si mise perfino a suonare il
cembalo quasi a scherno.
«Dal
Broletto uscivano spesso compagnie di soldati per fare provvigioni; giravano
nelle vicinanze a disfar barricate e tenere aperta una communicazione col
Castello. Il Broletto era divenuto il quartier generale che doveva tenere la
città.
«Era
la domenica; ignoravamo ciò che seguisse nelle altre parti della città: pioveva
a dirotto, ma in mezzo al tempestar del cielo udivasi l'incessante spesseggiar
della moschetteria e più lontano il cannone. Il popolo combatteva dunque
ancora. Udimmo il suono delle campane di S. Nazaro Pietrasanta e di S. Tomaso,
vicinissime. L'insurrezione fremea dunque ben presso ai nostri nemici.
Erano
spesso portati in Broletto nuovi feriti austriaci. Le fucilate del popolo
penetrarono persino nelle nostre sale.
«I
soldati, impauriti, erano tutti alle finestre per rispondere al fuoco. Il
Broletto era accerchiato da tutte le bande. Le communicazioni, rotte col resto
della città, rimanevano aperte solo dal lato del Castello, e anche queste erano
minacciate di chiudersi tra le spire delle crescenti barricate. Tennero
consiglio, e decisero di riparare in Castello, trascinando seco anche i pochi prigionieri
rimasti. Sonava l'ora della partenza: ora trista per noi, perchè non ci
lasciava vedere la vittoria del popolo, ed anzi ci metteva in balia della
vendetta tedesca. Era verso le sei del mattino del lunedì (terzo giorno). Ci
raccolsero tutti in una cucina al terreno, ed ivi, mentendo come al solito,
annunciavano che, per occupare essi tutto il palazzo, dovevano condurci cogli
altri in Castello!
«Uscimmo
preceduti dai cannoni, in mezzo alle file dei soldati, ora dimessi e paurosi.
Io mi trovava con un altro medico e il prete, al quale non valsero, per
esimerlo da quello strazio, le convulsioni che lo avevano assalito. Io portava
meco una bambina di tre anni, che la moglie del delegato, piangendo, mi poneva
tra le braccia. Mi seguiva il cognato della signora, vecchio, mal fermo.
Passavamo per S. Nazaro, il Rovello e Contrada Cusani.
«Regnava
all'intorno un silenzio di morte, rotto soltanto da colpi di fucile e da
continua pioggia di tegole e di sassi che i cittadini facevano cadere sopra i soldati,
e quindi anche sovra di noi, perchè il bujo non permetteva loro di
raffigurarci. La moglie del delegato cadde sfinita a terra.
I
soldati la fecero rialzare a calciate. Così eravamo tra due pericoli; i colpi
dei nostri fratelli, che credevano ferire soltanto i nemici, e quelli dei
Tedeschi, che vendicavano sugli inermi le offese degli armati.
«Tuttavia,
a consolarci, vedemmo, durante il tragitto, starsi minacciose le barricate
nella contrada dell'Orso e de' Cavenaghi. Anche il Castello alla sua volta
veniva accerchiato dal popolo.
Giunti
nella piazza, vedemmo alla porta del Castello dodici e più cannoni, puntati a
semicircolo, e li artiglieri colle micce accese.
«Così
entrammo prigionieri, con l'unico conforto di aver veduto il popolo occupare di
nuovo il suo palazzo; e il pallore e lo sgomento sulle fronti delli austriaci
fuggitivi. Io ignorava quale sarebbe stata la mia sorte; ma portava intera fede
in quella della mia città. La fuga degli austriaci attestava la vittoria del
popolo.»
Alla
sera del 18 marzo fu fatto circolare il seguente bando:
«CITTADINI!
«Le
prime prove d'oggi dimostrano che in voi è ancora il valore de' Padri vostri. Perché
queste non siano infruttuose bisogna che proteggiate quello che già avete fatto.
Conviene adunque che neppure la notte vi stanchi e v'inviti a riposo, perchè il
nemico veglia contro di voi. Difendete le barricate; armatevi, e vittoria e
libertà sono con voi.
«ORDINE! CONCORDIA! CORAGGIO!»
E
il popolo milanese non si fece replicare l'avviso: nessuno defezionò al proprio
posto: cittadini d'ogni condizione, d'ogni età, d'ogni sesso, - le donne persino,
- vegliarono alle barricate, altri presidiarono i tetti, pieni d'entusiasmo, di
ardimento, di gioja. Il breve riposo, che si alternavano gli uni cogli altri,
si prendeva al posto del combattente: - alla barricata, - sui tetti: - la refezione
si faceva agli stessi posti: - le donne confezionavan le vivande e arditamente
le trasportavano al posto di guardia.
Pericolosa
era oltremodo la sicurezza del popolo milanese, il quale non contava in totale
in quella notte del 18 al 19 marzo che trecento a quattrocento fucili, la
maggior parte o tolti ai Tedeschi o da caccia; e pochi anch'essi, poichè molti
cittadini, temendo venisse pubblicato ordine di consegnarli all'autorità,
avevanli spediti in campagna.
Ma
quello che più rendeva pericoloso il successo della rivoluzione si era il
pericolo in cui versava il suo quartier generale pella posizione in cui si
trovava; cioè in casa Vidiserti nella contrada del Monte Napoleone.
A
scongiurare questo pericolo, Carlo Cattaneo sollecitava gli amici durante
quella notte a trasferire in luogo più sicuro il quartier generale; per la
ragione che quel luogo, essendo posto in mezzo a due strade, correva pericolo
d'essere facilmente assalito e facilmente preso insieme a tutti quelli che vi
si trovavano.
Gli
amici di Cattaneo, che vegliavano avanti la casa Vidiserti, rispondevano che
avrebbero combattuto sino all'ultimo istante e avrebbero ceduta a caro prezzo
la vita. Ed essi eran uomini capaci di compiere quanto promettevano; ma ciò
poteva loro ascriversi a colpa, per la ragione che l'ardimento irriflessivo può
compromettere una rivoluzione; talchè la loro audacia assumeva un carattere
delittuoso come quella del soldato che, comandato di una mossa, non obbedisce
per lanciarsi contro il nemico ad incontrarvi morte, e compromette così coll'imprudente
condotta l'esito di una fazione campale. Cattaneo insisteva nelle sue idee, e
cercava dimostrare che il loro dovere di cittadini e di patrioti non era quello
di sacrificare insanamente la vita, ma di procurare con tutti i mezzi possibili
che la vittoria rimanesse agli insorti.
Tutta
la notte si discusse, e soltanto presso al mattino il consiglio di Cattaneo
prevalse.
Cernuschi
si adoperò allora al trasferimento del quartier generale in casa Taverna,
situata nella contrada de' Bigli; la qual via si presentava più adatta a difesa
perchè stretta, tortuosa, più facile a barrare in qualunque punto, e col
giardino confinante con altri, pel quale era più facile operare una ritirata in
caso di bisogno, e trasferire altrove il quartier generale prima che fosse accerchiato.
Cernuschi
provvide allora a preparare nella nuova sede tutti i mezzi che si presentavano pella
difesa e pell'offesa, nonchè pella ritirata; pella quale ultima si procurò la
chiave di un cancello che si apriva dietro ai giardini, e che corrispondeva
colla contrada del Morone, di faccia alla casa di Alessandro Manzoni. Quindi
fece traforare il recinto del giardino Belgioioso.
Trasferito
così in casa Taverna il quartier generale, Cernuschi provvide alla sorveglianza
esterna onde non venir sorpresi. Pose sentinelle sui muri dei giardini, e
provvide alle necessarie barricate.
O'
Donell, tradotto in casa Taverna, tentò i propositi audaci de' combattenti col
proporre mediazioni di pace, ostentando il paterno affetto dell'imperatore: - i
cittadini non lasciaronsi però lusingare dalle seducenti promesse(19) - francamente le respinsero,
- ognuno gridando: «No! No! La rivoluzione incominciata dover proseguire
qualunque fosse per riuscirne l'esito: essere pronti i Milanesi ad incontrare
tutti la morte, a ceder non mai alle lusinghe di un governo che per trent'anni
aveali oppressi, scherniti, ingannati: confidare in lor santa causa, nel lor
coraggio e nella protezione de' popoli amici, quali sarebbero accorsi in lor
ajuto.»
Alla
Direzione di Polizia intanto si provvedeva ai possibili casi di una vittoria,
che si prevedeva, da parte degli insorti. Era costume della polizia austriaca
di provvedere alla sicurezza degli impiegati più devoti ad essa ed a
compromettere con artificii satanici gl'impiegati di cui diffidava ed anche i
cittadini più influenti. A ciò conseguire, Torresani ordinò che s'abbruciassero
tutte le carte che rivelassero i fatti della polizia, e quelle che potessero
compromettere i suoi più fidati funzionarii, facendo nello stesso tempo
stendere note false di delatori coi nomi di cittadini influenti, commisti ai
nomi de' funzionarii che non godevano ancora la sua fiducia: con tale confusione
di nomi di impiegati a cui si notavano fatti falsi, ma odiosi verso la
popolazione, con nomi di cittadini ritenuti nella società per patrioti, egli
sperava giungere allo intento di toglier fede a' proprii impiegati se passavano
nelle file degli insorgenti, e di screditare cittadini onesti e liberali che
avrebbero potuto influire potentemente nella insurrezione.
In
tal modo otteneva un altro intento; quello di gittare la diffidenza, che
dissolve, nelle file de' rivoluzionarii. Questo fatto che ci viene attestato
dagli storici contemporanei e dallo stesso Cattaneo nel suo Archivio triennale
delle cose d'Italia, pur si riprodusse nel 1859, coprendosi di obblio le opere
inique di vecchi impiegati di polizia, i quali, essendo state bruciate le carte
che li riguardavano, potevano simulare con sfacciata impudenza d'esser stati
liberali; comechè l'Austria promovesse facilmente a stipendio in polizia uomini
che fossero liberali! Col lasciar false note invece di onesti cittadini,
tentava snervar la forza del partito liberale. Il fuoco però che Torresani appiccò
alle carte compromettenti, poco
mancò che col suo fumo non soffocasse i poveri carcerati della polizia, i quali
a squarciagola gridavano che si aprissero le finestre.
Torresani
aveva poi impartito ordini iniqui che tristamente lo caratterizzavano; fra i
quali vi fu quello dato al cavalier Paladini, direttore della Casa di correzione,
di scarcerare i 460 detenuti che vi si trovavano e di armarli al meglio qualora
si verificasse il caso di tumulti popolari; ritenendo anche con tal fatto di
discreditare la rivoluzione per la natura de' suoi elementi, renderla diffidente
e sospettosa, ed obbligarla a distrarre le sue cure dal moto politico onde
sorvegliare gli uomini iniqui che, confusi nel popolo, non poteva conoscere;
convinto Torresani infine che que' condannati approfittando della libertà,
delle armi che tenevano, dello appoggio che loro accordava la polizia,
dell'ignoranza che ognuno aveva intorno al loro vero essere, si sarebbero
abbandonati agli assassinii, alle depredazioni, agli incendii e ad ogni altro
delitto.
Ma
il disegno di Torresani mancò di esecuzione in causa di rifiuto da parte del
cavalier Paladini di prestarsi all'iniqua determinazione.
Erasi
intanto diffuso fra i difensori delle barricate un canto di guerra di Luigi
Carrer, e che noi riproduciamo come documento storico.
1.
Via
da noi, Tedesco infido,
Non
più patti non accordi:
Guerra!
Guerra! ogn'altro grido
È
d'infamia e servitù.
Su
que' rei di sangue lordi
Il
furor si fa virtù.
Ogni
spada divien santa
Che
nei barbari si pianta;
È
d'Italia indegno figlio
Chi
all'acciar non dà di piglio,
E
un nemico non atterra:
Guerra!
Guerra!
2.
Tentò
indarno un crudo bando
Ribadirci
le catene;
La
catena volta in brando
Ne
sta in pugno, e morte dà.
Guerra!
Guerra! non s'ottiene
Senza
sangue libertà.
Alla
legge inesorata
Fa
risposta la Crociata;
Fan
risposta al truce editto
Fermo
core, braccio invitto,
Ed
acciaro che non erra:
Guerra!
Guerra!
3.
Non
ci attristi più lo sguardo
L'abborrito
giallo e nero;
Sorga
l'italo stendardo
E
sgomenti gli oppressor.
Sorga,
sorga e splenda altero
Il
vessillo tricolor.
Lieta
insegna, insegna nostra
Sventolante
a noi ti mostra;
Il
cammino tu ci addita,
Noi
daremo sangue e vita
Per
francar la patria terra:
29
Guerra!
Guerra!
4.
È
la guerra il nostro scampo;
Da
lei gloria avremo e regno:
Della
spada il fiero lampo
Desti
in noi l'antico ardir.
È
d'Italia figlio indegno
Chi
non sa per lei morir.
Chi
fra l'Alpi e il Faro è nato
L'armi
impugni e sia soldato;
Varchi
il mare, passi il monte,
Più
non levi al ciel la fronte
Chi
un acciaro non afferra:
Guerra!
Guerra!
5.
Dal
palagio al tetto umile,
Tutto,
tutto il bel paese
Guerra
eccheggi, e morte al vile
Che
tant'anni ci calcò.
Guerra
suonino le chiese
Che
il ribaldo profanò,
Vecchi
infermi, donne imbelli,
Dei
belligeri fratelli
Secondate
il caldo affetto;
Guerra!
Guerra! In ogni petto
Che
di vita un'aura serra,
Guerra! Guerra!
IL 19
MARZO
La
notte del 18 era stata piovosa; - l'alba del 19 portava il sereno: pareva che
il cielo che aveva pianto alle terribili prove d'un popolo inerme, sorridesse
di poi al successo che l'audacia, la perseveranza, i sacrifizii d'ogni genere
non lascian mancare agli uomini forti.
Appena
giorno le campane rintronarono per l'aere col lor cupo suono a stormo, e
generale si diffuse per Milano il grido di: All'Armi!
Ed
all'armi non mancò alcuno: - le fatiche, i disagi, le sevizie del Tedesco non
avevano fiaccato animo alcuno: - tutti accorrevano sulle barricate nello stesso
modo che nei corrotti
momenti
della pace accorrevano ai teatri, ai veglioni, alle feste! Grida di gioja si
diffondevano: la gajezza era sui visi; la fermezza negli sguardi! Non tardò
l'armonia del cannone a rispondere colla terribile sua voce alle canzoni
patriottiche che si canterellavano preparandosi alla vittoria od alla morte: -
ma il suo rombo percosse le orecchie, ma non scese punto al cuore a
raffreddarvi l'ardore.
Frattanto
il generale Rivaira, comandante dei gendarmi, veduto il Decreto d'O' Donell che
affidava al municipio la gestione della polizia, mandò ad offrire al podestà i
trecento gendarmi ch'erano in Milano. Quel reggimento unico di tal milizia
nell'impero e riservato alla Lombardia e al Tirolo italico, nota Cattaneo, era
assai rispettato dai popoli, e poteva inoltre fornire officiali. Ma il podestà
che voleva mutare il governo senza disobbedirgli, voleva chiedere al Torresani,
capo della polizia austriaca, colla seguente lettera, il permesso d'accettare
l'offerta. E così se ne rimetteva a quella polizia medesima ch'era incaricato
di scacciare e di surrogare. Certo che quel Casati avrebbe fatto volentieri una
ribellione colla licenza dell'imperatore! Ajutanti di campo in questa
manovra furono il conte Cesare Giulini e don Alessandro Porro. Non vi fu modo
di persuadere Casati a desistere dalla sua accettazione condizionata. Egli
parlava di legalità. «Io mi sono opposto, scrisse Cernuschi, quasi
violentemente, ma senza frutto, all'ostinato proposito di non accettare
l'offerto
concorso
della gendarmeria; testimonii il dottor Perini, il conte Giulini, don
Alessandro Porro e un figlio del conte Casati (Dichiarazione di E. Cernuschi, nel N. 28 dell'OPERAJO del 17 giugno 1848.)»
Questa
scena si compì nella camera da letto verso i giardini del conte Carlo Taverna,
in casa sua.
La
lettera era così concepita:
«Signor
Delegato.
19
marzo 1848, 7 e mezzo antim.
li
generale Rivaira disse ai signori dottori Perini e Viglezzi ch'esso tiene la
gendarmeria a disposizione del municipio e di Lei, incaricato della polizia in
conseguenza del decreto del vicepresidente di governo. Questo è forse il
migliore mezzo termine per venire a tranquillare la città, permettendo che si
uniscano ai gendarmi alcuni cittadini per aumentare il numero della guardia, in
modo che questi cittadini sieno dai medesimi guidati. Sono persuaso che il
signor Torresani non vorrà fare opposizione a questo divisamento, che potrebbe
condurre ad una soluzione pacifica. Io non posso muovermi dal luogo ove sono;
la prego a prendere a petto la cosa; e portarsi da Torresani per convenire su
questo punto, onde non nasca un'opposizione che guasti tutto. Il maresciallo Rivaira
è disposto, eziandio mettere il corpo al completo immediatamente, coll'aumento
di 300 uomini concessi. Affido al suo zelo questo affare importantissimo. Mi
creda
Suo
aff. serv. Gabrio Casati».
I commenti, vi aggiungeva un giornale d'allora (L'OPERAJO, nel N. 38 del 1 luglio 1848), sono
superflui: mezzo termine; tranquillizzare: speranza che Torresani non vorrà
fare opposizione: soluzione pacifica: convenire con Torresani. - Si
mormorava: Tiene egli dunque il piede in due stivali? Basta; dico che la
lettera fu lacerata.
All'una
paura altra succedeva più grande e attuale. Casati si ripose a tavolino, e
torturato scrisse un nuovo biglietto con cui s'accettava la gendarmeria. Ma l'ora
era avanzata. A sedurlo - bisognò logorare tutti i ferri del mestiere. E fu
troppo tardi. - La lotta impegnata su tutti i punti, e le comunicazioni
interrotte, divenne impossibile ogni corrispondenza, e quindi anche quella per l'accettazione
della gendarmeria. Così noi dobbiamo riconoscenza al padre della patria, al
conte Casati, d'una vittoria di più: abbiamo combattuto anche gli amici e
fratelli della gendarmeria.»
Le
truppe imperiali si diressero da prima verso Porta Comasina e verso S. Giovanni
sul Muro, dove si diramarono in varii drappelli. Non potendo prender posizioni
nell'interno della città, le truppe cercarono impadronirsi degli sbocchi
principali delle corsie sino ai ponti sul naviglio.
L'artiglieria
fu spinta ne' borghi di P. Orientale, di Monforte e di porta Ticinese, nonchè
pelle vie di Brera, della Cavalchina e del Baggio, aprendosi strada colla
violenza, col terrore diffuso da crudeli atti e con numerosi arresti di
cittadini che venivan tratti in Castello, sollecitandosi il lor passo con pugni
e con punture di bajonetta.
La
lotta incominciò ben presto: il cannone battette le barricate, ed, ove le
rompeva, i fanti correvano alla bajonetta contro i male armati cittadini, li
scannavano; mentre la cavalleria
s'inoltrava
a calpestare sotto le zampe de' cavalli i morenti e i morti. I cittadini non
piegaron per questo: saliti alle finestre e sui tetti, di là battevan l'inimico
coi sassi, colle tegole, colle fucilate: con grida festose rispondevano alla
terribile voce del cannone; col nome d'Italia e di Pio IX sulle labbra morivan
nel combattimento, non lagnandosi, ma animando gli altri a continuar la pugna.
A tanto eroismo la forza bruta delle armi tedesche non resisteva: ma combattuti
inesorabilmente, senza tregua, dalle barricate, per le strade, dalle finestre,
dai tetti; - incalzati ove piegavano, raddoppiando i colpi mortali ove i
soldati inoltravansi, urtati da cozzo terribile, decimati da fucilate che non erravan
nella mira, dalle tegole che rompevano i cranii, dai sassi che ferivano ne' visi,
i soldati vacillaron nel coraggio, dubitaron dell'esito, cominciarono a provar
il terrore che la carneficina de' loro sollevava; cedettero, ritiraronsi; - in
molti luoghi fuggirono; - e nella fuga non potendo provvedere alla salvezza
dell'artiglieria, essendo subitaneamente assaltati dai cittadini chè
osservavano
la confusione e lo sgomento essersi impossessato de' soldati, restavano i
cannoni agli insorgenti.
Mancata
la gendarmeria al Municipio, non gli restarono de' corpi armati che le guardie
di finanza e i pompieri; questi ultimi non armati però a' quei tempi di fucile.
Il
difetto d'armi facendosi sentir troppo fortemente, non si lasciò intentato
mezzo qualsiasi onde procurarsele, non badando se fossero da taglio o da fuoco,
vecchie o nuove. Persino le private gallerie d'armi vennero spogliate; fra le
quali quella in contrada Pantano, appartenente ad Ambrogio Uboldo; la quale
costituiva il più bel monumento del medio evo, e che veniva visitata da ogni forastiero.
Ma la patria prima di tutto e sopra tutto! e il sacrificio fu consumato.
Nè
l'Uboldo, che amava come parenti quelle reliquie d'un'età remota, si dolse del
gravoso sacrifizio che la patria gli domandava, e volonteroso cedette le armi
al bisogno imperioso della sua terra... Furon pure spogliate le sale d'armi
antiche e moderne (di molto valore) di Pezzoli, l'armeria degli I. R. Teatri,
ecc.
Difettose
eran l'armi da fuoco all'uso della guerra, ma difettose ben più eran le
munizioni; in un momento però si cercò provvedervi nel modo e colle forze che
si avevano. Il chimico Calderini, in casa Borromeo, altri in casa Calvi, in
Bocchetto, fabbricavan polvere: lo speziale Ballio, alla corsia della Palla,
preparava cotone fulminante e buona polvere. Altrove fabbricavansi palle. Il
tutto distribuivasi poi ai combattenti.
Distinzioni
sociali non dividevano il popolo: il ricco fraternizzava coll'operajo: ognuno attendeva
colle provvisioni che aveva a preparar cibi pei combattenti non solo, ma pelle
famiglie loro ben anco.
Il
Codice penale era scritto sui muri: MORTE AI LADRI! MORTE ALLE SPIE! E la rivoluzione
di Milano si mantenne illibata da ogni rapina, da ogni furto: si invadevano i
pubblici uffici onde prenderne possesso: ma nulla si toccava, niuno osò mai
appropriarsi il valore di un soldo. Anzi moltissimi sono gli esempi di valori
ritrovati da poveri operai e scrupolosamente consegnati all'Autorità.
Il
sentimento religioso rafforzava gli animi nello sfidar la morte, perchè la
rivoluzione era stata benedetta dal pontefice Pio IX e dall'arcivescovo di Milano.
Il clero lombardo dimostrò sentimenti eminentemente liberali, e si prestò come
ogni altro cittadino in que' supremi bisogni della patria. Ciò valga a
sbugiardare coloro che gridan la croce contro il clero in genere, senza distinzione
di reazionarii e di veri ministri di Dio. Ci basti citare alcuni nomi di questi
per suffragare la nostra asserzione. Giovanni Besesti, coadjutore nella
parrochia di S. Calimero, animava i combattenti alla pugna e raccoglieva i
feriti nei luoghi ove più accanita disputavasi la lotta di sangue. Giuseppe
Volonteri, cappellano di S. Celso, ajutò a scacciare i Croati dalla caserma di
S. Apollinare. L'abate Malvezzi non curò i pericoli delle fucilate nel
soccorrere i feriti e nel sorvegliar la costruzione delle barricate. Il
canonico Vimercati ed i sacerdoti Groppetti, Airoldi, Zerbi, Marcionni, Mauri,
Bianchi e molti altri condivisero col popolo la difesa delle barricate. I sacerdoti
Carlo Ferrario, Lorenzo Denna e Ambrogio Decio consacraronsi a ricoverare le
famiglie fuggenti dalle case devastate dal cannone tedesco, ed a provvederle di
pane. Il sacerdote Lattuada si consacrò alla cura de' feriti. Nella contrada di
S. Romano, allorchè gli Austriaci s'accinsero ad atterrare le porte di casa
Tinelli, un canonico di S. Babila fece schioppettate contro i militari, uccise l'ufficiale
che li comandava e li obbligò a ritirarsi. I seminaristi risposero all'appello
della patria col trasportare in strada i loro letti, cassettoni, orinaliere ed
ogni altro mobile, costruendo fortissime barricate al largo di Porta Orientale,
e ponendovisi poscia a difenderle.
Gloriosi
esempii di amore, di sacrifizii, di coraggio diedero pure le donne.
La
marchesa di Lajatico Rinuccini e la sposa di Giorgio Trivulzio con altre
signore si consacrarono in modo ammirabile a curare i feriti, senza risparmio
di sacrifizii e di disagi. In casa Borromeo molte donne si erano dedicate a
liquefar piombo ed a convertirlo in palle. Altre donne, anche
dell'aristocrazia, attendevano con amore e con entusiasmo a preparar filacce e
bende; altre, più coraggiose, correvan per le vie devastate dalla mitraglia
tedesca a portar soccorsi a' bisognosi.
Anche
le suore di carità consacravano il tempo che sopravvanzava alla cura de' feriti
nello fonder palle. Due popolane si distinsero molto. Luigia Battistotti,
nativa di Stradella, d'anni 24, ed abitante in Milano alla Vettabia, fu la
prima a costrurre barricata nel suo quartiere: strappata ad un soldato la pistola
che impugnava, intimò ad altri cinque d'arrendersi e li fece prigionieri:
deposta quindi la gonna, e indossati abiti della compagnia dei fucilieri
volontarii sotto il comando di Bolognini, impugnò il fucile e furiosamente
combattette, e sempre apparve nelle prime file ove maggiore si presentava il
pericolo; e per cinque giorni non abbandonò le armi, nè la pugna. – Giuseppina Lazzaroni,
giovanetta delicata, si sottrasse ai parenti mentre più ardeva la pugna,
impugnò un fucile e, accompagnata dal fratello Giovan Battista, portossi a
Porta Comasina, ove il nemico, numeroso e ben provveduto di artiglieria,
manteneva ardente fuoco di fucileria e dei grossi pezzi; là ella affrontò le
palle e la mitraglia nemica ed operò prodigiosi fatti di valore. Anche fuor di
Milano si dimostrarono amazzoni valorose, fiere spartane; in Acquate Angela
Martelli volò al soccorso di Milano con altre quindici donne.
Le
barricate improvvisate nel dì precedente, aumentarono considerevolmente nel 19
di marzo e si rafforzarono. Ogni cosa servì alla loro costruzione: carri,
carrozze private e di corte, diligenze, letti, casse, panche da chiesa, tavole,
sedie, pagliaricci. A Porta Tosa si fecero delle barricate mobili con immensi
rotoli di fascine, il cui disegno si dovette a Carnevali Antonio, già professore
di matematica e strategia alla scuola militare di Pavia sotto il primo regno
italiano, e ch'era stato in que' giorni di rivoluzione nominato alla direzione
delle fortificazioni campali: queste barricate cilindriche avevano due grandi
vantaggi; per la loro forma eran mobili, potendosi far rotolare in avanti e in
dietro; per la connessura di infinite minime parti assumevano una tale elasticità
da togliere ogni forza alle palle non solo di fucileria, ma ben anche di
cannone: l'incarico di ridurre in esecuzione queste barricate mobili suggerite
dal Carnevali, fu affidato al pittore Gaetano Borgocarati. Tra coloro che più
meritarono dal paese per l'opera prestata nelle costruzioni delle barricate,
non possiam passar sotto silenzio i seguenti: il piemontese Valenzasca, il
pittore Bareggi, l'ingegnere Tarantola, il geometra Lilliè, i fratelli
Carentico, i seminaristi Giulio Rimoldi, Rosa Verza, Candiani Luigi, Alessandro
Ponzoni, e Valentini Gottardo.
In
quel giorno cinquecento cittadini milanesi di vita intemerata e d'alti natali,
oltre a molti di provincia, vennero arrestati.
Le
disposizioni d'offesa da parte dei Tedeschi erano terribili e disposte per
tutta la città: le riassumeremo in breve. Fuor di Porta Romana eranvi due cannoni
mascherati onde mitragliare l'inerme popolazione che si radunasse sul corso
omonimo, e che a' que' giorni era stato ribattezzato per corso Pio, a memoria
di Pio IX. - Il palazzo reale e quello di Piazza Mercanti erano ben presidiati,
e vi avevan cannoni a lor difesa. Il primo circondario di polizia, esistente
sulla piazza Mercanti, fu preso a viva forza dal popolo inferocito nella pugna.
La Direzione generale di Polizia era ben presidiata e difesa; ma fu vinta dalle
armi popolane: si cercò di Bolza e di Torresani, ma non si scoversero allora.
Dei
cannoni di Piazza Mercanti, uno era collocato al posto della Gran Guardia,
l'altro all'uscita della piazza verso i Ratti; essi non ozieggiavano ma vomitavano
continuamente enormi palle devastatrici. I soldati di fanteria, appiattati a
tre a tre nelle porte delle contrade degli Orefici, dei Ratti e dei Fustagnari,
sortivano di tanto in tanto a far fuoco. Quelli del popolo che avevano armi da
fuoco in quel luogo, si posero a bersagliar di preferenza i cannonieri, ed
anzi, preparatisi a dar l'assalto ad un cannone, dopo avervi ucciso tre
artiglieri lo presero. Alle 12,30 ne davan quindi avviso al popolo col seguente
affisso onde rinfrancare il lor coraggio:
CITTADINI!
«La
vittoria è sicura - due cannoni presi a piazza de' Mercanti e a Porta Ticinese.
Il nemico in fuga a porta Orientale, a Borgo Monforte e a Porta Nuova. Como è
armata, Crema parimenti, Bergamo marcia in nostro soccorso. A Magenta vi sono i
Piemontesi. Gli amici aumentano per ogni parte; introduceteli in città e avrete
armi e munizioni. Il nostro quartier generale è organizzato, la Guardia
nazionale in attività.
«Continuate
a suonare a stormo»
Dal
Broletto i soldati, che vi stanziavano, coi loro obizzi e mortai mantenevano
vivo fuoco per la contrada di S. Maria Segreta, gettando bombe e piccoli razzi
incendiarii. Contro di loro stava una barricata, formata di cassoni, posta di
contro alla farmacia Ravizza; dietro la barricata il popolo si difese
strenuamente per l'intiera giornata.
A
porta Nuova il combattimento ferveva accanito, e fu uno dei principali in
quella rivoluzione. Vi si segnalorono grandemente alcuni che la storia deve registrare;
e noi ne registriamo uno che più vi si distinse. Egli fu Augusto Anfossi, nato
a Nizza nel 1812, esule nel 1831 in Francia, che quindi in Egitto militò negli
eserciti d'Ibraim Bascià e ne uscì colonnello: passato quindi nel commercio a
Smirne, prosperò, e la prosperità sarebbe sempre cresciuta se le notizie dei moti
d'Italia non avessero parlato al suo cuore, e suggerito alla sua volontà di far
ritorno in patria ad aiutarla. Egli si pose communicazione coi patrioti di
Piemonte, della Liguria e della Lombardia, e capitò in Milano pochi giorni
prima della rivoluzione. Allorchè questa scoppiò, egli fu destinato in prima a
organizzar la guardia civica e quindi a comandar tutte le forze attive della
rivoluzione: agli archi di Porta Nuova, monumento della sconfitta di
Barbarossa, respinse un drappello di granatieri ed un cannone, ed ivi
arditamente vi piantò, baciandola, la bandiera tricolore: in seguito, nell'assalto
del
Genio, avvenuto nel 21 di marzo, appuntato un cannoncino alla porta principale
di esso, nell'atto che la sfondava, fu colpito in fronte da una palla di moschetto;
morì quindi nel quarto giorno della rivoluzione, come Epaminonda, lieto della vittoria
de' suoi: morì invocando Dio e la patria. -
A
porta Orientale tre volte il Tedesco arditamente si spinse verso S. Damiano, e
per tre volte fu arditamente respinto e ricacciato lontano: l'entusiasmo eravi
grandissimo: una palla di cannone avendo portato via tutta una gamba ad un
ragazzo di 12 anni, egli sclamò: Benedetti coloro che muojono per la patria!
A
Porta Comasina gravi fatti si deplorarono. In quel dì di domenica essendosi
molte persone recate ad assistere alla messa che celebravasi nella chiesa di S.
Simpliciano verso le ore 9 e mezzo, durante la celebrazione udironsi fucilate
per di fuori: eran esse dirette contro coloro ch'entravano od uscivano dalla
chiesa. Il prevosto Carlo Ferrario cercò allora persuadere i fedeli a non uscir
di chiesa, onde sfuggire alle fucilate; ma un tal Luigi Bocciolini, avendo a
casa quattro teneri figli, in lui più che il timor di propria vita prevalendo
l'amor paterno, volle uscire per recarsi a provvedere di cibo i figli, perchè
egli era vedovo: ma presentatosi appena sulla porta della chiesa, una palla gli
traforò il braccio destro, che l'obbligò a ricoverarsi di nuovo in chiesa.
Le
fucilate contro il tempio però aumentarono, e s'udì pur anco lo scoppio di due
bombe.
Tutti
eran spaventati, giacchè in quel luogo vi si trovavano 131 persone assediate,
alle quali l'uscirne equivaleva a certa morte: si pensò allor a provvedere di
nutrimento tutta quella gente e col mezzo di segnali dalle finestre si fece
conoscere quanto avveniva, e da fornai di altro luogo si fecero trasmetter pane
che fu distribuito e mangiato nella chiesa. Là vi rimasero tutti que' popolani sino
alle ore 4 pomeridiane, nella qual ora potettero di soppiatto a poco a poco
riparare nelle proprie case perchè la truppa era stata impegnata altrove in combattimento.
- Nella mattina stessa che avveniva il fatto a S. Simpliciano, anzi qualche ora
prima, una pattuglia di circa cento soldati avviandosi dalla Foppa al Magazzeno
delle Proviande (Forni militari) onde provvedersi di pane, cercavano spazzar la
strada con frequenti fucilate; se non che, giunti a metà della contrada,
vennero colpiti da un grandinar di tegole che li obbligò a fuga. Quel fatto
invendicato li indusse a ritornarvi alla sera di quel giorno, cominciando lor
vendette sugli abitanti della casa che trovasi all'angolo della contrada.
Diedero prima il sacco; poi incendiaron due botteghe; abbrucciarono vive tre
donne; indi fecero prigionieri tre giovani, i quali, trascinati sui vicini
spalti, li attaccarono legati insieme ad una pianta, e quindi, scostatisi que'
soldati alquanto, si posero a scaricare le armi contro quegli infelici, che
servirono de' loro corpi di bersaglio per una buon'ora a quegli uomini
efferati; quindi, semivivi, li lasciarono in una crudele agonia fino alla
mattina seguente, in cui furon trovati dagli altri cittadini che li liberaron
dai legami di cui eran stretti; potendo così quegli infelici terminare il martirio
loro coi conforti della religione (TETTONI, Cronaca della rivoluzione
di Milano, Milano 1848 edit. Wilmant).
Altri
luttuosi fatti registra la cronaca del Tettoni, che noi riproduciamo integralmente
onde non scolorirne il valore storico dato da chi registrò i fatti al momento.
Alle 6 pom., nella casa al N. 2047, entrati i soldati, dopo di aver
saccheggiato e rovinato tutto nelle abitazioni dei diversi inquilini che si
erano salvati colla fuga, passarono al piano superiore, ove sgraziatamente si trovavano
in casa un certo Giovanni Roncari, accenditor di lampade del comune, uomo onestissimo,
colla moglie Giuseppa Zamparini, una figlia ed un loro conoscente, per nome
Paolo Murari, lavoratore in seta, ancora nubile. Essi si raccolsero fra il
letto e il muro; ma, appena entrati i soldati nella camera, i due uomini
caddero a terra trucidati, e la moglie e la figlia si ebbero busse e maltrattamenti.
Svaligiaron quindi la camera di quei pochi risparmi della famiglia, di alcuni
arredi preziosi della moglie, di tutta la biancheria, e se ne partirono. La moglie
disperata si pose accanto all'agonizzante corpo del marito, e si diede ogni
cura per adagiarlo sopra alcuni cuscini, onde meno tormentosi gli riuscissero
gli ultimi momenti della vita.
Ma,
rientrati alcuni soldati in quella camera, martoriarono di nuovo il semivivo
Roncari, e con inaudita barbarie afferrarono la mano della moglie ridotta quasi
fuor di sensi per la
disperazione,
e, maltrattandola, la costrinsero di strappare al marito le cervella che per le
ferite gli uscivano dal volto: - essa quindi cadde svenuta a tanta oltraggiante
barbarie!...
Altrove,
ma sempre in quel rione, ad un popolano dopo essersi battuto disperatamente e
aver uccisi e feriti molti del reggimento Kaiser, venne portato via, combattendo,
il dito anulare della mano sinistra: nel mentre gli si fasciava strettamente la
ferita non emise un gemito; ma, fasciata che fu, continuò a combattere,
mostrando il suo dito ai circostanti, e accompagnando quell'atto colle parole: Una
testa-di-legno mi ha fatto saltar via questo povero dito cui tutto ilare
riponeva in saccoccia.
Sulla
piazza del Carmine cadde una bomba: tutti si diedero alla fuga, temendone lo
scoppio; la miccia appiccatavi metteva vivide scintille mano mano che
abbruciava, avvicinandosi al pertugio; quand'ecco un popolano, mal conformato
di gambe, ma pieno d'ardire, lanciarsi d'improvviso vicino alla bomba, e,
cadendovi sopra col corpo, soffocare e spegnere la medesima.
A
porta Tosa gli attacchi furon gagliardissimi sin dall'alba per parte del
popolo: verso le ore 10 ant. gli abitanti dei sobborghi tentarono di
sorprendere e prendere la polveriera detta della Bicocca; il colpo non avrebbe
fallito se Giuda non avesse venduta per poche monete la patria; imperocchè il
conduttore della birraria situata sul bastione suggerì alla truppa di entrare
nel suo negozio, come luogo che si presentava il più adatto a difendere la polveriera
ed a scacciar gl'insorti borghigiani: ciò che si effettuò e la polveriera fu
salva! ad onore però del nome italiano dobbiam notare che quel Giuda era un
originario tedesco, calato dalle nevose sue contrade per arricchirsi nel nostro
paese, e poi... e poi tradirlo!...
Verso
mezzodì arrivò da porta Romana un pezzo di artiglieria scortato da dodici
uomini di cavalleria, e si piazzò a porta Tosa: la pugna era accanita: un colpo
di cannone colpì il campanile di S. Pietro in Gessate, ma non l'atterrò. - Più
tardi arrivarono a porta Tosa altri due cannoni, i quali vennero piazzati
avanti la birraria, aprendo tosto il lor fuoco: verso sera la mischia si
rallentò, e i popolani s'approfittaron delle tenebre per restaurare le barricate,
rinforzarle con nuove opere, e prender posto nelle vicine ortaglie.
A
porta Ticinese un fatto d'arme al tenente delle guardie di Polizia al ponte
delle Pioppette procurò armi e munizioni al popolo. - Alla Vettabbia si
combattette per alcune ore contro soldati del reggimento Reisinger, cinque dei
quali furon fatti prigionieri per opera di una donna; della Battistotti di cui
abbiam già parlato. - A S. Calocero cento soldati che stavano a guardia della
casa Orelli, in cui alloggiava il lor colonnello, tennero vivo per tutto il giorno
il fuoco di fucileria: il popolo, nel dar loro l'attacco, potette togliere ad
una compagnia di soldati due forgoni carichi delle robe del colonnello e il
cavallo carico di munizioni da guerra destinate ai cento soldati di guardia alla
casa Orelli: l'ufficiale fu ferito e steso al suolo, diversi soldati rimasero
feriti, gli altri fuggirono: fra que' popolani combattenti si distinsero
Giacomo Colombo, Borletti, e Biancardi. -
Altrove
in porta Ticinese si distinse molto anche Giovanni Onetti che pugnò
disperatamente tutto il giorno.
A
porta Vercellina (ch'era quella che oggi chiamasi porta Magenta) pur vi si
combatteva.
Nella
contrada di S. Vicenzino, e precisamente ov'essa forma angolo coi Cavenaghi,
venne costrutta una barricata; e l'opera costò molte fatiche e molto sudore, per
la ragione che dal Castello i soldati tiravano fucilate continuamente. Nella
costruzione vi si adoperarono cestoni di vimini, i quali venivan man mano
riempiuti di ciottoli e sostenuti colle lastre di granito dalla strada, che si erano
levate appositivamente.
Il
davanti venne foderato con terra e con sacchi ripieni di cascami di bozzoli.
Per ultima operazione fu legata insieme con grosse catene di ferro. Verso le
ore tre pomeridiane i Tedeschi appostarono contro la barricata due cannoni e vi
diedero fuoco: ciò non intimorì i difensori della barricata, che al grido di W.
L'ITALIA! W. PIO IX sostennero intrepidi
l'urto, ed obbligarono il nemico a ritirarsi. Non aveva però egli dismesso il
pensiero di ritentarne l'assalto: infatti verso le ore sei pom. egli vi ritornò
e ritentò l'assalto battendo prima in breccia coll'artigliera; rimanendovi però
frustraneamente sino alle ore 7 e mezzo. Numerati i colpi mandati a questa
barricata, si rilevò che dovettero essere 84. - A S. Vittore, verso le ore 2
pom., in una casa del Borgo delle Oche cinque cittadini appiattativi essendo
stati scoperti da una pattuglia, furon percossi coi fucili, poscia
mutilati,
e infine barbaramente trucidati.
Il
console di Francia nel conoscere gli atti barbari commessi dai soldati
tedeschi, e comprendendo quanti danni avrebbe arrecati ai suoi connazionali un
generale bombardamento, del resto parzialmente incominciato, stese la seguente
protesta che verso le ore tre e mezzo del 19 marzo spediva a tutti gli altri
consoli esteri residenti in Milano, da dirigersi a Radetzky, e che ottenne le
adesioni che riscontriamo dalle firme appostevi.
«Signor
Maresciallo.
«Ci
venne detto che l'Autorità militare ha minacciata la città di un bombardamento:
se, il che non possiamo credere, dovesse essere adottata una tale misura estrema
in una città di 160,000 anime, in una città ove risiede un sì gran numero de'
nostri patriotti, noi saremo obbligati, signor Maresciallo, di protestare verso
V. E. in nome dei nostri Governi, contro un atto di tal sorta.
«In
ogni caso, facciamo conto abbastanza sulla vostra giustizia ed umanità per
sperare che V. E. ci farebbe avvertiti e ci accorderebbe il tempo necessario di
poter mettere i nostri nazionali e le loro proprietà al sicuro dei danni a cui
potrebbero trovarsi esposti; come si farebbe certamente in simile caso verso i
sudditi austriaci nei nostri rispettivi paesi.
«Aggradite,
ecc.
«Milano,
19 marzo 1848.
«Firmati:
Ferd. Dunois, Console generale di Francia - Cav. Gaet. Deangeli, Console
generale
di Sardegna.
- De Simone, Console generale dello Stato pontificio. - Raymond, Console
generale
della Svizzera. - Cambel, Vice-console inglese. - Valerio, Console del
Belgio.
«A sua Eccellenza il Maresciallo Radetzki.»
Nella
giornata del 19 perdette la vita Giuseppe Broggi. Egli era nato in Milano in
via della Spiga nel 1814 ed ebbe educazione conforme allo svegliato suo ingegno.
Bollente di carattere, credette che la carriera militare meglio d'ogni altra si
confacesse alla sua indole, ed entrò nella milizia. Il disinganno gli mietette
ben tosto l'illusione preconcetta, comprendendo dalla triste esperienza dei
fatti che gli eserciti non sono altro ne' paesi non liberi se non stromento di
tirannide e nulla più: che la organizzazione stessa della milizia è diretta ad
invilire lo spirito umano, distruggendo le affezioni di famiglia, di amicizia,
di patria, per sostituirvi un ridicolo spirito di corpo, che si risolve in
ultima analisi a far degli uomini tante macchine e null'altro, tanti strumenti
e nulla più del capriccio di un regnante. Abbandonò quindi la milizia e
ricoverossi in Francia, ove si assoldò; sperando in quel paese una politica più
libera, non essendosi ancora convinto che i governi tendon più spesso
all'assolutismo che non a liberi sensi, e gli eserciti non esser altro che le stampelle
su cui sorreggonsi. Militò egli quindi per la Francia in Africa, ove tenne alto
il nome italiano acquistandosi diploma di prode con sette ferite. Egli era
triste però in strania terra, il cuore
IL 21 MARZO
Bertolotti F. Relazione storica del dominio de' Tedeschi in Milano dal 1814 sino alla
Poema in quattro canti. Milano, 1848.
Labadini. Poche parole scritte e declamate nel giorno 6 aprile 1848 nella Piazza del Duomo di Milano sul feretro dei prodi fratelli lombardi morti per la patria nelle cinque gloriose giornate del marzo 1848.
Bonatti Gaetano. Le barricate di Milano.
si
volgeva alla sua patria, alla sua famiglia, a' suoi amici: - sperò clemenza nel
reggitor del suo paese, - troppo facilmente cullandosi di nuovo in fallaci
illusioni; - e tornò! - ma tornato che fu, trovò rinnovarsi il disinganno che
gli mietette le speranze preconcette, - e pagò la pena della troppo facil fede
col venir arrestato e condannato... Languì per sette mesi colla catena ai piedi
in Castello, - quindi coll'oro e colle raccomandazioni degli amici rivide la
libertà... Il passato gli si era scolpito nella mente, - e non lo dimenticò
più... La condotta dell'Austria gli generò nel cuore il sentimento dell'odio, -
e odiolla sempre di poi... Venuto il dì delle prove, egli non mancò all'appello
della patria sulle barricate, sui tetti, colle parole animando gli altri, colla
fermezza dello sguardo contenendo i dubbiosi,
colla valentia nel tiro della carabina aprendo molti vuoti nelle file
austriache nella rivoluzione del 1848. Ove fervea accanita la pugna non vi mancò
il Broggi; nè la sua carabina sciupava polvere e piombo inutilmente: i suoi
colpi eran sempre sicuri!
Nel
primo dì della rivoluzione, nel 18 marzo, strenuamente combattette a Porta
Nuova con Emilio Morosini (morto di poi a Roma nel 30 giugno 1849, combattendo
pella repubblica romana come ufficiale ne' bersaglieri romani), col De
Cristoforis (che lasciò di poi la vita pugnando a S. Fermo nel 27 maggio 1859),
coi fratelli Biffi, con Giovanni Rusca, con Attilio Mozzoni, con Emilio Dandolo
(morto nel 22 febbrajo del 1859), con Angelo Fava, con Re, con Carlo Mancini, con
Croff, con Mezzi, con Borgazzi, con Biumi, con Pietro Perego (lo stesso
ch'esulò di poi, e trovando duro il pane dell'emigrazione in Piemonte si lasciò
corrompere dalla seduzione di
poter rimpatriare; e, accettando l'amnistia austriaca del 1857, capitombolò
d'errore in errore sino a prostituirsi allo straniero; maledetto da tutti come
apostata; compatito dai pochi che conoscevano i disinganni e le sofferenze
avute nell'emigrazione in Piemonte, e che gli aveano travolto l'intelletto e avvelenato
il cuore). Giuseppe Broggi lasciò memorie imperiture d'eroismo anche a Porta
Orientale,
al Monte Napoleone, a Santa Babila ed a S. Damiano nel 19 marzo. In
quest'ultimo punto narriamo un fatto nuovo. L'avvocato Pier Ambrogio Curti,
colla spada nella destra e una pistola nella manca, si era avviato da S. Babila
al ponte S. Damiano: tutto a un tratto una pattuglia nemica si presentò al
ponte e si avviò a passo di carica verso S. Babila: l'avvocato Curti
ritrovavasi a metà via; - retrocedere era viltà e non presentava più scampo; -
proseguire o sostare valeva rimaner morto o prigioniero: - chiusa era la porta
del palazzo Visconti avanti cui stava: - s'appiattò nell'angolo che ivi fa la
casa; - ma senza speranza di salvezza: la pattuglia avanzava, - era già quasi al
punto ove s'accovacciava Curti, allorchè da S. Babila parte una schioppettata,
e atterra l'ufficiale che comandava la pattuglia: - una seconda schioppettata,
esplosa quasi subito dopo, atterra un sargente - la confusione allora subentra
nella truppa, - si ferma, - vacilla un istante, - e poi retrocede frettolosa: -
così fu salvo l'avvocato Curti! Chi esplose quei colpi fu Giuseppe Broggi. Ma
verso le ore 3.30 di quello stesso giorno, - era il suo di onomastico, ricorrendo
S. Giuseppe al 19, - Brogli con audace imprudenza si spinse oltre al ponte di
porta Orientale, ma poco lungi dalla casa Calvi una palla di cannone di
rimbalzo lo colpì, lo atterrò sfracellato in mezzo a' suoi amici Giovanni Rusca
e Agostino Biffi.
Tutto
il 19 marzo Milano diede lo spettacolo di una pugna generale: - lasciò ricordi
di eroismo pella storia; - preparò esempio a' nepoti del modo col quale un
paese possa riacquistare la perduta libertà. La lotta fu incessante, accanita
in ogni punto della città, ma senza disegno; cercando i Tedeschi di rompere le
barricate e guadagnar terreno; - sforzandosi da sua parte il popolo di
abbarrarsi meglio, armarsi maggiormente colle armi del nemico, aprir vuoti più
grandi che fossero possibili nelle file avversarie. La stanchezza, i disagi, la
fame non avevano per nulla fiaccato l'ardimento e la perseveranza del popolo,
ma gli ostacoli avevano anzi rafforzato in esso la tenacità de' propositi.
Verso
sera giravan solo delle voci non troppo benevole a Casati ed al Comitato
direttore: sussurravasi che l'uno amoreggiasse col governo austriaco, e che l'altro
dormisse sonni profondi e non dasse segno di vita. Alcuni giovani inaspriti dal
difetto di armi e munizioni in cui si trovavano i combattenti, domandavano che
si mutassero i capi: - altri giunsero persino a proporre la proclamazione della
repubblica, suggerendo di spedire inviati a ricercare armi ed ufficiali nelle repubbliche
di Francia e della Svizzera: - altri avvisando che la proclamazione della
repubblica sarebbe stata cagion di discordie, fomite ad odii, poichè molti vi
erano avversi grandemente, e sì che piuttosto d'accettare quella forma di
governo avrebbero favorito il nemico, suggerirono di rimanersene nel
provvisorio, salvo a discutere dopo la vittoria sulla forma migliore di governo
d'adottarsi: altri infine fecero presente che, proclamandosi la repubblica,
Milano si sarebbe isolata dal rimanente degli Stati d'Italia, perchè tutti eran
retti da principi che non avrebbero transatto coi loro principii monarchici. A
repubblica reggevasi soltanto Venezia in Italia; ma neppur questo fatto si
conosceva in que' dì a Milano.
A
temperamento migliore delle diverse opinioni, essendo allor tempo d'azione più
che di discussione, si deliberò di costituire un governo provvisorio. «Intorno
a ciò, scrive Cattaneo, io dissi che, se in siffatto governo dovevano aver
parte quei medesimi cortigiani, sarebbero stati di grave impaccio durante il
combattimento; e se non vi aveano parte, l'avrebbero tosto discreditato e atterrato,
valendosi della momentanea allucinazione del popolo e dei soldati del re di
Sardegna.
Non
trattavasi d'altro per il momento che di combattere; bastava adunque fare un Consiglio
di Guerra, di pochi e deliberati, e solo per dare unità alla difesa e
cacciare il nemico. Il quale incarico, come quello che offriva solo pericoli,
non sarebbe ambito gran chè da quei ciambellani. Accolto questo avviso, si
cominciò a scrivere i nomi dei presenti, per procedere ad una qualche forma di elezione.
Ma molti altri ad ogni momento entravano, in cerca d'armi, di munizioni e
d'indirizzo; e in quell'onda di gente sempre rinnovata, era mestieri ripetere
da capo ragionamento e spiegazioni, a cui nel caldo di quei momenti poco
badavano. Frattanto si faceva notte; e Casati era sparito. -
Cernuschi, ne andò in traccia e lo ricondusse». -
Casati, scrisse Cernuschi, col favore delle tenebre, nei cinque giorni si
sottrae alla vigilanza degli armati che, credendolo capace d'una fuga, facevano
sentinella al suo onore.
IL 20
MARZO
Ad
una notte cupa in cui le nubi ritornarono brutto tempo, successe un giorno
piovoso, e in cui il continuo tuono del cannone e l'incessante suonare a stormo
delle campane, commisti a cozzo d'armi ed a grida de' combattenti, davan
terribile aspetto alla città.
All'alba
di quel giorno, in una sala di casa Taverna stava Casati circondato da molti
che si sforzavano a persuaderlo di costituire un governo provvisorio, e sembrava
nello stesso tempo che que' cittadini avessero cura di sorvegliar Casati, qual
prigioniero, onde non fuggisse. Entrato sull'alba anche Cattaneo in quella
sala, concorse pur egli a dimostrar la necessità di costituire un'autorità
cittadina che rappresentasse il paese, dirigesse la rivoluzione, avesse mandato
di trattar con que' di fuori di Milano. Casati seccamente vi rispondeva di non
voler uscire dalla legalità, e non voler egli esser altro che il capo del
municipio. Sollecitavalo anche a chiamare gli officiali veterani per dirigere i
combattimenti, e citavansi i nomi di varii; ma Casati pregava non lo inviluppassero
con uomini già compromessi, perchè alcuni di essi avean compartecipato alla congiura
militare del 1815.
Non
potendosi indurre Casati ad un governo provvisorio, egli si determinò soltanto
a nominare alcuni Collaboratori al Municipio, affidando la polizia a
Bellati; e perchè questi non ritrovavasi presente, essendo stato arrestato dai
Tedeschi in Broletto e richiuso in Castello, così gli deputò un supplente. Nel
ridurre in scritto tale deliberazione onde promulgarla per la città, Casati cercò
di attenersi sempre ad un principio di legalità fuor di luogo; diamo senza
ulteriori commenti l'ordinanza pubblicata allora:
«LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA CITTÀ DI MILANO
«Milano
20 marzo 1848, ore 8 ant.
«Considerando
che per l'improvvisa assenza dell'Autorità politica viene di fatto ad aver pieno
effetto il Decreto 18 corrente della Vice-Presidenza di Governo, col quale
s'attribuisce al Municipio l'esercizio della Polizia, non che quello che
permette l'armamento della Guardia Civica a tutela del buon ordine e difesa
degli abitanti, s'incarica della Polizia il signor dottor Giovanni Bellati, o
in sua mancanza il signor dott. Giovanni Grasselli Aggiunto, assunti a
collaboratori del Municipio il conte Francesco Borgia, il generale Lecchi,
Alessandro Porro, Enrico Guicciardi, avvocato Anselmo Guerrieri e conte
Giuseppe Durini.
«CASATI, Podestà.
«BERETTA, Assessore.
Il
Municipio ha già decretato lo scarceramento dei detenuti politici, che avrà
luogo immediatamente.
«CASATI, Podestà.
Gli
uomini d'azione del quartier generale rivoluzionario, vedendo con mal occhio
quel modo così pauroso di agire e di esprimersi in faccia al pericolo, raccolti
in altra stanza per creare il Consiglio di Guerra proposto nella precedente
notte, tutti affidarono a Cattaneo la scelta degli uomini sulla lista preparata
dai votanti: egli allora ritenne i primi quattro inscritti (ne' quali era egli pure)
come costitutori di quel Consiglio, e, tirato un tratto di penna sugli altri
nomi, scrisse in testa al foglio: Consiglio di Guerra composto per ora dei
primi quattro inscritti. Deliberossi poscia di non assumere alcun colore
repubblicano nè monarchico, onde rimuovere qualunque occasione di dissenzione
fra i cittadini, ma di porre in fronte a tutti gli atti: Italia Libera.
Primo
compito del Consiglio fu di collegare tra loro gli sforzi tutti della città ad
un concetto unico, armonico, concorrente ad un piano generale. Costituito così
quel Consiglio, esso si consacrò immediatamente al lavoro con infaticabile
zelo.
Passiamo al campo di battaglia.
All'alba
la confusione regnava nel palazzo reale: il presidio che vi si trovava, e con
esso molte famiglie, dietro avviso di Radetzky si disposero ad effettuare una
ritirata in Castello,
preceduti
dal generale Ratt. Il popolo diede addosso alla truppa che si ritirava, e,
veduto che un corpo di guardie di polizia era penetrato nel palazzo abbandonato
dalla truppa, irruppe egli pure nel palazzo. Le guardie, spaventate dalla
furente invasione, si nascosero in una cantina. Il popolo si diede a frugare
per ogni banda, per ogni sala, cercando in esse delle armi; ma non vi trovarono
che venti alabarde dei trabanti. Le guardie vedendo che a momenti poteva
scoprirsi il lor nascondiglio e riuscire impossibile qualunque difesa, dietro
suggerimento del parroco e del tesoriere di Corte salirono dalla cantina e
deposero le armi.
Nelle
infermerie del palazzo eranvi molti feriti abbandonati dalla truppa nella lor
disordinata ritirata: essi temettero per un istante di lor vita e si nascosero
sotto i letti; ma il popolo, fiero nella pugna quanto generoso nella vittoria,
li assicurò che niun male sarebbe stato a lor recato, ed anzi li fece scortare
all'ospedale, preceduti da un vessillo coll'iscrizione: Rispetto ai feriti.
Nulla
fu toccato nel palazzo: nulla asportato, fuorchè sei cavalli condotti via nel
trambusto e restituiti poi pochi giorni dopo.
Casati
intanto pubblicava quest'altra ordinanza:
«LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA
CITTÀ DI MILANO.
«Milano
20 marzo 1848.
«In
aggiunta dell'avviso 18 corrente, col quale venivano invitati tutti i cittadini
dai 20 ai 60 anni che non vivono di lucro giornaliero, sono novellamente
invitati i buoni cittadini, compresi in quella categoria, affine che il numero
sia sufficiente a garantire la sicurezza pubblica. Sono invitati egualmente a
portar seco le armi tutti quelli che ne avessero.
«Le
riunioni delle Guardie si faranno presso ciascuna Parrochia, ove si
organizzeranno in compagnie di cinquanta, ed eleggeranno provvisoriamente il lor
capo, il quale si metterà in corrispondenza col Municipio per le successive
disposizioni.
«CASATI, Podestà.
«BERETTA, Assessore.
Poco
dopo la partenza delle truppe dal palazzo vicereale, la guglia maggiore del
Duomo presentò il vessillo tricolore sventolante da quell'altura: ve l'aveva
piantata Luigi Torelli di
Valtellina
e Scipione Bagaggia di Treviso. La cattedrale unì allora il suono a stormo
delle sue campane al martellar generale degli altri campanili.
Le
guardie della Direzione di Polizia avevano seguito l'esempio del presidio della
corte ed avevano abbandonato quel locale. Il popolo strappò immediatamente lo
stemma austriaco dalla porta, e penetrò nel palazzo di S. Margherita. Si
perlustrò allora ogni camera, ogni angolo onde rintracciarvi i capi più odiosi
della Polizia: ma Torresani non vi era più; travestito da gendarme, ed unitosi
alla cavalleria, erasi già riparato in castello, abbandonando nel locale di
polizia la moglie, le figlie e la nuora. Penetrati i cittadini nell'abitazione
di Torresani, in un gabinetto vi trovarono una giovane signora, vestita di seta
nera, stringendosi al seno una bambina, con a lato una cameriera; entrambe
pallide, tremanti. Esse stavan ginocchioni allo irrompere della folla, e la
signora emise uno straziante grido all'apparir del primo popolano, credendosi
vicina ad esser sacrificata al furor
della
plebe. Era dessa la giovine contessa Giovio, vedova di un figlio di Torresani.
Ma il primo entrato rassicurò quella donna che niun male le si sarebbe recato,
e che il popolo combatteva accanitamente i suoi nemici armati, ma rispettava
gl'inermi e non recava onta alle donne. Caddero poscia in mano del popolo la
moglie stessa di Torresani ed una concubina di Radetzky; ma tutte altrove
tradotte, furono amorevolmente trattate e rispettate.
Fiutavasi
ansiosamente da ognuno il nascondiglio del Bolza: scorsero alcune ore prima di scoprirne
traccia alcuna; ma finalmente fu scoperto nascosto nel fieno sulla soffitta, in
un ripostiglio vicino alla sua dimora. Vi fu trovato pallido, contraffatto, coi
capelli irti, supplicante pietà e misericordia. Perquisito sulla persona, non
gli si rinvennero armi nè scritti, ma le tasche piene di pane e di formaggio;
provvista che aveva fatta per que' momenti difettosi di alimenti.
Galimberti
fu ricercato anche nella sua abitazione in contrada dei Due Muri (ora non più esistente).
Ma le porte eran barrate per di dentro fortemente: un facchino procurò allora
una leva a ruota dallo spedizioniere Pezzoni, la quale, appoggiata in direzione
inclinata verso la porta, con forza girato il manubrio, potette abbatterla.
Entrativi i cittadini, presso all'ingresso vi catturarono il servo di
Galimberti. Minacciato costui nella vita se non rivelava l'ascondiglio del
padrone, egli promise indicarlo purchè si salvasse a lui l'esistenza: data la
promessa, lo si scortò in una stanza superiore ov'erasi accovacciato
Galimberti, e lo si rinvenne infatti. Intimatogli d'arrendersi e di costituirsi
prigioniero, mordendosi le labbra cedette.
D'un
tratto una voce sonora gridò in quel frastuono di voci di gioja: E i
prigionieri?... Fuori i prigionieri! Libertà ai prigionieri! Vi si
trovarono prigionieri uomini, che, levati dalla prigione, sporgevano la mano
supplichevole cercando pane, dichiarando che da quarant'ore non se n'era lor dato;
che da 40 ore non prendevano cibo. A loro si provvide d'alimenti; ma il popolo
gridava: Ma i prigionieri politici dove sono? Dopo un quarto d'ora si
ignorava ove fossero. Allora l'oste della contrada dei Due Muri, incaricato
dalla Polizia di provvedere gli alimenti pei detenuti, conoscendo per
conseguenza ove si trovassero i prigionieri politici, gridò che si trovavano ai
N. 18, 30, 36 e 37;
ove
in vero si rinvennero e si liberarono.
Nella
Direzione di polizia si trovarono circa 25 armi da fuoco e un centinajo da
taglio, che vennero tosto distribuite al popolo combattente: armi del certo
insufficienti alle straordinarie esigenze del momento.
Frattanto
Radetzky che aveva ricevuta la protesta consolare del giorno precedente, onde prevenire
complicazioni diplomatiche, rispose colla seguente lettera:
«Signori!
«Accuso
la ricevuta del dispaccio dei signori Consoli d'Inghilterra, di Francia, di
Sardegna, del Belgio e della Svizzera, nella quale manifestano il desiderio di
non vedermi prendere misure che non potrebbero mancare di tornar funeste per la
città di Milano, e per le quali dimanderebbero almeno una dilazione che
permettesse loro di provvedere alla sicurezza dei loro compatrioti. Il governo
di S. M. l'Imperatore e le truppe sotto il mio comando sono state attaccate
all'improvviso, in un modo contrario ad ogni diritto delle genti, senza che
queste avessero fatta alcuna provocazione.
«Si
cominciò a saccheggiare il Palazzo di Governo, a sorprendere parte della debole
guardia che vi era posta, per assicurarsi della persona del capo di Governo, esigere
da lui delle concessioni che non era in suo potere di firmare e che non
appartengono che al Sovrano.
«Concepirete
da ciò, Signori, che da uomo d'onore e da soldato, non potrò mai compromettere
nè l'uno nè l'altro, come obbliga il mio dovere verso l'Imperatore.
«Sta
in Voi, Signori, se avete influenza sui capi del movimento rivoluzionario, se
potete deciderli ad astenersi da ogni atto ostile; perchè per tutto quel tempo
che sarò attaccato, che i miei soldati saranno uccisi sotto i miei occhi, mi
difenderò col coraggio che loro inspira il modo con cui furono assaliti, e a me
il sentimento dell'odiosa sorpresa di cui si sono serviti verso di loro.
«Ad
ogni effetto, per rispetto al Governo di cui siete l'organo, sospenderò le
misure severe che io mi credo obbligato di prendere contro Milano sino
all'indomani giorno 21, a patto che ogni ostilità abbia a cessare dalla parte avversa.
«Aspetto
i risultati dei passi che farete per mia norma.
«Milano,
il 20 marzo, undici ore antimeridiane
«Conte
RADETZKY.»
«Ai
signori Consoli d'Inghilterra, di Francia, di Sardegna, del Belgio e della
Svizzera
MILANO.
Intanto
si pubblicava il seguente manifesto da chi dirigeva la rivoluzione, onde
mantenere vivo l'ardimento nel popolo ed eccitarlo a persistere nella lotta incominciata:
«CITTADINI
«Il
Generale austriaco persiste; ma il suo esercito è in piena dissoluzione. Le
bombe ch'egli avventa sulle nostre case sono l'ultimo saluto della(34) tirannide che fugge. - I
nostri bamboli non cresceranno nell'orrore della schiavitù.
«Molti
ufficiali si danno prigioni. Interi corpi atterrano le armi avanti al tricolore
italiano.
Alcuni,
trattenuti dall'onor militare, domandano un istante a deliberare, supplicandoci
frattanto di sospendere il vittorioso nostro fuoco.
«Cittadini,
perseverate sulla via che correte. - Essa è quella che guida alla gloria ed
alla libertà.
«Fra
pochi giorni il vessillo italico poggerà sulla cresta delle Alpi. Colà soltanto
noi potremo stringerci in pace onorata colle genti che ora siamo costretti a
combattere. Cittadini, fra poco avremo vinto. La patria deciderà de' suoi
destini. Ella non appartiene a sè. - I feriti sono raccomandati alle vostre
cure. - Per le famiglie povere provvederà la patria.
«Lunedì,
20 marzo».
Venne
pure pubblicato dal Consiglio di Guerra questo altro avviso onde mantener vivo
il sentimento della generosità nel popolo, e prevenire luttuosi casi di sangue,
in que' momenti di grande esasperazione, contro i prigionieri, le famiglie
degli impiegati e militari dell'Austria, gli ammalati ed i feriti.
«PRODI CITTADINI.
«Conserviamo
pura la nostra vittoria. Non discendiamo a vendicarci nel sangue di que' miserabili
satelliti che il potere fuggitivo lasciò nelle nostre mani.
«Basta
per ora custodirli e notificarli. È vero che per trent'anni furono il flagello
delle nostre famiglie e l'abbominazione del paese. Ma Voi siate generosi come
foste prodi. Puniteli col vostro disprezzo, fatene un'offerta a Pio IX.
«VIVA PIO IX! VIVA L'ITALIA!»
In
egual modo erasi già sin dal mattino espresso Carlo Cattaneo, allorchè si venne
a chiedergli da alcuni popolani se, trovando Bolza, gli si doveva niegar
quartiere. Cattaneo aveva
risposto:
Se lo ammazzate fate una cosa giusta; se non lo ammazzate fate una cosa
santa.
Dopo
mezzogiorno Casati pubblicava il seguente avviso, con cui notiziava
l'associazione di altre persone nell'amministrazione della città; pubblicazione
ritardata, e che meglio di ogni altro documento vale a rilevare lo stato di
perplessità, di gravi dubbiezze in cui lottava lo spirito e la mente del
Casati:
«LA CONGREGAZIONE MUNICIPALE DELLA
CITTA' DI MILANO
«Milano
20 marzo, ore una pomerid.
«Le
terribili circostanze di fatto per le quali la vostra città è abbondonata dalle
diverse autorità, fa sì che la Congregazione municipale debba assumere, in via
interinale, la direzione di ogni potere allo scopo della pubblica sicurezza.
Egli è perciò che si fa un dovere di far noto a' cittadini, che sino a nuovo
avviso essa concentrerà momentaneamente le diverse attribuzioni onde condurre
le cose a fine desiderato dell'ordine e della tranquillità. Ai membri ordinarii
della Congregazione vengono aggiunti in via provvisoria i seguenti:
Vitaliano
Borromeo.
Francesco
Borgia.
Alessandro
Porro.
Teodoro
Lecchi.
Giuseppe
Durini.
Avv.
Anselmo Guerrieri.
Avv.
Enrico Guicciardi.
Gaetano
Strigelli.
«CASATI, Podestà.
BERETTA. Assessore.»
Questa
determinazione postuma della Congregazione municipale non aveva forse qualche secondario
fine, quale quello per esempio d'infirmare l'autorità del Consiglio di guerra,
composto di persone che non simpatizzavano troppo con Casati e colle sue idee?
Non vogliamo affermare il dubbio: facciam solo presente che Casati e Beretta
dicevano con quell'avviso, in altri termini, al popolo: Ogni potere è
concentrato nella Congregazione municipale: - si avvertono di ciò i cittadini per
loro norma: questa Congregazione assorbente tutti i poteri sarà composta di
quelli indicati nell'avviso; - cioè esclusi Cattaneo, Terzaghi, Cernuschi,
Clerici. Da ciò grave si eleva il dubbio di un sinistro intendimento in
Casati e Beretta con quell'avviso.
Ma
passiamo oltre.
Il
bisogno di far conoscere la condizione de' Milanesi agli abitanti delle terre
circostanti, e l'impossibilità di potervi soddisfare con mezzi diretti,
inquantochè una barriera di corpi umani circondava, stringeva Milano tutta,
suggerì al Consiglio di Guerra di far uso di palloni che svolazzavano per l'aria
portando il seguente proclama:
«A TUTTE LE CITTÀ E A TUTTI I
COMUNI DEL LOMBARDO-VENETO.
«Milano,
vincitrice in due giorni, e tuttavia quasi inerme, è ancora circondata da un ammasso
di soldatesche avvilite, ma pur sempre formidabili. Noi gettiamo dalle mura
questo foglio per chiamare tutte le città e tutti i comuni ad armarsi
immediatamente in Guardia civica, facendo capo alle parrochie, come si fa in
Milano, e ordinandosi in compagnie di 50 uomini, che si eleggeranno ciascuna un
comandante e un provveditore, per accorrer ovunque la necessità della difesa
impone. - Ajuto e vittoria.»
Il
Consiglio di guerra
CATTANEO - CERNUSCHI - TERZAGHI – CLERICI
Il
popolo gioiva di aver riveduti i suoi fratelli che languivano nelle prigioni
politiche, e li colmava di onoranza. Abbiam citati i nomi di coloro che
ritrovaronsi al Tribunale criminale: fra quelli che gemeano nelle prigioni di
S. Margherita (ove vi era la Direzione di Polizia) annoveratasi il marchese
Filippo Villani, Ravizza, Marcora, Ferrabini, ecc.
Il
Ferrabini ritrovavasi propriamente all'infermeria, perchè era stato ferito nel
18 marzo, e ritrovavasi ancora colla camicia e coi pantaloni intrisi di sangue,
zoppicante, e con bendata la testa e la mano. Sapendo d'aver riguadagnata la
libertà, credette esser guarito: ma le sue ferite eran troppo gravi; talchè
sorretto da due amici si diresse verso la propria casa onde riveder la propria famiglia.
Giunto però nel vicolo di S. Fedele, il sacerdote don Giuseppe Lattuada non
permise che il Ferrabini continuasse il cammino, temendo avesse a soccombere
per via in causa delle ferite, e lo ospitò quindi in propria casa.
Ma
quali furono le cause e gli autori di quelle ferite?
Gaetano
Ferrabini nel 18 marzo, dopo avere preso parte alla costruzione di parecchie barricate
ed eccitato in più luoghi a suonare a stormo le campane nella fiducia di guadagnare alla rivoluzione
il presidio del Circondario IIº di polizia in via Andegari, verso le 4 pom.,
brandendo con una mano una bandiera e coll'altra una vecchia spada, mettevasi
per quella via gridando==Viva l'Italia. Ma giunto sull'angolo della via
detta dei Tre Monasteri, ora Romagnosi, veniva d'improvviso affrontato dal
figlio di Garimberti, che gli gl'intimò l'arresto. Il Ferrabini si rifiutò di seguirlo
ed oppose gagliarda resistenza; circondato però dalle guardie di Polizia,
sopraffatto dal numero, ferito replicatamente alla testa, nella schiena ed alla
mano destra di cui ebbe mutilato un dito, veniva sospinto dalle punte delle
bajonette entro l'ufficio del Circondario.
Perquisito
sulla persona, gli si rinvennero proclami rivoluzionarii. Ciò bastò perchè lo
si abbandonasse giacente a terra, perdendo sangue dalla testa, e gli si
niegasse persino la
somministrazione
invocata di un po' d'acqua. Nella notte venne trasportato nella infermeria
delle carceri di S. Margherita, ove vi rimase sino al 20 marzo in cui fu
liberato dalla rivoluzione vittoriosa.
I
Tedeschi, vedendo che gli avvenimenti prendevano ogni giorno una piega peggiore
per loro, pensarono di trattare un armistizio cogli insorti onde guadagnar tempo,
potersi fornir di viveri, rimarginare i danni sofferti nelle lor file,
procurarsi nuovi rinforzi e preparare nuovi mezzi di offesa e di difesa. Fu
incaricato di questo negozio un maggiore dei Croati Ottochan; credesi fosse
quello stesso Sigismondo Ettingshausen che trattò qualche mese dopo per la resa
di Peschiera.
Il
maggiore, presentatosi verso il mezzodì del 20 marzo ad una barricata,
dichiarando esser parlamentario, cogli occhi bendati fu scortato dai cittadini
al Consiglio di Guerra. Il Consiglio lo indirizzò nella sala della Municipalità
onde trattasse direttamente coll'autorità comunale. Casati propose allora un
armistizio di 15 giorni, ma prima d'obbligarvisi pretendeva di conoscere dal Consiglio
di guerra se si sarebbe incaricato di far desistere i cittadini dal
combattimento. Cattaneo, invitato cogli altri suoi colleghi ad esporre il suo
parere, rispose esser difficile lo staccare i combattenti dalle barricate:
diffidare egli molto delle conseguenze dell'armistizio: tenere compromessa la
condizione degli Italiani.
Durante
questo diverbio entrò nella sala un prete della chiesa di S. Bartolomeo,
portando la nuova che gli Austriaci avevano allor allora trucidato il
predicatore quaresimale e commesse altre enormità; il predicatore era don
Marino Lazzarini: penetrati gli Austriaci per la porta dalla canonica, fecero
inginocchiare i preti che incontravano; quindi gridando: Pei preti niente
perdono! ne trassero cinque in arresto: altri soldati frattanto, saliti
nell'abitazione del Lazzarini, lo stesero al suolo con una fucilata, e poscia,
non contenti di quanto avevano fatto, inveirono su quel misero corpo colle
punte delle bajonette. Il maggiore de' croati che si trovò presente alla narrazione
di quel luttuoso fatto, ne rimase commosso. Invitati poi gli estranei alla Municipalità
ed al Consiglio di Guerra a ritirarsi, il Maggiore si ritirò pure.
Calorosa
fu la discussione fra i membri del Consiglio di Guerra e Casati; talchè
prevalendo le ragioni del Consiglio, il quale aveva per sè le simpatie e la
fiducia di tutta la popolazione, dopo un quarto d'ora di discussione Casati
fece rientrare il parlamentario di Radetzky e gli parlò nel seguente modo: Signore,
non abbiamo potuto metterci d'accordo. Vogliate dunque rappresentare a sua
Eccellenza, da una parte i sentimenti della municipalità, e dall'altra quelli
dei combattenti, affinchè possa prendere in conseguenza le sue risoluzioni. Grave
fu l'impressione prodotta da quelle parole sugli astanti, ben comprendendosi
che Casati in tal modo pareva separare la sua causa
da
quella della città. «Tale dichiarazione, nota uno storico, con la quale Casati
separava la sua causa personale da quella dei sollevati, avrebbe posta in
pericolo la sua vita, se Cattaneo non l'avesse fatta ignorare al popolo».
Il
maggiore fu allora congedato, ed aspettò in corte che gli si bendassero gli
occhi per esser ricondotto fuori delle fortificazioni cittadine; ma non gli si
volle porre alcuna benda. Visibilmente commosso dal modo con cui era stato
trattato, il maggiore, stringendo la mano ad uno dei cittadini che lo aveva
accompagnato, sclamò col suo straniero accento: Addio, brava e valorosa
gente!
Altri
tentativi d'armistizio vennero fatti anche al Genio, al Comando militare ed al
Ponte Vetro; ma non approdarono ad alcuna conclusione, inquantochè il popolo
pretendeva che i soldati deponessero le armi.
Il
20 fu giornata di combattimenti; e noi li riepilogheremo in brevi cenni.
A
porta Romana alcuni Croati, che si trovavano nella polveriera di S. Apollinare,
essendo stati posti in fuga da un drappello di cittadini, riuscirono sul far
della notte a fuggirsi nelle ortaglie di Quadronno. Ma inseguiti pur là, il
popolo arrestossi alla casa di un ortolano, dalla quale uscivano grida
strazianti e invocazioni di pietà: entrativi i cittadini, vi arrestarono cinque
Croati, e vi rinvennero orribilmente mutilati una donna e tre suoi adolescenti
figli.
A
porta Tosa il numero dei combattenti aumentò, e vi compirono atti di grande
valore e gravi sacrifizii; rimanendo intrepidi in faccia all'artiglieria che
continuamente vomitava palle
enormi
e mitraglia, stringendo il nemico da tutti i lati, facendo avanzare le
barricate mobili. Fuori della porta i contadini fecero altrettanto, tagliando
le strade e molestando la truppa. Si combatteva nell'interno lungo il corso,
pel borgo di Monforte, nelle ortaglie e nelle contrade circostanti al Conservatorio.
I Croati e la cavalleria percorrevano e facevano fuoco dai bastioni, stretti
anche là da vivo fuoco di fucileria degli insorti. Due volte il nemico cercò di
rinforzare la porta con due altri cannoni che tentava condurre da porta
Orientale, ma due volte fu respinto dal continuato fuoco del valoroso cittadino
Vernay. L'ingegnere Cardani col conte Archinto figlio, coi fratelli Modorati e con
altri perseguitò e danneggiò fortemente la truppa. Finalmente Vernay secondato
da una mano di intrepidi popolani tentò l'assalto alla porta Tosa.
A
porta Nuova si aumentarono le fortificazioni rivoluzionarie; specialmente in
capo alla contrada di S. Giuseppe verso Brera, ove alle ore 8 ant. fu costrutta
una barricata per impedir la ritirata alla guardia del Genio e precludere al
presidio del Comando militare ogni via di soccorrerla.
In
seguito i tiratori milanesi, fra le acclamazioni dei cittadini che dalle
finestre eccitavanli a combattere, avanzaronsi intrepidi verso il palazzo del
comando militare, presidiato da una compagnia di granatieri ungheresi e da
un'altra del reggimento Reisinger; e, continuando un vivo fuoco, tentarono
l'assalto del palazzo.
L'intrepidezza,
l'audacia, la fermezza spesso atterriscon più che il numero: questo fu
l'effetto morale prodotto sul presidio del Comando militare, il quale tentò con
perfida arte trarre i giovani guerrieri in agguato. Sulla porta del palazzo
militare comparve un ufficiale con bandiera bianca, chiedendo pace; ma
essendosi uno degli insorgenti presentato a parlamentare, conobbe tosto l'insidia
ordita, e gridò al tradimento. E quel grido diffondendosi pella
contrada, echeggiando per cento labbra, pose gl'insorgenti in guardia. Nè si
sbagliaron essi, poichè ben tosto sbucava truppa dalla contrada dei Fiori,
aprendo vivo fuoco di fucileria; ma senza frutto. - Nello stesso dì, verso le ore
3.30, un drappello di soldati sfondò le porte dell'antica osteria di Brera,
situata sull'angolo che quella contrada fa con quella del Monte di Pietà, ed
entrativi, misero tutto a sacco e ruina sotto il
comando
del proprio colonnello.
A
porta Comasina (ora porta Garibaldi) un maggiore degli ungheresi tentò
sorprendere la buona fede del popolo colla solita menzogna di sospensione
d'armi, ed agitando in aria un fazzoletto bianco nel mentre si avanzava al
Ponte Vetro, assicurò aver ordinato anche altrove a' suoi di sospendere il
fuoco, e propose di recarsi alcuno con lui in Castello per un accomodamento. Il
sacerdote don Pietro Mauri, della parrochia di S. Tommaso, si presentò al
maggiore e si offerse a parlamentario di pace; ma più non ritornando, si
arrestò una guardia di polizia e si notiziò la truppa che la si sarebbe
scannata se non ritornava il prete; e la minaccia valse, giacchè poco dopo ricomparve
don Pietro Mauro, dichiarando ch'erasi ordito tradimento. Tradimento che si
tradusse ben presto in atto con un ben nudrito fuoco di moschetteria da parte
della truppa e con frequenti colpi lanciati di spingarda.
Atroce
fatto, narra Tettoni, successe nella casa di certo signor Torelli, verso
S.Marco, nella quale tenevasi osteria. Gli Austriaci sforzarono la porta, ed,
entrati, uccisero il cuoco ed altre tre persone dopo averle martirizzate in
ogni modo; poi, arrostiti vivi due bambini e cacciata nel ventre ad una donna
incinta a varie riprese la bajonetta, diedero fuoco alla casa, ritirandosi
quindi nel palazzo del Generale Comando. Non facciamo commenti: riproduciamo la notizia e basta!
A
S. Bernardino alle Monache (ora via Lanzone) la caserma omonima che
acquartierava le guardie di polizia cedette al valor degli insorgenti, i quali,
esposti ad un grandinar continuo delle palle nemiche, riuscirono a dar fuoco
alla porta del quartiere. Le guardie però che ritrovavansi al Circondario di
polizia di S. Simone, vedendosi a mal partito, spiegarono bandiera bianca e, simulando
di fraternizzar col popolo, scaricaron poscia i loro fucili verso il popolo
ingannato.
Il
cannone non cessava mai di tuonare dal dazio di porta Ticinese tanto verso il
ponte, come dal bastione verso Viarenna. Però le palle non arrivavano sino
all'ortaglia delle monache; fu per ciò che il lattivendolo G. Meschia con pochi
suoi compagni potettero appostarsi nella contrada delle Vetere; dalla quale con
carabine di precisione fulminarono i cannonieri che stavano al dazio; e furon
sì aggiustati i colpi, che non uno andò fallito, in modo che mano mano che gli
artiglieri avvicinavansi al cannone per darvi fuoco, essi cadevano colpiti dai
tiri di quegli animosi.
Altri soldati penetrarono nel borgo di Viarenna
(oggidì Via Arena) e di là nella stretta Calusca, ove abbandonarono al saccheggio
quelle case e vi commisero ogni sorta di orrori. Là vi trucidarono pure tre
cittadini che furono: Giuseppe Gambaroni, d'anni 58 circa, venditor di rotelle di
corteccia, (in milanese robioeul); Antonio Piotti, d'anni 28, fabbro
ferrajo; e Giuseppe Belloni, cuojajo; i quali, tratti in una vicina ortaglia,
dopo averli straziati in ogni modo, moribondi li copersero di paglia a cui
appiccaron fuoco; semivivi abbruciandoli, e respingendo nelle fiamme chi tentava
sottrarvisi.
Nella
caserma di S. Eustorgio si trovò una panca su cui eravi sangue raggrumato, e
sotto la panca vi si osservò un paja di scarpe civili. Ciò tutto induceva a
ritenere l'esistenza di un assassinio.
Nel
vicolo del Sambuco vi si rappresentarono nuove scene di orrore. I soldati che
passavano sul vicino bastione si vedevano ridotti a bersaglio di un fuciliere
nascosto in una casa esistente nel vicolo del Sambuco; e i colpi non erravano
in quell'umano bersaglio, ma tutti miravano giusto! I soldati allora
precipitaron dal bastione nella casa ove ritenevano partire i colpi, e,
penetrati nell'osteria della Palazzetta, vi pretesero da mangiare e da bere, vi
ferirono l'oste e sua moglie; quindi gli abbruciarono.
In
tutta la giornata però non vacillò il coraggio de' cittadini, ma nelle prove
s'assodò, si rinforzò, dilatossi. Siccome però il popolo doveva invadere pubblici
edificii per scacciarne il nemico; e doveva poi anche custodire le proprietà
devolute alla patria, così venne pubblicato il seguente proclama
«CITTADINI
«Si
pregano istantemente tutte le Guardie Civiche di prendere sotto la loro
immediata protezione tutti i pubblici stabilimenti e tutti gli oggetti che vi
si tengono, e sopratutto le carte che possono essere preziose per le famiglie.
«D'ora
in poi tutte le cose che erano del Governo son nostre. Dunque conserviamole.
«ORDINE E CONCORDIA».
Nel
chiudere la storia di questo giorno non possiamo sottacere che durante la
giornata la Congregazione aveva cominciato a presentarsi sotto forma di Governo
Provvisorio, Uno de' suoi proclami fu il seguente:
«CITTADINI
«Uomini
coraggiosi hanno superate le mura della città e ci hanno recate notizie delle campagne,
e lettere scritte alle porte. Pavia è insorta e chiuse il nemico nel castello.
Anche a
Bergamo
il presidio si è arreso col generale, figlio dell'ex-Vicerè. Evviva ai nostri
fratelli di Pavia e di Bergamo! Tutte le popolazioni sulle vie di Gallarate e
Busto Arsizio a Milano si sono levate in armi e hanno disarmate le truppe,
presi sei pezzi di cannone, impedito che il ponte di Boffalora fosse tagliato.
Evviva ai nostri fratelli di contado! Abbracciamoci tutti in un amplesso!
Ringraziamo
Dio. Gridiamo:
«VIVA L'ITALIA - VIVA PIO IX.
«Il
Governo Provvisorio
«CASATI - GIULINI - GREPPI - BERETTA»
In
quel giorno si pensò poi anche ad organizzare i varii Comitati che dovessero coadiuvare
l'opera del Governo provvisorio; essi furono i seguenti.
1.
Comitato di difesa e di guerra;
2.
Comitato di pubblica sicurezza;
3.
Comitato di finanza;
4.
Comitato di sanità;
5.
Comitato di sussistenza.
Nella
casa del conte Carlo Taverna in contrada de' Bigli stabilirono loro sede il
Governo Provvisorio e il Comitato della Pubblica sicurezza, e vi si custodirono
alcuni personaggi ed ufficiali prigionieri. Nella casa di Carlo Vidiserti fu
collocato il Comitato di pubblico armamento e di guerra.
Alle
5 ore del mattino Radetzky fece suonare a raccolta. Sembrava che le cose
dovessero avere un prospero fine nella giornata.
Alla
mattina le truppe cominciarono le fucilate e le cannonate dai bastioni della
città: le barricate erano state da parte del popolo spinte molto avanti nella
precedente notte.
L'alba
era nuvolosa, e piovigginava: le campane della città continuavano a suonare a stormo:
- i gridi di rabbia da parte dei Tedeschi e quelli di gioja da parte degli
insorgenti
echeggiavano
dovunque: - a porta Tosa si lavorò indefessamente dalle 7 alle 10 a rinforzare
le barricate e vi si collocarono i più audaci combattenti, mentre i più esperti
fucilieri vennero disposti sulle diverse case dei dintorni e pegli orti onde
potessero meglio molestare il nemico su tutti i punti, uccidere gli artiglieri
allorchè s'avvicinavano al cannone per apprendervi fuoco, dando campo in tal modo
agli altri popolani d'avvicinarsi per di dentro e per di fuori alla porta Tosa.
Nella città frattanto provvedevasi dal popolo
ingegnoso ed entusiasta a far fronte in mille modi alle grandi forze del
nemico. Si costrussero cannoni di legno cerchiati di ferro, tanto che reggessero
a un certo numero di colpi; s'aumentò la fabbricazione della polvere e del
cotone fulminante e la fusione delle palle; si pose in ogni opera un'attività
immensa, un entusiasmo indicibile.
I
consoli residenti in Milano, che si erano interposti sin dal principio del
combattimento per comporre le quistioni fra le due parti ed evitare un
bombardamento, eransi rivolti alla Municipalità onde communicarle la lettera di
Radetzky, chiedendo da essa una risposta in proposito.
«Ora,
lasciò scritto Cattaneo, mentre dopo il mezzodì del quarto giorno stavamo concertando
con Borgazzi per l'assalto al bastione, la Municipalità ci invitò a convenir
seco lei
intorno
alla risposta da darsi ai Consoli che sarebbero venuti a riceverla verso le ore
tre.
«Proponevasi,
diversamente dal giorno innanzi, non armistizio di quindici giorni ma di tre; libera
una porta, sì all'entrata delle vettovaglie, che all'uscita degli stranieri, ed
anco dei cittadini; ma non estesa la tregua alla campagna.
«Casati,
assentendovi per sè, pregò il collaboratore Giuseppe Durini a ripeterci un
sottile ragionamento che aveva già fatto ai municipali, provando che
l'armistizio avrebbe giovato più a noi che al nemico che lo dimandava! I
collaboratori e i loro(38) seguaci
se ne mostravano già tutti persuasi; tranne Achille Mauri, che pure faceva già
loro da secretario.
«Invitato
da' miei colleghi ad esprimere il loro voto, osservai che, dopo un nuovo giorno
di vittoria, il richiamare dal combattimento i cittadini era divenuto ancora
più difficile; e che non conveniva dar tempo al nemico di ritorcere tutte le
forze sulla campagna. - E infatti lettere intercette si scopersero poi, che,
s'ei si avviliva a dimandare quella tregua, era solo perchè i tre giorni gli
abbisognavano per avere in Milano mille e duecento grosse bombe, sbarcate
allora in Piacenza.
«Feci
poi considerare che quell'intervallo, oltre al dar agio al nemico di far macello
dei nostri soccorritori, avrebbe rallentato il vittorioso impeto dei cittadini,
i quali sarebbero atterriti poscia dallo spettacolo forse dei trucidati amici.
Feci considerare che l'esempio apportava contagio; che il primo giorno, la
città sarebbe abbandonata dai forestieri, dalle donne e dai timidi; il secondo,
lo sarebbe dai prudenti; e il terzo, anche dagli animosi. Conveniva ritenere i
forastieri fra noi; erano sempre un ostacolo all'incendio e al saccheggio; non
si poteva immaginare che il vessillo francese, sventolante a lato al nostro,
non dovesse imporre qualche freno agli eccessi. -
«Allora
il conte Borromeo raccomandò di non dimenticare che si difettava di munizioni,
e si avevano viveri solo per ventiquattr'ore. - Dopo le cose più sopra narrate,
non fu millanterìa in me il rispondergli che il nemico, avendoci fornito fin
allora le munizioni, ce le avrebbe fornite ancora.
Quanto
ai viveri, che dovevano durare solo per ore ventiquattro, gli risposi, aver io
sciupato in cose statistiche quanto tempo bastava per potergli far sicurtà che
computi così precisi non si potevano fare: - «Del resto, gli dissi,
ventiquattr'ore di viveri e ventiquattro di digiuno saranno molto più ore che
non ci sia mestieri. Il nemico sui bastioni non può reggere; è una linea troppo
prolungata (erano dodici chilometri); gli deve già riescire assai malagevole la
distribuzione dei viveri; e difatti in giro alla città Croati e Tedeschi sono
già ridotti a vivere di ruba. Questa sera, se riescono i concerti fatti or ora,
sarà spezzata la sua linea lungo i bastioni; e per poco che tardi a mettersi in
ritirata, non troverà più strade. - Infine, quando pur ci dovesse mancare il pane,
meglio morir di fame che di forca». -
«I
conti Casati, Durini e Borromeo, propugnando fra quella tanta effervescenza
d'animi l'armistizio, si erano messi affatto a nostra discrezione; poichè si
udivano affollati all'uscio i giovani vociferare sdegnosamente contro qualsiasi
aggiustamento. Dopo essere uscito a tranquillarli, io pregai Casati a por fine
a un diverbio oramai ozioso; poichè troppo era manifesta l'impossibilità di far
deporre alla gioventù le armi, che aveva sì felicemente impugnate.
«Dopo
pochi momenti, giunsero vestiti dei loro uniformi i consoli; e udirono il
rifiuto dell'armistizio dalla bocca dell'eroico podestà. Ancora quella volta
noi concedemmo ai nostri
avversarii
un immeritato vantaggio; tanto è vero che non operavamo per ambizione di parte,
ma per sentimento di cittadini. Strinsi la mano a quei rappresentanti dell'Inghilterra
e della Francia, senza frammettere allusione veruna ai nostri dissidii. È
verissimo però che nella lettera indirizzata dal Casati ai consoli, e da questi
publicata, il rifiuto dell'armistizio venne attribuito al volere del popolo.»
Appena
partiti quei signori, apparve in città il conte Enrico Martini, inviato dal re
Carlo Alberto onde parlare della dedizione del paese al re sardo, il quale
prometteva soccorsi d'uomini e d'armi in tale caso. Osteggiava la proposta il
Cattaneo che sosteneva dover il popolo, non le autorità civili disporre dello
Stato; non essere d'altronde quella l'occasione propizia di convocare il popolo
a votazioni, correndogli dovere e necessità in quei supremi momenti di provvedere
alla difesa dall'inimico, all'offesa onde scacciarlo e procurarsi libertà.
Opponevano gli altri a Cattaneo che il popolo difettava d'armi e munizioni,
alle quali avrebbe potuto provvedere colla dedizione al re sardo; che del resto
con quel sovrano si avrebbero ottenute adesioni e soccorsi anche da tutti gli altri
governi italiani. Accalorata fu la discussione, e vi si cominciò a germogliare
quella discordia di principii repubblicani e costituzionali sempre cattiva,
esiziale in allora, e che perdurò per tutto il tempo successivo della guerra
sino alla rotta di Carlo Alberto.
Prevalse
in quella discussione l'opinion della Municipalità di accogliere le proposte di
re Carlo Alberto ed usufruttare dei mezzi ch'egli offriva.
Il
Consiglio di guerra allora credette utile di raccomandare ancora una volta ai
cittadini la federazione militare di tutti i popoli d'Italia volgendo il
seguente appello a tutte le città della penisola:
«ITALIA
LIBERA
«Ormai
la lotta nell'interno della città è compiuta. È tempo che le città vicine si
scuotino e imitino l'esempio di questa. Noi invitiamo tutte e ciascuna a
costituire un Consiglio di Guerra, che lasci le cose di consueta
amministrazione ai Municipii costituiti in Governi Provvisorii. Per noi vi è un
solo ed unico affare, quello della guerra, per espellere il nemico straniero e
le reliquie della schiavitù da tutta l'Italia. - Invitiamo tutti i Consigli di
Guerra a limitarsi a questo. - Ci sarà grato il ricever loro immediate novelle
ed intelligenze per mezzo di Commissarii che abbiano animo degno dell'impresa.
- Noi domandiamo ad ogni città e ad ogni terra d'Italia una piccola deputazione
di baionette, che, guidata da qualche buon capitano, venga a fare una giornata
d'assemblea generale ai piedi delle Alpi, per far l'ultimo e definitivo nostro
commento coi barbari. - Si tratta di ridurli coi debiti modi a portarsi
immantinente d'altra parte delle Alpi, ove Dio li renda pure liberi e felici come
noi.
VIVA PIO IX
«Dal
Consiglio di Guerra in casa Taverna, 21 marzo 1848.
«CATTANEO - TERZAGHI - CLERICI - CERNUSCHI.
Quindi
il Consiglio di Guerra rivolgevasi a tutti i militari che si trovavano alle lor
case ondeaccorressero ai soccorsi della patria, pubblicando il seguente invito:
«ITALIA LIBERA.
«I
Milanesi domandano il concorso degli ufficiali e soldati in pensione ed in
permesso. Non è mai un delitto difendere la patria. - Viva Pio IX.
«I
Membri del Comitato di Guerra
CATTANEO, CERNUSCHI, TERZAGHI, CLERICI»
Onde
ottenere poi l'effetto della dedizione che il Municipio voleva fare del paese a
re Carlo Alberto, il Consiglio di Guerra cercò dimostrare che esso si rivolgeva
a tutti i popoli anzichè ad un principe solo, onde rimuovere ogni
suscettibilità politica e dinastica in Italia. Col mezzo aereostatico
diffondeva quindi il seguente proclama:
«ITALIA
LIBERA
VIVA PIO IX
«La
città di Milano per compiere la sua vittoria e cacciare per sempre al di là
delle Alpi il comune nemico d'Italia, domanda il soccorso di tutti i popoli e
principi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte.
«21
marzo.»
Milano
entro la cerchia del naviglio era quasi tutta liberata; pochi luoghi rimanevano
a guadagnarsi.
Il
Tribunale criminale era stato con grave pericolo dell'ordine pubblico
abbandonato dalla truppa sin dal giorno precedente: avean potuto le guardie
carcerarie contenere i detenuti
all'obbedienza
nascondendo loro la partenza della truppa; ma, occupato il Tribunale dal
popolo, nel suo entusiasmo ritenne dover essere suo primo atto quello di aprir
le prigioni dei detenuti politici e di rimetterli in libertà; come ne li pose
bentosto. Essi erano: Filippo Villani, Luigi Ancona, Gallardi, Enrico Rivolta,
Zanelli Francesco, Acerbi Giovanni, Filippo Fornara, Manfredo Camperio, Andrea
Ponzio, Giovanni Grassi, Alessandro Borgazzi, Ercole Salvioni, Sac. Giuseppe Brambilla,
Carlo Scanziani, Achille Volpi, Carlo Seldati, Pietro Cova, Giovanni Barbieri e
Angelo Maroni.
Occorreva
però di provvedere acciò nel parapiglia non fuggissero gli altri detenuti per delitti,
poichè essi eransi già accinti a procurarsi la libertà. Accorsovi però l'avv.
Pier Ambrogio Curti, membro del Comitato di Pubblica Sicurezza, impugnando una
sciabola nella destra e una pistola nella manca, come ebbimo in eguale
atteggiamento già a vederlo nella contrada di S. Damiano, si affacciò
arditamente alla porta d'uscita, minacciò d'esploder l'arme da fuoco sul primo che
s'avanzasse, cercando con altre parole poi di persuadere i detenuti che si
avrebbe tenuto grande calcolo della loro sottomissione; che egli impegnava la
sua parola d'onore che l'instruttoria sarebbe stata accelerata, rimessi in
libertà gli assoluti, ritenuta pei condannata una circostanza molto attenuante
quella di aver ottemperato in quel momento all'ingiunzione di rientrare in
carcere. E tanto disse e tanto fece, che quegli uomini, che pur sentivano amor di
patria, deposero le armi che già stringevano e rientrarono nella prigione. A
questo fatto vi concorse poi anche la presenza di
coraggiosi
cittadini che accorsero ad assecondare l'opera e gli sforzi del Curti.
Il
Genio militare era uno dei pochi luoghi ancora occupati dalla truppa, ove vi si
distinsero fra i molti il Sottocorno, l'ingegnere Suzzara ed Augusto Anfossi,
di cui abbiam già parlato. Francesco Pagnoni, che erasi adoperato fino del
primo giorno come lettore di tutti i proclami che circolavano per la città e
nel persuadere le mogli e le madri a lasciare che i loro mariti e figli
prendessero parte all'insurrezione, con coraggio e con gravi sacrifizii
prestossi nei combattimenti di contrada di Brera e del Monte di Pietà a tenere
indietro i soldati austriaci che tentavano di oltrepassare le barricate per
portarsi al Genio onde salvare il presidio che in quel palazzo stava rinchiuso.
Ma per quanto impetuosi fossero gli assalti dei soldati pure ogni lor tentativo
veniva paralizzato e reso frustaneo da una pioggia di tegole e di sassi che
cadevano da ogni punto del tetto della casa Passalacqua. I Tedeschi vedendo
tornar vani i loro sforzi, ripiegarono al Comando Generale e saliti sul tetto
di quel palazzo diressero quantità di colpi di spingarda sugl'insorti, senza
che alcun di loro però ne rimanesse ferito. Mezz'ora dopo ritornarono all'assalto
delle barricate: ma i difensori di esse, riparati sui fienili, con una ben
nudrita pioggia di tegole, e di ogni sorta di macerie di cui erano ben
provvisti, di nuovo li fecero retrocedere. Il combattimento durò dalle 11 ant.
alle 4 pom., dopo di che si recarono al Genio.
Alla
presa del Genio, il Pagnoni fu tra quelli che vi penetrarono, e vi ebbe campo
di salvare una cameriera addetta alla famiglia del conte Neuperg e la condusse
salva a' di lei parenti. La presa del Genio venne ben tosto notificata al
popolo col seguente avviso:
«CITTADINI
«Nuove
vittorie!
«Il
nemico che occupava il palazzo del Genio, dopo replicati assalti ha ceduto al
valore dei prodi nostri cittadini. Oltre a 160 soldati e tre officiali sono i
nemici che si costituirono prigionieri, cedendo armi e munizioni.
«DIO È CON NOI!
VIVA L'ITALIA
«Dal
Comitato di pubblica difesa.
Ore
3 pom. del 21 marzo 1848.
L'ufficio
di Polizia in S. Simone fu pure preso con perdita di cittadini. La caserma di
S. Francesco cadde anch'essa in potere degli insorti. Queste furono le conquiste
dell'insurrezione: altri combattimenti però avvennero senza decisivo risultato,
dei quali ne parleremo qui appresso.
Riteniamo
però di dover prima riportare un editto del Comitato della guardia civica, col
quale eccitavansi tutti i cittadini a concentrare le loro forze sui punti più
minacciati dal nemico: tale editto era così concepito:
«CITTADINI
«È
inutile durante il giorno, mentre il nemico è lontano, si fermino alle
barricate interne quelli che sono muniti di fucile e di carabine. È alle
barricate esterne, investite direttamente, che è d'uopo portare tutte le forze
disponibili in soccorso dei valorosi che tengono fronte al nemico.
Quelli
pertanto che trovassero aver compiuta l'opera loro in un dato luogo, anzichè
fermarsi alle barricate lontane dal nemico e d'altronde munite a sufficienza
da' vigili abitanti delle contigue case, si rechino alla direzione generale
della guardia civica, contrada del Monte N. 1263 c, casa Vidiserti, la quale
ricevendo ad ogni istante domande di soccorsi dai difensori delle nostre più
esposte posizioni, assegnerà condegno campo al loro valore. La vittoria è certa:
colla più rigorosa disciplina la compiremo, vieppiù facilmente.
VIVA L'INDIPENDENZA
«Dal
Comitato direttore della guardia civica Ore 2 pom. del 21 marzo 1848»
A
porta Ticinese verso sera avvennero gravi fatti: crediamo di riportarli colle parole
del Tettoni nella sua Cronaca della rivoluzione di Milano.
«Verso
le ore cinque di sera, egli dice, una mano di soldati irruppe dal dominante
bastione di questa Porta, e per la via di un muro di cinta dell'ostiere Fossati,
che primo colla moglie fu trucidato, invase la casa posta nel vicolo del
Sambuco, num.° 3707, nella quale, trovata la porta aperta, ebbe facile
ingresso. Cominciarono a devastare e derubare i pochi arredi del portinajo:
indi saliti al primo e secondo piano atterrarono le porte, e trucidate quattro
persone le gettarono in corte, gridando: fatevi guarire da Pio IX, e
depredate anche qui in quasi tutte le stanze le misere suppellettili, e
derubati i pochi danari e le lingerie, unica sostanza degli artigiani che colà
abitavano, discesero le scale fino alle cantine dove la maggior parte delle donne
s'erano rifuggite; e quivi senz'altro scaricata una fucilata, colpirono un
bambino d'anni tre nelle braccia di suo fratello, egli pure mortalmente ferito;
il morente bambino venne poscia barbaramente strappato dalle braccia non più
valide del fratello, e gettato sulla siepe della strada confinante. - Pure
nella stessa casa vi abitava certo Migliavacca d'anni 43 circa, ammogliato, con
due figlie, uomo di specchiata probità, vero e caro padre di famiglia, il quale
appena accortosi dei gridi che di subito si sparsero nel vicinato al furioso
entrare delle soldatesche, procurò possibilmente di assicurare la propria
famiglia chiudendosi in casa, ed opponendo tutta quella resistenza che chiunque
avrebbe procurato di tentare nel vedere la propria vita congiunta alle parti
più care di sè stesso minacciate da sicura morte. Sua disgrazia volle che vani
fossero i suoi sforzi, giacchè, riunitisi que' mostri in numero sovrabbondante,
gli sfondarono la porta; ed appunto per aver loro usato resistenza, appena
entrati prima cosa fu di percuoterlo spietatamente ed obbligarlo a chiedere
ginocchioni la vita, indi saccheggiarlo di tutto quel poco di meglio che aveva
per l'importo di lir. 653. Poi risovvenendosi
uno
di essi che avevano dovuto impiegare qualche fatica per rendersene padroni,
senza più riguardo niuno, subito come furia d'averno gli si avventa addosso, e
duro e freddo qual marmo alle strazianti lagrime della moglie e delle figlie,
che quasi fuor di sè stesse dallo spavento chiedevano grazia per l'infelice,
gli scaglia un colpo sulla testa e gli altri lo imitano; indi così lo
abbandonano estinto al suolo; lasciando gli sventurati suoi cari in uno stato
di dolore che ci fa pena il descrivere, bastando il fatto da sè stesso a darne
tutto il campo alla considerazione. -
«A
Giovanni Battista Beltrami si deve la salvezza del borgo di Viarenna. Dopo di
aver recato soccorsi di vitto e di denari agli abitanti di questa parte della
città confinante coi bastioni della Porta, alla testa di pochi uomini eseguì
una barricata mobile con fasci di legna, e la spinse avanti l'inimico, il quale
vi scaricava contro una grandine di palle ed alcuni colpi di cannone a mitraglia.
Infiammati i nostri di furor patrio non temono la morte, e si spingono tanto
sotto che costringono l'inimico alla fuga, lasciando tre de' suoi morti sul
campo. - Il Beltrami contribuì ancora alla liberazione di Cittadella.»
A
porta Tosa alcuni cittadini potettero uscir di città guadando un'acqua che
scorre sotto il bastione tra porta Romana e porta Tosa: portatisi poscia
insieme ad altri del contado in una casa suburbana che dominava il bastione,
apersero un vivo fuoco di fucileria dalle finestre.
Il
locale del Conservatorio venne destinato a servir di appostamento ai
bersaglieri cittadini, onde distrarre le forze militari della porta Tosa, e
facilitare da altro punto l'assalto e la presa della porta. I fatti avvenuti in
quel luogo vennero con speciale precisione descritti nell'opera Racconti di 200
e più testimoni oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate: li
riportiamo colle parole stesse di quell'opera:
«A
undici ore di notte si radunarono molti patriotti in questo locale per
l'esecuzione del suesposto progetto.
«Io
con un lumicino accompagnai l'ingegnere Cardani e diversi altri armati di
fucili e carabine nel quartiere delle alunne destinate all'uopo; le gelosie
delle finestre erano state chiuse
tutto
il giorno, e nelle diverse scuole e nei dormitorii si appostarono i valorosi.
«Intanto
alcuni zappatori, diretti dal signor Borgocarati, entrarono per la parte della
cucina nel giardinetto sottoposto. Io procurai loro una leva di ferro ed altri
attrezzi necessarii per aprire una breccia nel muro di cinta; come fecesi colla
massima precauzione per non essere scorti dal nemico. L'ingegnere Cardani,
fattosi loro guida, li condusse colle scale della Chiesa della Passione per le
ortaglie sui bastioni, ivi furono da noi calate le scale di fuori lungo le
mura, onde avessero ad ascendere quelli che si trovassero esternamente, e che
si dicevano accorsi in aiuto. Sfortunatamente non si vide nessuno; sia però
lode egualmente a quelli che progettarono ed eseguirono tale operazione tanto
arrischiata ed ingegnosa!»
«Ad
un'ora di notte si cominciò dai nostri a tirare contro i militari posti di
guardia dietro le piante del bastione; questi risposero colle loro solite
fucilate; poi si videro dei picchetti partire da porta Tosa e dal borgo di
Monforte e venire a schierarsi di dietro le piante su quel punto delbastione, e
così a colpi replicati e frequenti d'archibugi si continuò per più di un'ora,
quando a un tratto cominciarono le cannonate.»
«Un
cannone di porta Tosa, appostato dagli Austriaci in capo alla stradella sul
bastione, e un altro al borgo di Monforte nel punto opposto, cominciarono a
tirar contro le finestre del Conservatorio, e ne menarono fiera rovina.»
«Ma
Dio vegliava su noi, poichè de' tanti nostri, che per ben cinque ore di seguito
continuarono a combattere in questa località, due soli rimasero feriti in detto
quartiere delle alunne: uno fu certo Poletti Carlo, che, colpito da una palla
di fucile, fu trasportato da prima nella cucina inferiore del Conservatorio,
dove gli prestarono soccorsi d'ogni sorta, nel che il signor Preposto Radaelli
si distinse per carità, coraggio e zelo; quindi fu trasportato al deposito ove
morì il 25: - un altro, Antonio Donzelli, addetto allo studio del signor
avvocato Lissoni, restò ferito egualmente, mentre l'ingegnere Cardani gli
caricava il proprio fucile. Il Donzelli però vive tuttora, essendogli stata dal
chirurgo Valerio levata la palla, e si spera che guarirà. Alcuni de' nostri più
ardimentosi, dalla breccia del muretto del giardino del Conservatorio si
spinsero nella prossima ortaglia, e di là
sino
sul bastione con una scala della Chiesa, ma dovettero poi ritrarsi, restandone
alcuni morti sotto le palle nemiche.»
IL
22 MARZO
Nella
notte del 21 al 22 marzo il popolo stette vegliando, geloso di quanto aveva
sino a quel giorno guadagnato, diffidente e pauroso di qualche insidia da parte
de' nemici. Da una barricata all'altra facevasi di ora in ora, spesso di
mezz'ora in mezz'ora, circolare il grido di: All'erta! – grido che da
una barricata all'altra faceva il giro delle(39) barricate tutte di Milano, e terminava al punto centrale da cui era
partito primamente.
E quel grido monotono, acuto, che faceva il giro di
tutta una vasta città, scendeva come freddo marmo nei cuor de' Tedeschi ad
aggellare gli spiriti!...
A
quel grido rispondeva il rombo frequente di cannone che facevasi sentire a
porta Tosa, a porta Comasina, a S. Celso e in altri punti importanti dei
bastioni, perchè volevasi in quella notte serrare il Tedesco fra due fuochi e
dar l'assalto ad una delle porte: disegno accortissimo, ma che cadde per
mancanza di accordi nelle mosse; imperocchè in quell'organizzazione improvvisata
della milizia insorgente, la quale non aveva avuto tempo di intendersi con
precisione sui modi di azione, divisa com'era dalle barricate che facevano
ritardare di molto le trasmissioni degli ordini del Consiglio di guerra per la
difficoltà delle comunicazioni, e infine la mancanza di una disciplina che non
si può improvvisare, provocava sui diversi punti diversità di ordini, di
provvedimenti, di mosse. Chi gridava da un punto: Colle armi a porta Tosa! e
dirigeva colà i combattenti: chi
gridava:
Si apre la porta Romana! e faceva colà convergere una parte di popolo
armato.
Intanto
in mezzo a quelle voci di gioja, - in cui sembrava ai cittadini d'assistere e
far parte a un festino, - scorse rapida la notte, e l'alba tanto ansiosamente
aspettata spuntò irraggiata dal sole: - sembrava che l'astro maggiore
splendesse maggiormente, e che vibrasse raggi di libertà sopra un popolo che
aveva per cinque giorni e cinque notti eroicamente pugnato, da forte vincendo e
da forte morendo... A quell'alba che lusingava i cuori di uomini che avevano
compiuti i maggiori sacrifizii ch'uom possa compiere, a quell'alba i cittadini
ritenendo fortemente presidiato il locale del General Comando, con slancio gli
diedero l'assalto, - ma niuno vi rispose da quel palazzo, chè gli Austriaci
l'aveano
quetamente abbandonato nella notte precedente, talchè il popolo l'occupò senza
colpo ferire. Avendovi trovate le carrozze de' generali, esse furono ben tosto
adoperate per costrurre nuove barricate. Sopra un balcone in contrada di Brera
vennero trovati in quella mattina due obizzi e due razzi de' Tedeschi.
A
S. Celso fu preso il collegio militare di S. Lucca. Questo collegio de' cadetti
aveva per direttore un tal Severus, il quale aveva ordinato al maestro Corsich
di disporre 140 alunni in modo che al sicuro potessero offendere coi fucili e
col cannone i cittadini inermi che nel secondo dì della rivoluzione uscivan di
casa per provvedersi di alimenti. A questi alunni vennero aggiunti 300 cacciatori
tirolesi, onde sostenere di poi l'assalto che per tre giorni continui seguitò a
darsi dal popolo. Onde assicurarsi della fermezza degli alunni italiani, il
Severus aveva minacciato venticinque colpi di bastone per chiunque non
ottemperasse scrupolosamente agli ordini superiori.
Assediato
però il collegio da tutti i lati, per ogni parte bersagliato, impedita ogni
comunicazione esterna, finalmente se non fu preso d'armi, dovette arrendersi
per fame.
Le
mansioni del Consiglio di guerra però, limitate dalle attribuzioni della
municipalità, dietro rimostranze di Cattaneo che dimandava i poteri di un vero
ministero di guerra, e suggeriva che si destinasse a presiedere il nuovo
dicastero un uomo del governo provvisorio, proponendovi Pompeo Litta ch'era già
stato nella milizia del regno d'Italia, da Casati vennero approvate scrivendo in
un foglio:
«COMITATO DI GUERRA
«Presidente,
Litta - Membri, Cattaneo, Cernuschi, Terzaghi, Clerici, Carnevali,
Lissoni, Ceroni, Torelli.
Casati
cercò quindi di spiegarsi in faccia al popolo, facendo conoscere d'aver assunte
le attribuzioni di Governo Provvisorio; questa dichiarazione però non fu fatta
esplicitamente con apposito proclama, ma venne accennata, incidentalmente quasi e per ultima notizia,
in un proclama che trattava di altri negozii. Ecco tale documento:
«CITTADINI!
«Milano,
22 marzo 1848.
«L'armistizio
offertoci dal nemico fu da noi rifiutato ad istanza del popolo che vuole combattere.
«Combattiamo
adunque coll'istesso coraggio che ci fece vincere in questi quattro giorni di lotta,
e vinceremo ancora.
«Cittadini!
Riceviamo di piede fermo questo ultimo assalto dei nostri oppressori con quella
tranquilla fiducia che nasce dalla certezza della vittoria.
«Le
campane a festa rispondano al fragor del cannone e delle bombe, e vegga il
nemico che noi sappiamo lietamente combattere e lietamente morire.
«La
patria adotta come suoi figli gli orfani dei morti in battaglia, ed assicura ai
feriti gratitudine e sussistenza.
«Cittadini!
questo annunzio vi viene fatto dai sottoscritti costituiti in Governo Provvisorio, che, reso necessario da
circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, viene così
proclamato:
«Casati,
Presidente
Vitaliano
Borromeo
Giuseppe
Durini
Pompeo
Litta
Gaetano
Strigelli
Cesare
Giulini
Antonio
Beretta
Anselmo
Guerrieri
Marco
Greppi
Alessandro
Porro.»
Con
altra ordinanza il Governo Provvisorio si nominava il segretario nella persona
di Cesare Correnti.
Il
Comitato di Vigilanza alla pubblica sicurezza era stato costituito sin dal 20
marzo; ma non lo si era completato. In questo dì venne definitamente organizzato,
introducendovi tra i nuovi membri un distinto avvocato, caldo patriota, uomo di
carattere non tanto spinto all'entusiasmo momentaneo, quanto a' fermi e
giudiziosi propositi, nemico de' precipitati giudizii e desideroso di giustizia
e di legalità; questo uomo fu Francesco Restelli. Il suo aspetto destava
simpatia e rispetto: la sua alta e spaziosa fronte rivelava molta intelligenza,
il suo modo famigliare nel conversare inspirava fiducia. Egli si era già
acquistata fama di democratico e di buon avvocato in una causa dimostra esser
stato imposto dal popolo all'Autorità cittadina! sostenuta contro il governo
austriaco per una quistione di lotto; nel 1848 fu quindi nominato nel Comitato
di Vigilanza, venendo più tardi adoperato in più gravi mansioni, quale quella,
per accennarne una, di membro del Comitato di difesa con Fanti e Maestri
allorchè gli eventi della guerra volsero a male: ciò però sfugge all'epoca
storica che trattiamo. Quel comitato di Vigilanza così completato, si annunziò
al pubblico col seguente manifesto:
«CITTADINI
«Si
reca a vostra notizia la provvisoria organizzazione del Comitato di Vigilanza
alla sicurezza personale (Casa Taverna, contrada dei Bigli).
«Dott.
Angelo Fava, Presidente
Dott.
Andrea Lissoni, Membro
Dott.
Agostino De Sopransi, idem.
Avv.
Pier Ambrogio Curti, idem.
Francesco
Carcano, idem.
Avv.
Francesco Restelli, idem.
Luigi
Ancona e Pietro Cominazzi, Segretarii.
Cesare
Viviani, Aggiunto.
Prospero
Marchetti, idem.
Ballestrini
Pietro, idem.
Luigi
Manzoni, idem.
Santo
Polli, Capitano della guardia del Comitato.
Rusca
Antonio, idem.
Avv.
Toccagni, idem.
Lottario
Rusca, idem.
Giulio
Comolli, idem.
Dott.
Raffaelle Rusca, idem.
Luigi
Brivio, assistente, idem.
«Dal
Comitato di Vigilanza alla pubblica sicurezza 22 marzo.
«Il
Presidente A. FAVA
«P.
COMINAZZI, Segretario»
Gli
altri Comitati erano così costituiti:
COMITATO DI DIFESA
(Casa
Vidiserti, Contr. del Monte, 1263 C.)
Riccardo
Ceroni, Direttore in capo
Antonio
Lissoni, Comandante organizzatore della Guardia Civica
A.
Anfossi(43), Comandante di tutte le
forze attive.
A.
Carnevali, Direttore di tutti i punti di difesa.
Luigi
Torelli, Direttore delle ronde, delle pattuglie e dei Corpi di Guardia.
G.
Alessando Biaggi - Luigi Narducci, Segretarii.
COMITATO DELLA SUSSISTENZA
(Casa
Pezzoli, Corsia del Giardino)
Negri
Luigi - Ferranti Eugenio - Ugo
Ferdinando
- Lampato Francesco - Besevi
Emilio
- Besozzi Antonio - Molossi Pietro.
COMITATO DI FINANZA
(Casa
Taverna)
Membri, Alessandro Litta Modignani
- Gaetano
Taccioli
- Cesare Clerici.
Correndo
poi voci che l'Austria avesse spediti emissarii nell'interno della città sotto
mentita veste; ed anzi sussurrandosi ch'essa, fabbra d'astuzia e nell'ingannare
accorta, avesse voluto usufruttare del sentimento religioso che animava le
masse insorgenti (che prendevan quasi a parola d'ordine il nome del pontefice
Pio IX) ed avesse spediti in città emissarii travestiti da sacerdoti, il Comitato
di guerra pubblicò il seguente manifesto
«CITTADINI
«Viene
riferito che alcuni travestiti da prete siano esciti dal Castello. Se ne dà
notizia perché si vigili, e ad un tempo stesso perchè i nostri buoni sacerdoti
ci rendano il servigio di dare pronti schiarimenti quando ne vengano richiesti.
«La
spada del maresciallo Radetzki, la spada di sessantacinque anni, che fu tinta
nel sangue de' nostri fratelli, è nelle nostre mani; nuovo pegno per ora della
nostra vittoria, sarà balocco ai nostri fanciulli.
«Sessanta
Croati finiti dalla fame sono venuti ad implorare la nostra pietà. Eroi nella
pugna, noi siamo e saremo generosi nella vittoria. Tutti i molti prigionieri
che si sono arresi sono da noi trattati come vuole l'onore italiano.
«VIVA L'ITALIA - VIVA PIO IX
«Dal
Comitato Centrale di Guerra in casa Taverna, 22 marzo 1848.»
Durante il giorno la caserma di S.
Vittore era stata pur presa dal popolo. A porta Romana il rapporto del
capo-posto del Corpo di Guardia del palazzo di Giustizia notiziava il Comitato
di guerra che nel borgo di P. Romana (ora corso di P. Romana) un drappello di
fanteria austriaca verso le 10 ore pom. di quel giorno, dopo aver cannoneggiata
la casa N. 4556, l'avea invasa e saccheggiata. Ma il punto principale del
combattimento era a porta Tosa. Un avviso al Comitato faceva conoscere alle ore
12 essere arrivata in quel momento la sola macchina a vapore da Treviglio; -
che una compagnia di linea si era diffilata sul bastione, dirimpetto alla
Passione, facendo fuoco dalle scarpe di quel baluardo; - annunciavasi
l'accanimento della lotta a porta Tosa, e si chiedevano rinforzi; - che da
porta Vercellina (ora porta Magenta) molte truppe concentravansi in Castello
(ed erano quelle della brigata Maurer, come si seppe di poi, che ritornava
dalla frontiera piemontese), e che temevansi quindi sempre nuovi rinforzi ai
Tedeschi. In vero il combattimento a
porta
Tosa era vivissimo: era quello il punto decisivo della battaglia fra la
democrazia e l'assolutismo: - fra un popolo ed un imperatore: - fra il diritto
e la prepotenza. In quel punto
l'accanimento
della zuffa era estremo: l'impeto con cui dal popolo si attaccava era
irresistibile, quanto immensa dimostravasi la ferocia delle milizie imperiali,
già prepotenti per sè, eccitate ora al sangue dai loro superiori, inferocite
dalla terribile resistenza e dalla sconfitta che loro toccava su ogni punto. In
questo luogo più che altrove il cannone e le bombe mitragliando e bombardando, portavano
lo sterminio fra i combattenti, la rovina nei caseggiati. Dove potettero
penetrare gl'imperiali, là non mancavano nè il saccheggio, nè l'assassinio, nè
peggiori crudeltà, nè l'incendio: era lotta di belve: era satana che si
rivoltava contro il cielo: era l'agonia del dispotismo che tentava gli ultimi
sforzi del moribondo! Verso le ore 4 e mezzo pomeridiane l'ultima casa vicino
al dazio di porta Tosa fu incendiata: alle 5 e mezzo un battaglione di
granatieri accorreva da porta Orientale a soccorrere porta Tosa: il seguente
rapporto era fatto a quell'ora:
«Al
Comitato di Guerra
«Siamo
all'ultima casa presso la P. Tosa. La nostra bandiera vi sta già sventolata. –
Siamo molti e determinatissimi. Una linea de' nostri occupa le case del corso
sino al ponte. Avremmo già vinto, se un poderoso rinforzo di linea e di cannoni
non fosse in questo punto arrivato. Mi si dice che scarseggiano molto le
munizioni da fucile. Mandatene. Vinceremo o moriremo.
«Luciano
Manara.»
Alla
sera trasmettevasi questo altro rapporto, che noi riproduciamo, perchè
riteniamo dare maggiore autorità alla nostra storia con documenti ufficiali, che
non colle vaghe notizie che vennero raccolte in momenti di confusione, di
concitazione morale e d'impossibilità di appuramento de' fatti e della
colleganza fra loro.
«Al
Comitato di Guerra
«Ore
8, sera.
«La
porta è in fiamme; alcuni soldati si sono rifuggiti dai bastioni in corpo di
guardia, che lateralmente arde. I nostri ve li tengono inchiodati a schioppettate.
Del resto, rimettersi al latore. Ci si mandi polvere e palle. Salute. Viva la
patria.
«Cattaneo
Angelo.
«Ho
già mandato qualche villico al Comitato; qui ne abbiamo altri;
dall'orfanatrofio vengono satollati perchè affamati.
«Cattaneo
Angelo.
«P.
S. Il caro amico Montanari, capo delle guardie di finanza si è distinto in
varii scontri». Chi prese ed incendiò porta Tosa difesa di 6 pezzi di cannoni,
troviamo nell'Archivio
triennale, fu il capitano Manara. -
Il primo a portar fuori di Milano la bandiera tricolore fu Pirovano Paolo,
d'anni 17, abitante in borgo della Stella al N. 210, di professione falegname:
richiesto in seguito quale ricompensa desiderasse, rispose: D'essere ammesso
nella Guardia Civica. Chiedeva una grazia per l'età giacchè l'arruolamento
nella Guardia Civica era dagli anni 20 ai 60. – Paolo Vicenzini, di Corte in
Corsica, abitante in S. Vito al Pasquirolo, di professione daguerrotipista,
fece miracoli di valore: dalle 2 e mezzo alle 4 ore dalla penultima casa a
destra di porta Tosa fece 6 colpi sui Tedeschi e sei ne uccise: il settimo andò
fallito: coll'ottavo tagliò il braccio dritto a un ufficiale: col nono ferì il
generale che veniva con due cannoni. C. Cattaneo al Comitato ricompensò poi
questo valoroso col dono di una carabina guernita in bianco: Vicenzini giurò di
rimeritarla di nuovo.
A
porta Ticinese si barrò Cittadella: G. B. Beltrami (fonditore) immaginò e mise
in esecuzione una barricata mobile, costrutta con fasci di legna, la spinse
innanzi, e dietro essa rimasero
a combattere al coperto molti animosi popolani. Gli Austriaci fecero fuoco
contro la barricata, tanto con fucileria, quanto coi cannoni caricati alcuni a
palla, altri a mitraglia: ma vedendo infruttuoso l'attacco, i Tedeschi
cercarono girar per di dietro la barricata onde sorprendere alle spalle
gl'insorti; in parte vi riuscirono, ma, strenuamente pugnando, i popolani
obbligarono la truppa a ritirarsi. Altrove in porta Ticinese il Beltrami improvvisò
altra barricata mobile. In Viarenna si combattette, e si spazzò la via da ogni
soldato. Il lattivendolo Meschia Giovanni, che abbiam veduto abile bersagliere
in via Vetere in quei giorni, nel 22 marzo era salito sul tetto di una casa
prospiciente il campanile di S. Eustorgio, e di là uccise con dieci colpi
altrettanti soldati che si erano impadroniti di quella torre, e dalla quale
facevan fucilate contro i cittadini.
Dopo
difficili e pericolosi lavori, gl'insorti s'avvicinaron per dietro alla caserma
di S. Eustorgio, perforando muri di case e scalando cinte dei giardini; quindi,
assediatala, cinta da continue
scariche di micidiale fucileria, l'obbligarono a resa.
Impossibile
era ormai agli imperiali di sostenersi più oltre in Milano: il prolungar la lor
permanenza non faceva che sacrificare sempre più soldati senza speranza di
favorevole scopo, e per di più minacciava alla truppa di trovarsi preclusa ogni
ritirata alle fortezze e bloccata dal numero sempre più crescente degli
insorti. Deliberò allora Radetzky di riparare nelle fortezze; ma pur temendo di
venir perseguitato nella ritirata, egli la volle coprire con stratagemmi di
guerra.
Giovandosi
dell'oscurità della notte, fece accender fuochi ed appiccare incendii in
direzione diversa della via che voleva prendere; quindi, fatti suonare tutti i
suoi tamburi e tuonare le sue artiglierie, quasi volesse tentare un disperato
assalto alle barricate di Milano, mentre tenevasi intento il popolo allo
straordinario fulminar delle artiglierie e al divampare degli incendii in varii
punti, compiette la ritirata.
E
per quella ritirata erasi già preparato tutto durante la notte: le truppe,
sparse intorno a Milano, eran state da ogni parte richiamate e ammassate dietro
al Castello, pronte agli ordini
superiori,
inconsapevoli però di quanto si trattasse. La massima confusione regnava in
Castello.
A
un'ora dopo mezzanotte stendevasi il seguente scritto per ordine di Radetzky,
onde provvedere agli infelici che dovevano rimanere nelle infermerie o senza
parenti:
«Milano,
dall'I. R. Comando dell'Armata Austriaca «in Italia
Ore
1 (dopo mezzanotte).
«Il
Comandante superiore dell'armata d'Italia ha affidato, partendo, al signor
capitano Gnoato Antonio la cura del Castello e il difficile incarico di
tutelare la sicurezza personale di tanti ammalati e feriti, e dei rispettivi medici e chirurghi, come
pure di tante donne e fanciulli tedeschi impossibilitati a partire colla
truppa, e quindi esposti all'arbitrio del subentrante governo di questa città.
Il Comandante superiore lusingasi che quanto la probità conosciuta di detto
signor capitano inspirava fiducia a commettergli così nobile ufficio,
altrettanto varrà la medesima ad ottenergli il suffragio della politica
autorità subentrante, che a questo modo inizierà il suo potere con atto di sublime
e magnanima e santa filantropia.
«Per
il generale in capo conte Radetzky, - Schonhals T. M.»
Le
truppe imperiali sfilavano quindi nel massimo silenzio pei viali dei bastioni:
avevano seco l'artiglieria, i bagagli e 300 e più famiglie d'ufficiali o d'impiegati,
che si eran mantenute
devote
al governo austriaco. Malagevole però era la lor marcia, giacchè gl'insorti
erano riusciti di già a segare alberi al piede e lasciarli cadere attraverso la
strada onde barrarla. Dovevansi quindi rimuovere quelle piante per lasciar
libero passaggio ai carri ed alle carrozze.
Era
trascorsa di due ore la mezzanotte, allorchè il terribile rombo
dell'artiglieria cessò: al gran frastuono successe un monotono silenzio che
veniva soltanto rotto dal grido di All'erta, che partiva dalle barricate
e faceva il giro di tutta la città. Gli appostamenti degli insorti alle
barricate vicine ai bastioni furono sorpresi del gran passaggio di truppa, ma
non compresero che trattavasi di ritirata se non al momento in cui tacquero le
artiglierie. Il popolo conobbe allora che Milano era libera: la notizia circolò
con straordinaria rapidità per tutta la città: - tutti accorsero al Castello: -
grida acute si alzarono dovunque di: Fuori i lumi! I Tedeschi se ne sono
andati! Vittoria! Vittoria! -
Uomini,
donne, vecchi, fanciulli, sin gli ammalati tentarono scendere, affollarsi pelle
strade, mormorandosi reciprocamente domande sopra domande: È proprio vero
che son partiti? Di dove sono andati? Per dove si son diretti?
Il
Castello venne invaso dal popolo: - la bandiera tricolore fu issata sul forte:
- i popolani salirono sui torrioni e ne gettarono abbasso i cannoni, che
vennero tosto portati sulle mura della città.
Orribili
spettacoli si offrirono in Castello allo sguardo del popolo! Cadaveri di
cittadini fucilati nella corte, malati, militari morti, arse molte carte. I
poveri nostri arrestati nel Broletto, che sommavano a trenta, fra i quali il
fiore della cittadinanza, eran stati nei giorni precedenti rinchiusi in una
prigione oscura, bassa, senza letti da riposare, nutriti di pane nero ed acqua,
confusi coi ribaldi; quindi eran stati legati a due a due, col prete alla
testa, e condotti in cortile per esser fucilati: undici vennero passati infatti
per le armi; diecianove condotti in ostaggio; i rimanenti delle varie parti
della città furon liberati dal popolo; ma, sfiniti dalla fame e dai patimenti,
dovettero riparare alle lor case, accompagnati dal popolo che gioiva nel rivederli.
Così
Milano fu libera!
Una
notizia manca ancora a somministrarsi da noi.
Come
si era provveduto in que' giorni pelle somministrazioni di viveri ne' luoghi in
cui la vicinanza del nemico o l'infuriar della lotta rendeva difficile, se non
impossibile ogni
communicazione
co' negozii di commestibili? E come si era provveduto pe' squallidi rioni della
città, nei quali la miseria doveva far languire di fame quantità di famiglie
povere?
In
contrada del Monte Napoleone, nella casa della celebre cantante Pasta, situata
di contro alla casa Vidiserti, era stabilito un ufficio(47) annonario, il quale provvedeva
i viveri per la città, mandando commessi a requisire pane da tutti i fornai,
dietro pagamento a pronti contanti. Requisito il pane, lo si faceva trasportare
nei quartieri in cui sentivasi maggiore il bisogno.
A
dirigente di quell'ufficio eravi il signor Pio Ottolini de Campi, coadjuvato
da' diversi commessi. In que' momenti di lotta egli riceveva ordini verbali dalla
municipalità costituitasi in Governo Provvisorio, ed impartiva egli pure verbalmente i suoi ordini.
L'Ottolini doveva recarsi di qua, di là per le perquisizioni di viveri, e per
le somministranze ai bisognosi; e siccome egli non aveva con sè che due
commessi, così s'approffittò dell'opera di un cittadino che trovò nella casa Pasta
allorchè vi fu trasferito l'ufficio annonario.
Questo
cittadino era un tipografo di cui già ebbimo campo a parlarne: era Francesco Pagnoni,
sul conto del quale noi che scriviamo quest'istoria ebbimo dall'Ottolini personalmente
le seguenti informazioni. Abbandonato il talamo nuziale, accorse nel primo
giorno della rivoluzione nei varii punti della città ove i bisogni della patria
chiamavano i cittadini. L'Ottolini lo incontrò nella stessa casa Pasta,
allorchè vi trasferì l'ufficio annonario, e d'allora in poi il Pagnoni coadiuvò
in ogni modo l'opera dell'Ottolini, recandosi con lui a porta Tosa, a porta
Romana ed a porta Vigentina specialmente a requisir viveri ed a distriburli nei
luoghi che ne avevano più bisogno; né guardò il Pagnoni a disagi od a pericoli
di sorta; premuroso, infaticabile, non richiesto, si era lui stesso il Pagnoni
offerto: non avendo arma da taglio se ne era procurata bentosto una di nuovo genere,
Ma non nuova a que' giorni, ne' quali di un chiodo facevasi un'arma, di una
pertichetta costruivasi una lancia. Così aveva fatto il Pagnoni. Ad un lungo
bastone aveva attaccato un'accuminata accetta all'estremità superiore,
assicurandola con un pezzo di corda. Quella fu l'arma da taglio di cui si munì
a difesa dell'ufficiale delle sussistenze allorchè si recava per le
requisizioni e per le somministrazioni.
Ma con
eroici sforzi di tutti i cittadini, con unanime proposito di combattere e
vincere o morire per la libertà, Milano vinse perchè: Fortes fortunam
adjuvare aiebant: .... Amica sempre
Fortuna
è degli audaci
E
l'agguerrito Tedesco, forte per numero, per armi, per munizioni, per arte di
guerra e per disciplina, rimase sconfitto da un pugno d'uomini inermi, disusi
all'armi, tentati spesso nel bollor della pugna dall'immagine della moglie e
dei figli che avevano. E il Tedesco lasciò Milano davanti un pugno d'uomini
ch'erano però eroi!... Lasciò Milano, ma abbandonandovi quattro mila morti in quei
cinque giorni! Di quattrocento cannonieri ne erano sopravvissuti cinque: erasi
dovuto affidar l'artiglieria ai Tirolesi perchè mancavan gli artiglieri!
Una
dolorosa notizia però ebbe a conturbare ben presto la gioja de' Milanesi: fu
l'assassinio di uno degli ostaggi: del conte Carlo Porro!
Ecco
come troviam narrato in un manoscritto che fu riprodotto nell'Archivio
triennale delle cose d'Italia, serie I, Vol. II, pag. 431. Parlandosi ivi
dei 19 prigioni che i Tedeschi trassero seco in ostaggio allorchè abbandonarono
Milano, vi si narra quanto segue:
«Questi
ostaggi prima della partenza rimanevano per quattro ore circa nei cortili
accerchiati, da guardie di polizia, ed ammanettati. Fra essi v'era il delegato,
ma tenuto in disparte, ed al punto della partenza fatto salire in una carrozza.
Gli altri 18 marciavano a piedi in mezzo ai soldati.
Quattordici
ore mettevano gli Austriaci per giungere a Marignano, tanto erano gli ingombri
che trovavano sulla loro via! Il popolo cercando ogni modo di render più
difficile la fuga, aveva impediti i bastioni e la strada di circonvallazione
con fossi e tagli e piante. Presso Marignano dovettero starsene tre o quattro
ore per un taglio profondo di strada riempito d'acqua; i zappatori riparavano
alla meglio, ed erano in continua faccenda. Durante la marcia moltissimi
soldati cadevano rifiniti; quelli che potevano reggersi sulle gambe andavano a
saccheggiare e bruciare le case lungo la strada; erano furibondi per sete e per
fame. Prima d'entrare, salutarono il paese alla loro maniera, tirandogli contro
buon numero di cannonate; entrati, lo ponevano a fuoco ed a sacco.
Quei
poveri paesani fuggivano a rotta per la campagna, abbandonando quasi affatto il
borgo, che pareva un solo e vasto incendio. I prigionieri, tra nuovi insulti di
un officiale di polizia, vennero ivi rinchiusi in una casa. Secondo il vecchio
stile austriaco si poneva tra loro una spia a udire i loro discorsi. Ma la
sera, non sappiamo per qual ragione, erano tolti di là, e mandati in una sala
terrena nella casa del mastro di posta. Fu in quella sala che consumavasi un
fatto lagrimoso, col quale noi compiremo la nostra narrazione.
«Fra
i 19 ostaggi era Carlo Porro, figlio del conte Gian Pietro Porro, antico
podestà di Como, consigliere intimo di S. M., presidente della congregazione
centrale. Ancorchè il padre fosse stretto agli Austriaci, il figlio non lo
simigliava punto; un altro figlio (Alessandro) faceva parte del Governo
Provvisorio. Era Carlo Porro di animo gentile, ma decoroso e risoluto nei modi,
sviscerato amatore della patria; svegliato d'ingegno s'era dato alle scienze
naturali con tal profitto da farsi nominare, sebbene giovine ancora, con
rispetto dagli stranieri. Non era ignoto il suo nome come naturalista in
Francia e in Germania. Anche in mezzo agli studii aveva sempre intento l'animo alle
cose d'Italia. Prima dell'insurrezione molte cose operò, che è bene che
rimangano ancora, per prudenza ignorate. Intrepido senza vanti, alto e bello
della persona, era amato così da' suoi, come
dai
cittadini. laonde è cosa naturale che i satelliti di Radetzky lo trascegliessero
fra gli ostaggi che trassero
seco.
«Ma
un orrendo fatto lo toglieva di vita. In quella terribil notte cadeva in mezzo
ai compagni, ferito da occulta mano nel petto, e, dopo trentaquattro ore
d'agonia, spirava. Come ei
morisse
e perchè, se per caso o per meditata vendetta, non è il luogo qui di pronunciare.
Diremo solo, che il colpo di fuoco, che gli fu scaricato addosso, scoppiava non
al di fuori, ma nella camera stessa ove egli trovavasi inoffensivo e dalle
manette legato col dottor Peluso, che seco trascinò a terra cadendo, proprio
quando il commissario De-Betta, entrato a parlare co' prigionieri, ne usciva, e
trovavasi dirimpetto al nostro povero amico, - nella direzione del Commissario
verso il Porro: - quando la lucerna, non so per quale bisogno, essendo posta
per terra, e quindi la camera trovandosi avvolta nel bujo, poteva lasciar agio
all'omicida di ferir senza essere ravvisato: - per colpo di pistola; ove il
colpo fosse stato di fucile, era impossibile che qualcuno non si fosse avveduto
del fatto perchè un fucile spianato, in mezzo a 18 prigionieri, non poteva
certo restare inosservato:
-
impossibile che, alla presenza d'un commissario, altri tirasse dentro ai
prigionieri.
Impossibile,
se fosse stata opera del caso, il non conoscere il modo onde avveniva: -
l'interesse stesso che il De-Betta poneva grandissimo a che il colpo fosse
dichiarato
fortuito,
aggrava sopra di lui i sospetti d'altra parte confermati.
«Gli
altri prigionieri intimoriti dalle minaccie, e costretti a sottoscrivere una
dichiarazione che il De-Betta pose loro dinanzi, tornati si mostrarono ben
altro che persuasi di ciò che la paura, e quel trovarsi in mano degli
Austriaci, aveva fatto loro affermare. E con due di essi non valsero minaccie
nè persuasioni; e, forti della loro coscienza, bastò loro l'animo di rifiutarsi
a quella sottoscrizione.
«Confermano pure quel sospetto le parole di Porro,
che, ancorchè moribondo, raffigurando il De-Betta, esclamò: «Ah! signor
commissario, in questi momenti l'ho proprio riconosciuto»; e con accento tra
l'ironico ed il rassegnato, proseguiva: «era giusto»; alludendo forse a una
vecchia ruggine, che, per quanto seppimo poi, il De-Betta covava contro di lui.
«È
istoria codesta di cui lasciamo ad altri il giudicio. Portiamo fede tuttavia
che i casi futuri d'Italia chiariranno un giorno questo fatto e ne additeranno
meno oscuramente l'autore.
Appena
partita la truppa, il Governo Provvisorio diede opera ad assodarsi ed a
provvedere allo sviluppo di tutte le dipendenti amministrazioni. Pubblicava
quindi il seguente proclama ai cittadini:
«Cittadini!
Milano
23 marzo 1848
«Il
maresciallo Radetzky, che aveva giurato di ridurre in cenere la vostra città,
non ha potuto resistervi più a lungo. Voi senz'armi avete sconfitto un esercito
che godeva una vecchia fama di abitudini guerresche e di disciplina militare, Il
Governo Austriaco è sparito per sempre dalla magnifica nostra città. Ma bisogna
pensare energicamente a vincere del tutto, a conquistare l'emancipazione della
rimanente Italia, senza la quale non c'è indipendenza per voi.
«Voi
avete trattato con troppa gloria le armi per non desiderare vivamente di non
deporle così presto.
«Conservate
adunque le barricate: correte volonterosi ad inscrivervi nei ruoli di truppe regolari
che il Comitato di Guerra aprirà immediatamente.
«Facciamola
finita una volta con qualunque dominazione straniera in Italia. Abbracciate questa
bandiera tricolore, che pel valor vostro sventola sul paese, e giurate di non
lasciarnela strappare mai più.
VIVA
L'ITALIA.
«Si
avverte il Pubblico che il Castello debbe essere consegnato agli incaricati del
Governo Provvisorio nei modi stabiliti, locchè è ad eseguirsi immediatamente.
CASATI, PRESIDENTE.
BORROMEO VITALIANO.
GIULINI CESARE.
GUERRIERI ANSELMO.
GAETANO STRIGELLI.
DURINI GIUSEPPE.
PORRO ALESSANDRO.
GREPPI MARCO.
BERETTA ANTONIO.
LITTA POMPEO.
CORRENTI Segr.
Il
Comitato di pubblica sicurezza pubblicò esso pure un manifesto alla
popolazione, ch'era così concepito:
«Cittadini!
«L'opera
gloriosa e santa della nostra rigenerazione fu incominciata col coraggio,
coronata colla costanza, ma dev'essere perfezionata coll'ordine.
«Per
guarentire la sicurezza delle persone è necessario che certo numero di que'
cittadini, i quali per mancanza di fucili non possono prender parte attiva nei
combattimenti, si adoperino a sostenere colla spada e meglio col buon senno gli
ordinamenti del Governo e de' suoi Comitati.
«S'invitano
perciò quelli che trovansi in tal condizione a recarsi presso il nostro
Comitato in casa Taverna per esservi inscritti in drappelli diretti dai già
scelti capitani.
«Difender
le pubbliche carte, gli effetti preziosi, resistere ai malfattori, esser il
braccio della giustizia è uffizio onorevole quant'altro mai, perchè esige
valore uguale a virtù.
«Cittadini!
Non è lontana l'ora in cui torni l'Italia a ripigliare l'antico primato fra le
civili Nazioni. Iddio è coi buoni, voi riconoscenti alla Provvidenza saprete
colla vostra virtù mostrarvi meritevoli di quei miracoli pei quali vedete
trasformarsi i fanciulli in giganti, le donne in eroine, e regnar la pace e la
moderazione in mezzo ai tumulti della guerra e alle trasformazioni della
società.
VIVA
L'ITALIA! - VIVA PIO IX!
IL
COMITATO
«FAVA. - SOPRANSI. - RESTELLI. - LISSONI.
CARCANO. - CURTI.
«I
Segretarj ANCONA. - COMINAZZI.
Il
Comitato di Guerra ebbe prima cura di diffondere ai Comuni lombardi una
circolare in cui si avvertivano della fuga della truppa austriaca e si
eccitavano a provvedersi di difesa contro di essa ed a porsi in condizione di
offendere l'inimico. Tale circolare era la seguente:
«AI
PARROCI E A TUTTE LE AUTORITÀ COMUNALI.
«Il
nemico è in fuga da Milano. Diviso in due colonne, si dirige per Bergamo e
Lodi. Si provveda quindi con ogni mezzo alla propria difesa, ed alla pronta distruzione
dei resti di queste orde feroci.
«Il
Presidente del Comitato di Guerra
«POMPEO LITTA.
Quindi
lo stesso Comitato pubblicava esso pure un manifesto alla cittadinanza, il
quale noi qui riportiamo integralmente:
«ITALIA LIBERA
«W.
PIO IX
«ESERCITO ITALIANO
«I
cinque giorni sono compiuti, e già Milano non ha più un sol nemico in seno.
D'ogni parte accorrono con ansia dalle altre terre i combattenti. È necessario
raccorli e ordinarli in legioni. D'ora in poi non basta il coraggio, bisogna
inseguire con arte in aperta campagna un nemico che può trar tutto il vantaggio
dalla sua cavalleria, dai cannoni, dalla mobilità delle sue forze; ordiniamoci dunque
almeno in due parti; l'una rimanga come fin qui a difendere colle barricate e
con ogni varietà d'armi la città, - l'altra provveduta completamente d'armi da
fuoco e di qualche nervo di cavalli, e appena che si possa anche di artiglieria
volante, esca audacemente dalle mura, e aggiungendo al valore la mobilità e la
precisione, incalzi di terra in terra il nemico fuggente, lo raffreni nella
rapina, lo rallenti nella fuga, gli precluda lo scampo.
«Siccome
la sua meta è di raggiungere quanto più presto si può la cima delle Alpi e la
futura frontiera che il dito di Dio fin dal principio dei secoli segnò per
l'Italia, noi la chiameremo LEGIONE PRIMA, l'Esercito della
frontiera, Esercito delle Alpi.
«I
difensori della città si chiameranno LEGIONE SECONDA, e
per uniformarsi ai fratelli e compiere una grande Istituzione italiana: GUARDIA CIVICA.
«Valorosi,
che accorrete a noi da tutte le vicine e lontane terre, unitevi e all'Esercito
e alla Guardia, secondochè l'imperfetto armamento v'impone. Ma unitevi,
ordinatevi, ubbidite al comando fraterno. I vostri comandanti saranno eletti da
voi.
«Suvvia
dunque, viva l'Esercito delle Alpi, viva la Guardia della città.
«Il
Comitato di Guerra
«POMPEO LITTA - GIORGIO CLERICI
«GIULIO TERZAGHI - CATTANEO - CARNEVALI
«CERNUSCHI - LISSONI - TORELLI.
Carlo
Alberto, officiato da un nostro concittadino a intervenire colle sue truppe a
rassodare la vittoria popolare sull'esercito austriaco in Milano, aderì alla domanda,
dichiarò che si sarebbe posto egli stesso alla testa del suo esercito, e disse
al signor Martini queste parole:
«Io
non entrerò in Milano prima di avere sconfitti in battaglia gli Austriaci,
perchè a gente tanto valorosa non voglio presentarmi se non dopo avere ottenuta
una vittoria che mi faccia conoscere egualmente valoroso.»
Il
proclama reale che si pubblicava in seguito alla accennata conferenza col
Martini, fu il seguente:
«POPOLI DELLA LOMBARDIA E DELLA VENEZIA.
«I
destini d'Italia si maturano: sorti più felici arridono agl'intrepidi difensori
di conculcati diritti.
«Per
amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, Noi ci
associammo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia.
«Popoli
della Lombardia e della Venezia, le Nostre armi che già si concentravano sulla vostra
frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono
ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal
fratello, dall'amico l'amico.
«Seconderemo
i vostri giusti desiderii fidando nell'aiuto di quel Dio, che è visibilmente
con Noi, di quel Dio che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio che con sì
maravigliosi impulsi pose l'Italia in grado da far da sè.
«E
per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione
italiana, vogliamo che le Nostre truppe entrando sul territorio della Lombardia
e della Venezia portino lo
scudo
di Savoja sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.
«Torino,
23 marzo 1848.
«CARLO
ALBERTO.»
Il
Governo Provvisorio da sua parte pubblicava il seguente proclama alla
popolazione:
«Proclama!
«Abbiamo
vinto: abbiamo costretto il nemico a fuggire, sgomentato del nostro valore e
della sua viltà. Ma disperso per le nostre campagne, vagante come frotta di
belve, racozzato in bande di saccomanni, ci tiene ancora in tutti gli errori
della guerra senza darcene le emozioni sublimi. Così ci fan essi comprendere
che l'armi da noi brandite a difesa non le dobbiamo, non non le possiamo deporre
se non quando il nemico sarà cacciato oltre le Alpi. L'abbiamo giurato; lo
giurò con noi il generoso principe che volle all'impresa comune associati i
suoi prodi: lo giurò tutta l'Italia, e sarà!
«Orsù
dunque, all'armi all'armi, per assicurarci i frutti della nostra gloriosa
rivoluzione, per combattere l'ultima battaglia dell'Indipendenza e dell'Unione
Italiana.
«Un
esercito mobile sarà prontamente organizzato. «Teodoro Lecchi è nominato
Generale in capo di tutte le forze militari del Governo Provvisorio. Soldato
d'alto nome dell'antico esercito italiano, congiungerà le gloriose tradizioni dell'epoca
militare napoleonica ai nuovi fasti che si preparano all'armi italiane nella
gran lotta della libertà.
«Combattenti
delle barricate! il primo posto è per voi. Voi l'avete meritato. La disciplina che
porrà regola ma non misura al vostro coraggio, vi farà operare in campo aperto
miracoli non minori di quelli per cui già siete divenuti meraviglia e vanto a
tutta la nazione.
«Ufficiali
e soldati, che avete militato negli eserciti del maggior Guerriero del mondo, anch'esso
italiano, accorrete a combattere sotto le bandiere della libertà: mostrate
d'essere
ringiovaniti
nella nuova gioventù della patria vostra.
«Uffiziali
e soldati, che avete stentato sotto l'angoscioso servigio, sotto le verghe dell'Austria,
venite a dimenticare il passato, a cancellarlo sotto la bandiera tricolore che
fra breve
sventolerà
dall'Alpi ai due mari.
«Intrepidi
montanari e valligiani di Svizzera, che avete or ora deposte le armi impugnate
a difesa de' vostri politici diritti, ripigliatele per rivendicare con noi i
diritti dell'umanità.
«Generosi
Polacchi, nostri fratelli nella sventura e nella speranza, accorrete, accorrete
per riconsolarvi nel nostro amplesso, per farvi tra noi sicuri, che tarda a
venire, ma pur viene il giorno in cui risorgono i popoli oppressi e si
rinnovellano nel puro etere della libertà. Accorrete a combattere il comune nemico:
ogni colpo di che lo percuoterete, vi sarà promessa del vostro non lontano
riscatto.
«Italiani...
oh! voi siete già accorsi; e, stretti nelle vostre braccia, noi ci siamo
sentiti più sicuri di vincere.
«Prodi
di tutti i paesi, venite, venite: la nostra è la causa di tutti i generosi, di
tutti quelli che sentono la virtù dei santi nomi di PATRIA e di LIBERTÀ.
«Dio
è con noi: già nè 'l presagiva Pio IX in quella sua benedizione a tutta
l'Italia: lo dice il popolo nella robusta semplicità del suo linguaggio: lo
dicono i sapienti affascinati dai miracoli di quest'eroica settimana: Dio è con
noi! - All'armi, all'armi! vinciamo un'altra volta, e per sempre.
«CASATI, Presidente
«BORROMEO VITALIANO - GIULINI CESARE
GUERRIERI ANSELMO - STRIGELLI GAETANO
DURINI GIUSEPPE - PORRO ALESSANDRO
GREPPI MARCO - BERETTA ANTONIO
LITTA POMPEO
«CORRENTI Segretario.
Milano
era frenetica di gioja nella riavuta libertà: tutti accorrevano ad inscriversi
nella Guardia Civica e moltissimi nei corpi volontarii. Per tutti i balconi sventolavano
bandiere tricolori: dappertutto si cantavano canzoni patriottiche: fra questi
era popolarissima il seguente inno nazionale scritto da Goffredo Mamelli e
musicata:
Fratelli
d'Italia,
L'Italia
s'è desta,
Dell'elmo
di Scipio,
S'è
cinta la testa.
Dov'è
la vittoria?...
Le
porga la chioma,
Chè
schiava di Roma
Iddio
la creò:
Stringiamci
a coorte
Siam
pronti alla morte
Italia
chiamò.
Noi
siamo da secoli
Calpesti,
derisi,
Perchè
non siam popolo,
Perchè
siam divisi:
Raccolgaci
un'unica
Bandiera,
una speme;
68
Di
fonderci insieme
Già
l'ora sonò.
Stringiamci,
ecc.
Uniamoci,
uniamoci;
L'unione
e l'amore
Rivelano
ai popoli
Le
vie del Signore:
Giuriamo
far libero
Il
suolo natio;
Uniti,
per Dio,
Chi
vincer ci può?
Stringiamci,
ecc.
Dall'Alpi
a Sicilia
Ovunque
è Legnano,
Ogni
uom di Ferruccio
Ha
il core, ha la mano;
I
bimbi d'Italia(54)
Si
chiaman Balilla(55),
Il
suon d'ogni squilla
I
vespri sonò.
Stringiamci,
ecc.
Son
giunchi che piegano
Le
spade vendute:
Già
l'aquila d'Austria
Le
penne ha perdute.
Il
sangue d'Italia,
Il
sangue Polacco
Bevè
col Cosacco,
Ma
il sen le bruciò.
Stringiamci,
ecc.
Evviva
l'Italia,
Dal
sonno s'è desta,
Dell'elmo
di Scipio
S'è
cinta la testa.
Dov'è
la vittoria?
Le
porga la chioma,
Chè
schiava di Roma
Iddio
la creò.
Stringiamci,
ecc.
De'
morti nella rivoluzione non scordossi Milano, ma nel 4 di aprile seguente
celebrò solenni esequie nella Metropolitana. Affinchè questa pietosa funzione
procedesse con quell'ordine severo che la solenne circostanza richiedeva, alle
diverse Magistrature e Rappresentanze era stato fissato di raccogliersi alle
ore 10 precise del mattino in tre diversi punti della città onde portarsi in ordinata
schiera al Duomo, e rendere così più solenne e maestosa la funzione. I punti di
ritrovo erano il palazzo Marino, il palazzo Municipale al Broletto, e la piazza
dei Mercanti in cui aveva posta sede la Società di incoraggiamento delle arti e
mestieri. Per quella solenne circostanza vennero musicati da Stefano Ronchetti
i seguenti versi di Giulio Carcano:
I.
Per
la Patria il sangue han dato
Esclamando:
ITALIA e PIO!
L'alme
pure han reso a Dio,
Benedetti
nel morir:
Hanno
vinto, e consumato
Il
santissimo martir.
Di
que' forti - per noi morti
Sacro
è il grido, e non morrà.
II.
Noi
per essi alfin redenti
Salutiamo
i dì novelli:
Sovra
il sangue de' fratelli
Noi
giuriamo libertà!
E
sul capo de' potenti
L'alto
giuro tuonerà.
Di
que' forti - per noi morti
Sacro
è il grido, e non morrà.
III.
Uno
cadde, e sorser cento
Alla
voce degli eroi:
Or
si pugna alfin per noi,
Fugge
insano l'oppressor;
E
lo agghiaccia di spavento
La
bandiera tricolor.
Di
que' forti - per noi morti
Sacro
è il grido, e non morrà;
IV.
O
Signor! sul patrio altare
Noi
t'offrimmo i nostri figli:
Scrivi
in Ciel, ne' tuoi consigli
Dopo
secoli, il gran dì!
Or
dall'Alpi insino al mare
Tutta Italia un giuro unì!
ELENCO
delle
opere consultate, e che trattarono in modo speciale la storia della rivoluzione
milanese.
Leone
Tettoni. Cronaca
della Rivoluzione di Milano.
Carlo
Cattaneo. Dell'insurrezione
di Milano nel 1848.
Cattaneo.
Archivio
triennale delle cose d'Italia.
Turotti.
Storia
d'Italia.
Ugo
Sirao. Storia
delle Rivoluzioni d'Italia dal 1846 al 1856.
Venosta.
I Martiri
della Rivoluzione lombarda.
Cantù
Ignazio. Gli
ultimi cinque giorni degli Austriaci in Milano.
Osio
Carlo. Alcuni
fatti delle gloriose cinque giornate.
Racconti
di 200 e più testimonj oculari dei fatti delle gloriose cinque giornate.
Narrazioni
dei maravigliosi successi accaduti durante la memorabile lotta sostenuta dai
Lombardi
nei cinque giorni di marzo 1848.
G.
B. La presa
di Porta Tosa, così detta Porta Vittoria, e le vicende della casa detta della Birraria
sul bastione, e le prodezze dei Lombardi nelle cinque memorabili giornate del
marzo 1848.
Ceruti
Domenico. I
cinque giorni di marzo. Lettera al suo amico e concittadino Angelo
Guangiroli.
G.
L. B. Infamie
e crudeltà austriache; valore e generosità dei Lombardi nel marzo 1848 (si sono
pubblicate 4 lettere).
Bollettino
storico della rivoluzione di Milano nel marzo 1848, compilato giornalmente da
un
cittadino abitante sul Corso di Porta Romana.
Due
Parole di osservazione sul Bollettino storico della rivoluzione di Milano di
marzo 1848 ecc.,
scritte da un altro cittadino pure di Porta Romana.
Baracchi
Francesco. Le
gloriose cinque giornate dei Milanesi.
Bianconi
Antonio. Origine,
progresso e fine della rivoluzione di Milano.
Relazione
epistolare delle cose memorande avvenute in Milano nei giorni 18, 19, 20, 21
22
e 23 del mese di marzo dell'anno 1848.
Coppi.
Della
dominazione austriaca in Milano dal 1814 a tutta la rivoluzione dei Milanesi
incominciata
col giorno 18 marzo 1848 e terminata nel 23 dello stesso mese ed anno.
Le
Cinque gloriose giornate della rivoluzione milanese, descritte da un medico che
vi fu
testimonio
e parte, con un'Appendice relativa ai giorni 23 e 24 marzo; ed infine il Canto
di guerra degl'Italiani.
Bertolotti F. Relazione storica del dominio de' Tedeschi in Milano dal 1814 sino alla
rivoluzione
di marzo 1848, operata dai Milanesi, e sfratto delle truppe austriache dalla
Lombardia.
Poema in quattro canti. Milano, 1848.
Labadini. Poche parole scritte e declamate nel giorno 6 aprile 1848 nella Piazza del Duomo di Milano sul feretro dei prodi fratelli lombardi morti per la patria nelle cinque gloriose giornate del marzo 1848.
Bonatti Gaetano. Le barricate di Milano.