venerdì 24 novembre 2023

Piccola Rapsodia della Castagna, divertissement milanese di Roberto Bagnera

El Gigi de la Gnaccia a Porta Nuova, anni 20

Frutto prelibato dei boschi lombardi, carne e pane dei poveri nutrimento principale sul desco dei contadini nell'ubertoso autnno dei tempi che furono, fra campi e cascine, fra fatica sudore e dignità di povere vite, la castagna ha sempre rappresentato una risorsa imprescindibile della terra e anche nella cultura milanese arricchisce di sè e dei suoi prelibati preparati la vita quotidiana e i poveri pasti del volgo.

Così, a guisa di improvvisato dizionario facciamo una rapida escursione nei termini, nelle consuetudini ambrosiane, negli antichi mestieri ambulanti e nelle foto, d'epoca e non, ad essa legate  scoprendo così la milanesità della ...

Castegna: Castagna, detta anche maron, la cui polpa è protetta dalla gea o rusca: pellicina aderente, a sua volta ricoperta dalla dova, o dovanna o gussa: guscio; il tutto protetto dal risc, il riccio.

Fiera di Sinigaglia,ambulante vende collane di castagne foto di Mario Cattaneo del 1965


BaloeùsCastagna lessata con la buccia

BelegòttCastagne lessate col guscio ed essiccate. Esiste anche il modo di dire "acqua de belegott", frase usata come esclamazione di meraviglia, nel senso di caspita!, però!, perbacco!

BescottCastagne cotte al forno

BoroeùlCastagna arrosto


Venditore di caldarroste


Busecchina

La Busecchina, oggi considerata un sempplice e gustoso dolce era in realtà spesso il piatto unico sul desco delle povere genti lombarde, una tipica minestra con radici nel medioevo quando si diffuse la consuetudine di prepararla il 31 gennaio in occasione del giorno dedicato a Santa Savina

La Busecchina sobbolle...

Ingredienti per 4 persone

600 gr. di castagne secche

1/2 lt. di latte

100 gr. di panna da montare

1 foglia di aloro

1 pezzetto di scorza di limone

Lasciare le castagne a mollo per tutta una notte.

Prima di cuocerle sciacquarle con acqua tiepida, metterle in una pentola con dell'acqua, la foglia di alloro, la scorzetta di lmone e un pizzicone di sale.

Cuocere a fuoco basso finchè avranno assorbito gran parte dell'acqua (la cottura è abbastanza lunga).

A fine cottura, unirete del latte caldo, mescolate bene e servite caldo, magari con un'aggiunta di panna


Una moderna e golosa versione di Busecchina


Caldarrostaio, el Castagnatt: figura di ambulante tra le poche che sopravvivono ai tempi nostri, è colui che arrostisce alla fiamma — su fornelletti improvvisati, spesso ricavati da bidoni e fusti — le castagne, che vengono poi vendute a prezzo fisso, senza essere pesate bensì raccolte con un misurino apposito e avvolte in cartocci di carta.

Caldarrostaio in via Zumbini presso la Chiesa dei Santi Nazaro E Celso alla Barona, foto di Bruno Stefani del 1927






Castegn bianch o pestCastagne tolte dal riccio e lasciate seccare nel guscio, poi spogliate anche di quello.

Castegn CrodèllCastagne che giunte a maturazione cascano da sè dall'albero.

CùniCastagne cotte al forno e spruzzate di vino bianco, devono il loro nome al fatto che provenivano dalla città di Cuneo.

Quando le castagne così cucinate vengono legate tra loro passandole attraverso con dello spago a formare una specie di collana, si crea il cosiddetto firon, termine utilizzato per la somiglianza con la colonna vertebrale (firon).

Un  gruppo di Fironatt, venditori di firon di Cuni


Fà Maron: la parola maron, usata in questa locuzione, non deriva nè da marra che è la zappa, né da marrone che è la castagna, bensì dal verbo inglese to mar, che significa smarrirsi, sbagliarsi. In milanese quando si vede qualcuno che commette un errore si suol dire: "l’ha faa maron", ma non per indicare un inconsapevole malefatta quanto per sottolineare la malafede di chi sperava di farla franca ed è stato invece scoperto.

Farù/Faruff: Castagne lessate

Firon: schienale, il complesso delle vertebre degli animali macellati, allestito per diventare vivanda. Per similitudine anche la fila di castagne cotte al forno e legate tra loro con lo spago

Bancarella ricolam di Firon di castagne alla fiera degli O Bej O Bej, foto di Massimo A. Gardini


Gigi de la Gnaccia: castagnagnacciaro, venditore ambulante di castagnaccio (sorta di torta prodotta con farina di castagne). Tali commercianti (quasi sempre erano anche fabbricanti loro stessi), nel Milanese meglio noti con il nomignolo “Gigi de la gnaccia” facevano abitualmente uso, per l’esposizione e il taglio del prodotto, di un piccolo tavolino tondo munito di una sola gamba, spesso pieghevole per una maggior facilità di trasporto.

Un Gigi de la Gnaccia presso il ponte sul Naviglio di via Vallone

GNACCIA (Castagnaccio)

L’uso della parola “castagnaccio” sembra risalga al 1449, l'etimologia della parola è semplice: deriva dall'aggettivo castaniaceus del latino medievale), ma le origini del dolce, semplicissimo, povero e nutriente, fatto all’inizio soltanto di farina di castagne e acqua, sono sicuramente assai più lontane nel tempo.

Una teglia di Castagnaccio Toscano, dal sito labuonatavola.org

Questo dolce, sembrerebbe tipico della Toscana, ma è diffuso un po’ dappertutto e con molte varianti territoriali, anche nel nome.

Il castagnaccio è stato accolto e valorizzato dai romani in modo eccellente, probabilmente per via della grossa produzione di castagne nella regione laziale, così che il dolce, romanizzato, è stato ribattezzato con il nome al femminile "castagnaccia".

Secondo quanto si legge nel "Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia ed altri luoghi", di Ortensio Lando (Venetia, 1553), l'origine del castagnaccio è lucchese e il suo inventore pare sia stato un tale "Pilade da Lucca", che fu "il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda".

Inoltre, la superstizione attribuiva al rosmarino che talvolta era usato come uno degli ingredienti un significato amoroso: si credeva che se un giovane avesse mangiato “la gnaccia” col rosmarino offertagli da una ragazza, se ne sarebbe innamorato e l’avrebbe chiesta in sposa...

Ingredienti :

400g di farina di castagne

2 cucchiai di zucchero

100g di uvetta ammollata in acqua tiepida

4 cucchiai di olio evo

1 rametto di rosmarino

50g di pinoli

Sale

- Versate la farina di castagne in una terrina aggiungendo mezzo cucchiaino di sale e lo zucchero, versate 5dl di acqua fredda e mescolate energicamente fino ad ottenere un composto omogeneo ma nel contempo ancora abbastanza liquido.

- Aggiungete l'uvetta, 2 cucchiai di olio e amalgamate anche questi ultimi

- Ungete una teglia con l'olio e versatevi l'impasto, la dimensione della teglia deve essere tale da avere un impasto spesso 1,5cm

- Ricoprite la superficie con la restante uvetta, i pinoli e qualche ago di rosmarino

- Riponete la teglia in forno e cuocete l'impasto a 180° per 30 minuti

- Non resta che sfornare e servire ben caldo


Un Gigi de la Gnaccia con il tipico tavolino ad una gamba, foto del 1910, Archivio Touring

Peladej: castagne lessate senza bucce

Scotti: castagne arrosto

Verones: castagne cotte nel forno o nella stufa


Quel di Scotti caldi

Quel di Scotti Caldi, castagne arrosto, primi del 900

Con l'augurio di avervi rivelato dettagli e particolari meno conosciuti, concludiamo questo breve prolegomeno della castagna lasciando la parola ad un'antologia di immagini:


Venditore di caldarroste in corso vittorio emanuele, angolo via San Pietro All'Orto, foto del 2014 di Salvatore Lo Faro

Caldarroste in piazza Duomo, foto del 2009 di Alan Denney


Fine anni 40, venditore di caldarroste, foto di Federico Patellani

Fine anni 50, venditore di caldarroste Foto di Massimo A. Gardini

Scotti caldi al dazio ai Bastioni di Porta Nuova

Piazza Sant'Ambrogio, anni '50. fironatt durante la fiera degli o bei o bei

Un venditore di caldarroste in piazza del Duomo, 1970 circa, foto di Mario Cattaneo

Un'immagine scurita dal tempo inquadra il naviglio presso il ponte di Porta Romana, sulla destra s'intravvede un venditore di castagne, Archivio ACAdeMI

Venditore ambulante di caldarroste - Basilica di Sant'Ambrogio sullo sfondo, foto anni 50 di Enrico Cicero

Venditore di caldarroste in piazzale Marengo

Venditore di caldarroste, foto del 1938 di Bruno Stefani

Venditore di caldarroste, foto del 1963 di Ettore Ferrari

Venditore di castagne lesse, 1890

Venditori di caldarroste, foto del 1910, Archivio Touring

Venditori di castagne arrosto e mele



mercoledì 22 novembre 2023

L'affresco di S. Anna in Castagnedo di Roberto Bagnera

La fatiscente chiesetta di S. Anna in Castagnedo, foto anni 80, Archivio ACAdeMI - Franco Mauri

Castagnedo, antico borgo ormai (quasi) scomparso di cui si sono praticamente perse le tracce, salvo per l’unico edificio che ne rimane, la chiesetta di Sant’Anna (anche se, purtroppo, versa in condizioni quasi disperate).

Premesso che il nome proviene da un bosco di castagni, alla fine del diciannovesimo secolo il borgo compariva ancora nei registri della parrocchia di Santa Maria di Calvairate, ma il nome era stato storpiato in Castenedo, divenendo così omonimo di una frazione presso Voghera.

La località apparteneva già’ nel dodicesimo secolo alle monache di Santa Margherita, il cui monastero femminile sorgeva nel centro della città nei presi dell’omonima via tuttora esistente; tutto ciò è testimoniato da numerosi documenti relativi ad acquisti, permute e rivendicazioni di diritti del monastero a Castagnedo.

Verso la fine del tredicesimo secolo la località ospitava anche una comunità di monache Umiliate, dedite alla lavorazione della lana, caratteristica dall’intero ordine; esse vi eressero una chiesina dedicata a Santa Maria, come loro tradizione.

S. anna in Castagnedo in una foto anni 20 del Novecento, Archivio ACAdeMI

Le monache però ebbero rapporti piuttosto tesi con le monache di Santa Margherita, non si sa se per ragioni d’acque (all’epoca, ma anche oggi, risorsa indispensabile), per confini della proprietà o per diritti di accesso. Fatto sta che nella seconda metà del quattordicesimo secolo, e più precisamente nel 1385, esse preferirono aggregarsi al monastero di Santa Maria della Vittoria.

Poco dopo però, cessati i contrasti con le monache di Santa Margherita, le Umiliate tentarono di far marcia indietro dicendo che lo scorporo avvenuto nel 1385 era da ritenersi illegale in quanto il vicario generale dell’Arcivescovo aveva decretato l’aggregazione alla Vittoria quando era ormai decaduto dalla carica.

Tutto venne risolto poco tempo dopo, quando il Vescovo di Piacenza, delegato dal Papa Urbano VI, sanzionò la fusione dei due monasteri, acquietando così di fatto le acque, in quanto a quel punto tutto il podere di Castagnedo diventò proprietà del monastero di Santa Margherita, come risulta da un documento steso per ordine di Margherita Visconti, figlia di Bernabò e badessa di Santa Margherita.

Tornato il fondo alle precedenti monache, esso rimase loro proprietà fino alla soppressione dei monasteri, ordinata dall’imperatore d’Austria Giuseppe II verso la fine del Settecento. Nel frattempo la chiesetta di Santa Maria aveva cambiato il nome in Sant’Anna di Castagnedo.

Unico residuo della cascina, la chiesetta fu sottoposta a vincolo in quanto conteneva affreschi di notevole pregio: le Tre Marie, dipinte sopra un altro affresco, ed altri, tra cui una immagine miracolosa di San Carlo, che il 24 giugno del 1601 avrebbe risanato una donna paralitica da nove anni. Due altri affreschi quattrocenteschi vennero poi staccati ma danneggiati da vandali, e sono ora di proprietà di un privato. Il vincolo è stato tolto, ma per fortuna la chiesetta, pur ridotta a un rudere, è stata risparmiata.

Lo scomparso affresco, raffigurante il Cristo nella chiesetta di Sant'Anna 

Nella memoria di alcuni milanesi della zona è ancora vivo il ricordo di quando gli abitanti della cascina Boffalora, essendo lontani dalla parrocchia di Calvairate, nei giorni festivi andavano alla chiesetta per partecipare alla Santa Messa. Ed erano i parrocchiani di allora che, con carro e cavallo, andavano a prendere il sacerdote della chiesa di Santa Maria del Suffragio, lo portavano alla chiesina, poi pranzavano tutti insieme ed infine lo riportavano in sede.


L'ormai demolita Cascina Boffalora lungo la via Tertulliano prospiciente un tratto scoperto della roggia Gerenzana, anni 60, Archivio ACAdeMI


Il desolante stato odierno di S. Anna in Castagnedo. Foto di Ottavio Cane


lunedì 20 novembre 2023

I Martinitt e il Mandarinetto di Renato Marelli, foto di Arianna Pogliani

La foto allegata è riferita ad un Natale (si vedono le fette di panettone) ma serve per dare l'idea dei piccoli Martinitt allineati davanti ai tavoli in attesa dell'ordine di potersi sedere per mangiare. Era ancora il periodo dei tavoli lunghi. Prima di sederci a mangiare dovevamo ascoltare l'ordine del giorno, solo dopo la sua lettura ci davano l'ordine di sederci. Archivio Museo Martinitt e Stelline, per gentile concessione di Renato Marelli.

Dalla metà degli anni 50 fino alla metà degli anni 60, una nota industria milanese utilizzava le bucce dei mandarini per ricavarne essenze. Acquistava quindi tonnellate di mandarini dei quali utilizzava solo la buccia.
Ecco quindi la strana collaborazione che avvenne in quegli anni tra il collegio dei Martinitt e l'industria Milanese. Questa ditta propose la fornitura di mandarini a noi collegiali in cambio della sbucciatura degli stessi. Un connubio che andava bene ad entrambi. Da una parte c'era la frutta gratis e dall'altra la "manodopera" gratis.
Quindi a rotazione, le compagnie dei ragazzi delle medie (allora ancora avviamento) venivano mandate in cucina con l'incarico di sbucciare i mandarini che sarebbero serviti per il pranzo o per la cena. Il guaio era che ogni tot mandarini sbucciati uno finiva in pancia dello sbucciatore di turno. Andò a finire che qualcuno esagerando (forse erano più i mandarini mangiati che quelli consegnati sbucciati) si senti male. La direzione decise allora che la sbucciatura dei mandarini sarebbe avvenuta in refettorio prima di pranzo coinvolgendo l'intera comunità.

La sede della Isolabella in via Villoresi, archivio Pictures Archives


 In quegli anni, nel periodo invernale avveniva un fatto curioso. In refettorio sui tavoli trovavamo 5 o 6 mandarini ciascuno. Prima di sederci ci ordinavano di sbucciare i mandarini e tenere le bucce in mano, poi alcuni incaricati passavano con dei sacchi di tela dove noi dovevamo buttare le bucce. Dopo questa operazione ci si poteva sedere e mangiare quei mandarini come frutta.
Perché tutto questo?
Una nota fabbrica di Milano produceva il liquore Mandarinetto. A lei servivano solo le bucce per estrarre le essenze che avrebbero aromatizzato il liquore.

La storica bottiglia del Mandarinetto Isolabella, lquore creato da Egidio Isolabella nel 1870



Del frutto sbucciato non se ne facevano nulla e lo avrebbero mandato al macero. Da qui l'idea di una collaborazione con i Martinitt. Loro ci donavano i mandarini in cambio dovevamo sbucciarli e rendere a loro le bucce.
A noi questa procedura non dava fastidio, anzi era l'occasione per farci una scorpacciata di mandarini.
Non vi dico le battaglie che facevamo con i semi dei mandarini da una tavolata all'altra, tra le nostre risate e l'incazzatura di qualche istitutore colpito involontariamente (non sempre involontariamente) da qualche seme.

Una storica pubblicità di Marcello Dudovich

In corso Cristoforo Colombo 11, sussiste un edificio che fu una delle sedi della ditta Isolabella & C.: presenta in facciata una curiosa decorazione, dei tondi che incorniciano 3 sculture di volti femminili con tanto di denominazione: Lina, Tilde, Nina, tali decorazioni si ripresentano anche nel lato che dà sulla via Alessandria anche se in questo caso non ci sono nomi incisi. Gradevoli anche le decorazioni dell'androne che rimandano a riminiscenze Liberty.
Qui di seguito alcune immagini scattate da Arianna Pogliani












lunedì 6 novembre 2023

Il Volto del Demonio di Roberto Bagnera


Foto dal sito pilloledarte wordpress com

Visitando le civiche raccolte del Castello Sforzesco può capitare di imbattersi nella terrificante impersonificazione di Messer Satanasso in persona che, colmo dell’orrore sghignazza.
Guardando con tutta l’attenzione che la paura ci consente possiamo accorgerci che si tratta di un busto, probabilmente proveniente da una statua lignea cinquecentesca,
su cui è innestata una testa di diavolo, più probabilmente la raffigurazione di un fauno che, grazie ad un meccanismo contenuto nella scatola su cui poggia la scultura «si mette a sghignazzare, a cacciare la lingua e a sputare in faccia ai presenti, il tutto in mezzo ad un enorme fragore di catene di ferro e di ruote adattissimo per produrre un vero terrore», come riferiva nel 1739 lo scrittore francese Charles De Brosses che ebbe modo di ammirarlo nella sua collocazione originale.

Foto dal sito ilgiornaledellarte com

Il nostro "povero” diavolo infatti altro non è che un ingegnoso automa, appartenuto alla collezione del canonico Manfredo Settala, curiosa figura di ecclesiastico scienziato e premuroso collezionista di oggetti scientifici, particolari, bizzarri e curiosi, tanto da creare nel proprio palazzo di via Pantano 26 un wunderkammer, nome tedesco che si può tradurre con “Camera delle Meraviglie”.

La celebre incisione del 1666 a firma di Cesare Fiori, riproducente la sistemazione della galleria delle curiosità nel palazzo Settala di via Pantano 26.

Alla morte del Settala il curioso museo passò per volontà di testamento Biblioteca Ambrosiana, che nel corso degli anni smembrò l’originale collezione cedendo alcuni pezzi ad altre istituzioni o vendendone alcuni finchè nel 1982, senza chiedere il parere vincolante della Soprintendenza, l' Ambrosiana mise in vendita anche l' automa.

Foto dal sito pilloledarte wordpress com

Fu l’allora direttrice delle raccolte di Arti Applicate del Castello Sforzesco a riconoscere l’automa del Settala nella vetrina di un antiquario milanese e ad acquistarlo, ponendolo poi a guardia di una delle sale dell’istituzione museale.

giovedì 2 novembre 2023

Ceci e tempie di maiale, Scisger e Tempia, ricetta per el dì di mort di Roberto Bagnera

 2 Novembre

Commemorazione dei Defunti




Ricetta per el dì di mort: Scisger e Tempia

Ceci e tempie di maiale
Ingredienti
200 g di ceci
300 g di tempia di maiale
200 g di lombo di maiale
2 costole di sedano verde
una cipolla di media grandezza
una piccola carota
un rametto di rosmarino
6 foglie di salvia
pepe nero macinato
sale
Ponete i ceci a bagno in abbondante acqua fredda. Se i legumi saranno dell’ultimo raccolto basteranno 24 ore, altrimenti l’ammollo dovrà essere prolungato di alcune ore. Scolateli e metteteli in un tegame con almeno 2 l di acqua a temperatura ambiente e senza sale. Incoperchiate, il più ermeticamente possibile, e fate cuocere a fiamma bassissima, per circa 3 ore, senza rigirare e senza abbassare o alzare il fuoco. Intanto in un tegame a parte ponete la tempia di maiale ben fiammeggiata e lavata, e lasciatela bollire per circa 1/2 ora in acqua senza sale.
Scolatela e rimettetela di nuovo sul fuoco in un tegame con 2 l d’acqua, il sedano, la carota e la cipolla affettati, la salvia e il rosmarino, poco sale e pepe. Dopo un’ora di cottura, unite alla tempia il lombo in un solo pezzo e lasciate cuocere anche questo per circa un’ora. Mettete insieme a questo punto la carne e i ceci, ormai cotti, e proseguite la cottura per non più di 1/2 ora.
Tanto per chiarire: Il calendario delle tradizioni culinarie milanesi aveva una precisa sequenza ed un’altrettanto precisa ritualità.

Giovanni Rajberti, medico e poeta milanese (1805-1861) autore de “L’arte di convitare spiegata al popolo”, lo sintetizzava in questi versi:
El primm de l’ann se comenza
a mangià la carsenza;
se fa onor a Sant Bias col panatton;
San Giusepp l’è vin dolz cont i tortej;
San Giorg, pannera e lacc col mascarpon;
Pasqua la g’ha el cavrett a l’uso ebrej,
e per differenzialla no se scappa
de fa l’insalattinna e i oeuv in ciappa;
gh’è finna el dì di mort
che porta tempia e scisger per confort,
e la sira, per compì l’indigestion,
gh’è el rosari e i marron.
Figurev poeu a Natal
che tra i fest l’è la festa principal;
se sent fina a tri Mess e capirìi
che gh’è anca l’obligh de mangià per tri.




Questa ricetta è un'eccezione vera e propria negli usi alimentari di Milano, ma è storica e radicata nella tradizione.
I ceci con le tempie costituiscono il tipico pranzo del giorno dei Morti a Milano insieme al Pan di mort e agli Oss de mord. In questo periodo dell’anno una volta faceva veramente freddo, a volte si era già vista la neve, e allora si ammazzava il maiale. Le sue carni venivano sia messe via per l’inverno (lardo, pancetta, salami, salamini, cotechini, zamponi, carne sotto sale) sia consumate fresche (costine arrosto o in umido, arrosto di maiale, casseula, umidi vari). Le parti meno nobili, come la testa del maiale, erano usate per insaporire legumi e zuppe. I legumi secchi erano molto usati: ceci, fagioli, lenticchie, piselli, fave costituivano un gradito contorno quando d’inverno non c’erano verdure fresche o erano l’ingrediente principale di zuppe e minestre. Ed ecco allora che il musetto di maiale trova la “morte sua” in questa zuppa che appariva il 2 novembre sulle tavole di tutti i milanesi, a qualsiasi ceto sociale appartenessero.
E’ uno dei rarissimi piatti milanesi che utilizza i ceci. Era il piatto rituale del giorno dei morti, la cui ascendenza latina è evidente. Le celebrazioni dei morti erano, nel mondo romano, accompagnate da offerte votive sulle tombe di coppe di vino e piatti di ceci.




" (...) san Carlo Borromeo, nato il 1538 ad Arona, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore: era alto più di un metro e ottanta e di corporatura robusta e perciò amava mangiare anche quando i precetti ecclesiastici lo costringevano all’astinenza; i suoi digiuni infatti non consistevano nella privazione assoluta dal cibo, ma secondo l’uso ecclesiastico antico, nel consumare un solo pasto al giorno.
E in quelle occasioni il grande arcivescovo di Milano mangiava abbondanti minestre e zuppe accompagnate da pane di segale. Fra le sue preferite c’era la “zuppa di ceci” che durante la Quaresima si faceva preparare senza il maiale, sebbene prediligeva la ricetta tradizionale a base di verza e le parti meno nobili del porco: forse per questo motivi san Carlo Borromeo è diventato il protettore contro le ulcere, i disordini intestinali, e le malattie dello stomaco!
Ebbene, dalle cronache dell’epoca e dai diari di Stendhal si deduce che quasi certamente fu la signora Teresa Casati Confalonieri ad invitarlo nel suo salotto, quella sera del 4 novembre 1816, per la tradizionale degustazione della squisita, quanto sostanziosa, “zuppa di ceci” che tanto piaceva a san Carlone e che forse perciò è diventata simbolo meneghino di amicizia.

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martedì 31 ottobre 2023

La Cattedrale del Demonio di Roberto Bagnera

Bella e maestosa la cattedrale dedicata a Santa Maria Nascente in uno scatto di Maura Bussi

 Il Duomo di Milano bello e bianco come un pizzo prezioso, scrigno di storie, sogni e simboli che intessono i suoi 600 anni di storia è custode geloso di segreti, leggende e misteri che inevitabilmente lo vedono protagonista.

La lapide che commemora la nascita del Duomo, foto ACAdeMI Abramson

Una leggenda è legata proprio alla sua nascita, anno del Signore 1386, e narra che in una notte fredda e tempestosa il Demonio in persona fa la sua apparizione nella stanza del Signore di Milano: GianGaleazzo Visconti.
All’impaurito nobile, ma pur sempre mortale, Satana ordina: “Costruirai una chiesa a mio nome e che sia ricca di immagini sataniche e di figure di demoni. Se rifiuti, prenderò la tua anima e la porterò con me all’inferno”.
Gian Galeazzo impaurito e preoccupato del destino della sua anima, che già di peccati non era scevra, non pose tempo in mezzo e già pochi giorni dopo, presi accordi con l’allora Arcivescovo Antonio da Saluzzo, diede il via ai lavori per la costruzione del Duomo.
Statue piuttosto curiose e doccioni a fattezza demoniaca, rivestono le pareti della Cattedrale alternate a santi e simboli della Cristianità e fra di esse si tramanda che sia immortalato anche il volto scolpito dello stesso Gian Galeazzo Visconti, sulla guglia più antica della cattedrale, detta del Carelli.

Ecco la guglia detta del Carelli in una foto dal sito della Cattedrale

Marco Carelli.era un ricco mercante attivo tra Milano e Venezia, che nel lontano 1394 decide di devolvere il suo patrimonio alla Fabbrica del Duomo, fondamentale per l’avanzamento dei lavori del Duomo e per la costruzione di quel Camposanto che con gli anni sarebbe diventato il cuore pulsante del cantiere del Duomo: botteghe, laboratori e abitazioni di coloro che prestavano lavoro per l’erigenda chiesa.
In memoria di quel gesto tanto generoso la Veranda Fabbrica dedicò al Carelli la prima delle sue 135 guglie che raffigura uno ieratico san Giorgio con bandiera in in una mano, una spada al fianco e il volto Inconfondibile di Gian Galeazzo Visconti
Gian Galeazzo,figlio di Galeazzo II e Bianca di Savoia, spodestò nel 1387 lo zio Bernabò Visconti diventando Signore di Milano, nel 1395, dietro pagamento di una cospicua somma all'Imperatore Venceslao di Boemia, venne dichiarato Duca di Milano e spese la sua vita ad ingrandire i confini delle terre assoggettate a Milano fino al 1402, quando morì di peste nel castello di Melegnano.

Ecco il ritratto scultoreo di Gian Galeazzo Visconti sulla facciata dell’Hotel dei Cavalieri in piazza Missori a fianco dello zio Bernabò, con la testa coperta da un cappuccio. Foto Archivio ACAdeMI - Roberto Bagnera

Nella terza campata della navata sinistra è posta una vetrata che ritrae la Battaglia tra san Michele Arcangelo e il diavolo, opera del 1939 di Giovanni Domenico Buffa, particolare curioso è che è l’unica fra le grandi vetrate del Duomo a raffigurare un solo episodio.

05 Vetrata che ritrae la Battaglia tra san Michele Arcangelo e il diavolo, opera del 1939 di Giovanni Domenico Buffa, foto di Giovanni dall'Orto

Fra le tante curiosità del Duomo è giusto ricordarne la meridiana zodiacale: ogni giorno, a mezzogiorno, un raggio di luce penetra dal soffitto e va a colpire la linea meridiana, indicando il periodo dell’anno in cui ci si trova. Il maggior risalto dato al segno zodiacale sulla parete a Nord è attribuibile alla sua sovrapposizione con il Natale Cristiano. Ma non possiamo dimenticare che il Capricorno è anche l’animale col quale viene raffigurato il Diavolo… i costruttori del Duomo volevano comunicarci qualcosa, ma cosa? Quali segreti nasconde questa simbologia?

Il Capricorno raffigurato nella meridiana del Duomo, Foto ACAdeMI - Franco Mauri


In ogni cattedrale gotica sono presenti elementi architettonici e simboli d’origine templare ed orientale, ed è risaputo che l’idolo adorato dai templari era il Bafometto, una sorta di Demone cornuto, pertanto è facile supporre una similitudine tra il Bafometto ed il Capricorno del Duomo.
I Cavalieri Templari costituiscono un altro mistero della nostra cattedrale perché, benché non ci siano tracce precise di un loro coinvolgimento, tutti gli studiosi si domandano da dove provenissero i soldi per la costruzione del Duomo, per il quale non si stima che bastassero le donazioni certificate, quindi ecco che il mitico tesoro dei templari viene tirato in ballo come fonte ultima di sovvenzione delle spese.

Alcuni doccioni/gargoyles Foto dal blog RiBazz Art

Fra le sculture più curiose ed intriganti del Duomo figurano sicuramente i Gargoyle, termine che al di là delle ricostruzioni etimologiche rimanda al verbo onomatopeico “gorgogliare” e quindi alla loro funzione
Di convogliare a terra le acque piovane.
I Gargoyles sono raffigurazioni mostruose comuni alle grandi cattedrali gotiche ma non sono solo raffigurazioni grottesche atte a stimolare l’immaginazione:sono simboli creati per esorcizzare il male e quindi proteggere le cattedrali stesse.

Un gargoyle in versione "ghiacciata" Foto di Romano Liverani


Una particolare interpretazione della loro funzione simbolica è che i Gargoyle servano a comunicare un’avvertimento: la cattedrale infatti può essere assediata e minacciata da quelle stesse persone che dovrebbero proteggerla e custodirla, gli spiriti maligni dunque si impadroniscono simbolicamente dell’esterno della cattedrale, poiché al suo interno non possono entrare e risiedono là come in attesa.
Questa interpretazione che nacque in seguito alla persecuzione e distruzione in Francia dell’ordine dei Templari, eccoli di nuovo, riferisce di alcune confraternite come i Compagni del Dovere di Libertà o i Figli di Salomone, i cui membri conoscevano la struttura delle cattedrali “caricarono” in senso magico i Gargoyles, aggiungendone di nuovi e collegando i potenti di allora (l’alto Clero e la Corona) a queste raffigurazioni mostruose.

Primo piano per un gargoyle, Foto di bramfab


Secondo questa tradizione quindi l’originale funzione ammonitivi e protettiva dei Gargoyle si ribalta: invece di allontanare il maligno essi avvisano che il male è già operante all’interno della cattedrale
Rimandando una più seria disquisizione sulle simbologie medievali
ad altra sede ed altra occasione sta di fatto che un’attrazione diabolica porta ad ammirare comunque questi
capolavori di scultura del “Noster Domm” che “infettano” e aggiungono un fascino inconsueto alle pareti della Cattedrale.

Candido ma feroce questo gargoyle scruta la piazza sottostante Foto di Alessandro Scotti

Oggi la cattedrale gotica milanese è vanto e cuore della città e veramente pochi milanesi conoscono
la leggenda demoniaca della sua nascita e quei pochi sono certamente scettici in proposito ma…
guardando il centro della prima foto, magari sfocando un poco la vista…non pare anche a voi di scorgere un ghigno satanico?
Duomo di Milano, notturno, foto dal sito impressivemagazine, al centro dell'inquadratura, con un po' di immaginazione è possibile scorgere il ghigno malefico di un teschio



domenica 8 ottobre 2023

Lussuria e tradimenti, la Messalina di Milano di Roberto Bagnera

All'interno della chiesa di San Maurizio in Corso Magenta ci sono numerosi bellissimi affreschi, fra i quali primeggiano quelli eseguiti da Bernardino Luini.

L'interno affrescato di San Maurizio, foto dal sito ilgiornaledellarte 

Uno di questi affreschi è dedicato alla decapitazione di Santa Caterina.
La decapitazione di Santa Caterina

Secondo un'antica leggenda pare che il pittore avesse dato alla santa le sembianze fisiche di Bianca Maria contessa di Challant, che nella vita reale venne pure decapitata con l'accusa di aver commissionato l'omicidio del marito. Per la sua fama di "donna fatale" era stata ribattezzata la "Messalina di Milano" In tutta la città erano infatti note le sue audaci imprese amorose.

Ritratto di Bianca Maria disegnato da Ambrogio Noceto nell’Album della Trivulziana

La sua storia viene narrata da padre Matteo Bandello che la descrive come una donna bellissima ma dai perfidi istinti: "Nel 1525 veniva pure accusata d'aver spinto un suo amante, certo Pietro da Cardona, a sopprimergli il marito per poter poi darsi liberamente ai facili amori".
La contessa venne infatti incolpata durante l'intransigente dominazione spagnola, di aver istigato l'innamorato del momento a uccidere il vecchio marito, il conte Masino, che costituiva il principale intralcio alle sue numerose avventure erotiche.
Secondo la ricostruzione dei fatti, il complice don Pietro tese con i suoi uomini un'imboscata al conte e l'uccise proprio mentre stava tornando verso casa.
Quando venne arrestato e torturato confessò di aver commesso il reato per compiacere alla contessa.
Questa venne imprigionata e a nulla valsero le sue conoscenze e le sue ricchezze: fu condannata a morte, mentre il suo amante-sicario riuscì a scappare e a farla franca.
La nobildonna fu decapitata proprio davanti al Castello Sforzesco e la sua testa rimase esposta per parecchi giorni al pubblico.
Si dice che continuasse a sembrare viva.

Quadro dipinto nel 1865 da Federico Pastoris, "I signori di Challant nel castello di Issogne"

La contessa di Challant, al secolo Bianca Maria Scapardone, (... – Milano, 20 ottobre 1526), è stata una ricca ereditiera casalese, andata in sposa ancora adolescente nel 1514 a Ermes Visconti di Somma, figlio secondogenito dell'aristocratico Battista Visconti.
Morto Ermes nel 1521, si risposò con il conte Renato di Challant; il secondo matrimonio della Scapardone si rivelò fallimentare, la giovane lasciò lo sposo facendo ritorno prima a Casale Monferrato e poi a Milano. Nel 1526 venne accusata di essere mandante dell'omicidio di uno dei suoi amanti e decapitata sul rivellino del castello sforzesco.

Chiesa di San Maurizio, il tramezzo con l'affresco che raffigura la "Messalina di Milano" dal sito arte it

La sua vita scandalosa e la sua tragica fine vennero narrate, come già accennato da Matteo Bandello in una delle sue più celebri novelle che, tra realtà e finzione, crearono questo personaggio. Il suo ritratto, come attestato dallo stesso Bandello ("E chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero Maggiore, e là dentro la vedrà dipinta", Novella IV, Parte I), fu dipinto da Bernardino Luini nella chiesa di S. Maurizio a Milano; il ritratto "dal vivo" va identificato con quello della committente nella lunetta di destra del tramezzo.

Particolare del volto, dall'affresco di Bernardino Luini